Danae (parte due) - Capitolo 1
«L'ansia è normale. Adesso smetti di torturarmi. Nell'antichità gli sposi non si conoscevano affatto» mi rimprovera mia madre esasperata. La zia è andata via da poco e io non faccio altro che fare paragoni tra il mio matrimonio e il suo. Mi passa un paio di scarpe e mi fa cenno di indossarle. Hanno la suola di cuoio e dei nastri avorio che si attorcigliano intorno alle caviglie. Si volta verso la porta e capisco che il discorso è chiuso.
Tolgo con cura il vestito, così da permettere a mia zia di finirlo e indosso il pinocchietto marrone e la canottiera dello stesso colore. Piego la stoffa azzurra appuntata con gli spilli e la poggio sul letto. Sì, è un vestito stupendo. E nonostante sia agitatissima, in fondo spero davvero di piacere ad Ares; di essere alla sua altezza. Visto che è ancora presto per il pranzo, decido di rintanarmi un poco in biblioteca. Dopotutto voglio approfittare dei pochi momenti liberi che mi rimangono.
I corridoi sono affollati da un andirivieni di persone che svolgono i propri lