Seth - Capitolo 2



L'estate era iniziata; i campi agitavano le loro spighe dorate, mentre il fieno tagliato profumava la campagna. In un luogo appartato, nascosta da fitti cespugli vicini ad un laghetto, mamma anatra aveva iniziato la nuova cova. Finalmente, uno dopo l'altro, i gusci scricchiolarono e lasciarono uscire alcuni adorabili anatroccoli gialli, ma da uno ne uscì un grande anatroccolo brutto e tutto grigio.                                                                                                       

                                                                                                                                 Il brutto anatroccolo


Lascio che la pietra squadrata mi rimbalzi sul palmo e poi la lancio contro la parete di metallo. Colpisce lo stesso punto di quella precedente, accentuando appena il lievissimo concavo che si è creato, poi raggiunge le altre raggruppate a terra. Ormai è quasi una settimana che vengo qui tutte le notti. La prima volta ci arrivai per sbaglio, mentre vagavo cercando di lenire l'insonnia. È il confine della città, un indistruttibile portellone di contenimento al di là del quale vige il nulla. Gli antichi si dice contassero le pecore per conciliare il sonno, ma poiché per ragioni logistiche oggi ne possediamo solo due esemplari al solo fine di preservare la specie, la pratica avrebbe avuto poco successo. Lancio l'ultima pietra sintetica che mi rimane, e mi alzo da terra per raccogliere le altre.

La prima pietra, dicevo, l'ho lanciata per caso; un gesto istintivo ispiratomi dalla noia. La possibilità di aprire un varco e di esplorare quella parte ormai deserta della città si è fatta strada subito dopo. Al momento, tirare pietre cercando di farmi venire un'idea, è tutto ciò che possa fare. Come avevo immaginato, a dirsi dai davvero pochi danni nonostante gli innumerevoli colpi, penetrare all'interno non sarà facile. Dopotutto il fatto che i portelloni di contenimento di cui disponiamo siano infrangibili è rassicurante. Nel caso in cui dovesse arrivare un'altra ondata di Mephista potremmo stare tranquilli. Il nostro immunologo, comunque, ci assicura che non accadrà. A suo dire la malattia non potrà più raggiungerci qui sotto. I neon che simulano la luce solare si accendono gradualmente e così capisco che sta per fare giorno. So che dovrei provare a dormire almeno quelle due orette che mi rimangono prima di andare al lavoro, solo che sonno non ne ho davvero.


Quando sono quasi davanti casa, noto un movimento tra gli alberi artificiali che costeggiano ogni casetta. È Milena, mi accorgo.

«Hai tempo, adesso?» domanda la bambina, abbandonando l'albero dietro il quale è nascosta e avvicinandosi a me. Dovrei chiederle perché è fuori da casa a quest'ora ma in fin dei conti, dato che sono qui fuori anch'io, forse non sono proprio nella posizione di poterlo fare. Le sorrido, arruffandole i capelli e mi siedo sull'erba lucida. Non ho bisogno che mi dica cosa ci sia venuta a fare, qui. Vuole che le legga la favola del brutto anatroccolo. L'idea del cucciolo diverso che poi diventa cigno la rassicura e non posso darle torto. Essere una bambina di sette anni e avere i capelli neri, capisco fin troppo bene quanto sia dura. Ho subito le sue stesse discriminazioni alla sua età e qualcuno che mi guarda male c'è ancora adesso. Essendo le uniche due persone alle quali i geni non si sono evoluti, fare amicizia non è stato difficile. Il giorno che nacque per me fu come una piccola luce nel buio, la possibilità di non essere più diverso, un giorno. Un tempo la gente nasceva con colori di capelli diversi: neri, biondi, marroni e addirittura rossi. Poi dopo circa un secolo dalla creazione della nostra città bunker sul fondale dell'oceano, i geni dei nuovi nati cominciarono a subire una mutazione.

«Anche nella genetica ci sono eccezioni» mi diceva l'immunologo della comunità ogni volta che da ragazzino gli chiedevo perché fossi diverso.


Quando Milena va via, decido sia arrivato il momento di andare a schiacciare un pisolino anche io. Magari i miei nemmeno si saranno accorti della mia assenza. Prima di entrare lancio un ultimo sguardo alla città ormai del tutto illuminata. L'azzurro brillante delle pareti di metallo in alcuni punti scintilla e per un attimo fingo sia davvero merito del sole e non del gioco di luce tra i neon e la vernice.

Mia madre è nella piccola cucina. È seduta e conta tutte le monetine sparse sul tavolo. Un sorriso le si allarga sotto gli occhi stanchi, non appena mi vede. Non accenna al fatto che fossi fuori a quest'ora e torna a contare. Non mi stupisce che non l'abbia fatto. Ultimamente riesce a dormire poco quasi quanto me e non di rado mi vede rientrare all'alba. A tenerla sveglia sono soprattutto quelle decine di bottoncini argentati. Elise il prossimo mese compirà dodici anni e da allora la nostra famiglia sarà tenuta a dare un contributo annuale alla città fino a quando non troverà marito. Ci stiamo preparando già da un po' a questa spesa, ma i dischetti sul tavolo non sono mai quanti dovrebbero essere. Anche se io e mio padre lavoriamo tutti i giorni, lo stipendio che riceve la nostra famiglia come compenso per il nostro contributo è tra i più bassi. A determinare il prezzo sono vari fattori. Come prima cosa il numero delle figlie femmine. L'età delle donne che fanno parte della famiglia viene subito a seguire. E poi il numero dei figli in totale. In una società come la nostra dove il numero degli anziani aumenta sempre di più rispetto a quello dei giovani, il contributo di ogni famiglia nel dare alla luce nuovi nati è essenziale. Soprattutto visto che il periodo fertile delle donne si abbassa quasi ogni anno e che avere bambini non è più semplice come in passato.

Mi avvicino e le poggio una mano sulla spalla. Anche se non apro bocca sono sicuro che abbia capito il messaggio.

«Sì, ora torno a letto» mi dice, assicurandomi così di averlo recepito.

«Non aumenteranno per il solo fatto che li conterai da capo» le dico, pentendomi subito di essere stato forse troppo brusco. Sorride di nuovo, però questa volta il sorriso che le si allarga sul viso non è quello pieno di tenerezza che riserba a me. È invece una rassegnazione amara, che mi ferisce di rimando, bruciandomi nel petto come se avessi ingerito dell'acido.


La lascio nella piccola stanza e mi sposto verso il mio letto. Si tratta di una brandina sistemata nell'ingresso, proprio di fronte la porta. Mi accuccio sul materassino sformato e mi lascio scivolare nel sonno per quelle due ore che mi separano dal suono della radio-sveglia.

Mi sembra di avere appena chiuso gli occhi, quando il rumore di una tempesta mi sveglia. Sento le onde che si schiantano contro gli scogli e il vento e i tuoni. Per un momento, nel dormiveglia, credo di essere su una delle navi di cui ho letto sui libri. La forza dell'acqua è tale che delle goccioline fredde e salate mi raggiungono. All'improvviso l'albero maestro viene stroncato da un lampo. Il pavimento in legno sotto di me trema e io temo che la nave possa addirittura ribaltarsi. E poi sento qualcuno tirarmi le guance e capisco che qualcosa non va. Spalanco gli occhi che credevo di avere già aperti, ed eccomi seduto sulla mia brandina, con Alexandre a cavalcioni su di me che mi strapazza il viso.

«Oggi non lavori...» dice il mio fratellino di otto anni, con la vocina ancora un po' stridula dei bambini. È vero! Lo avevo dimenticato del tutto. Oggi si sposa Carlie. I matrimoni sono feste cittadine, perché dalle unioni e dai figli che giungeranno da queste ne gioveremo tutti. Quindi nessuno lavora in quei giorni.

Spengo la radio-sveglia che ancora tuona e raggiungo mia sorella Elise nella sua minuscola stanzetta che un tempo era la mia. C'è spazio solo per i due lettini, ma tanto non avremmo altro per arredarla, perciò a noi va bene così. Elise è la dormigliona di casa e nessuna tempesta è sufficiente a svegliarla. Nemmeno le capriole, i pizzicotti alle guance e una miriade di baci sul viso del nostro fratellino a volte funzionano. Ma oggi la trovo già sveglia e vestita. La maglia e pantaloncini marroni le vengono più corti del dovuto e questo mi fa accorgere quanto stia crescendo.

«Non riesco a credere che oggi Carlie si sposerà davvero...» esclama raggiante, legandosi in uno chignon la cascata bionda. Elise è sempre di buon umore quando si festeggia un matrimonio. E poi lei e Carlie sono amiche da quando erano bambine.

Aiuto il mio fratellino a indossare la sua uniforme marrone, così che mia madre possa riposare ancora un poco.

«Tutto bene, Seth?» chiede mio padre, una volta che ci ha raggiunti in cucina. Intuisco che si riferisce al fatto che sia rientrato all'alba. A quanto pare deve aver parlato con mia madre. I miei fratelli sono seduti a tavola ad aspettare la colazione, ma neanche oggi c'è niente da mangiare. Per fortuna almeno il pranzo sarà abbondante, visto che lo sposo è tenuto a offrire pane e frutta a tutti i cittadini riuniti in piazza a festeggiarlo. Elise e Alexandre non chiedono mai se c'è qualcosa per colazione, si limitano ad aspettare seduti se i loro piatti vengano riempiti o meno. Nei giorni come questi in cui non c'è niente negli stipetti, restano a conversare come se si fossero seduti lì solo a quello scopo.

«Non puoi fare più di quello che già fai per loro. Troveremo un modo per pagare la tassa di tua sorella. Non voglio che tu ti carichi altri pesi sulle spalle. Vedo che sei in pena per questa situazione e mi dispiace. Sei solo un ragazzo e dovresti pensare a trovarti una moglie» mi sussurra da sopra la spalla.

Raggiungiamo la piazza a piedi, uno accanto all'altro. Come ogni volta è pienississima di gente. Siamo così tanti che non riesco a vedere il palco al centro di essa, dove si terrà la funzione nuziale. Cerco di farmi largo tra la folla con Alexandre sulle spalle e mia sorella per mano. 

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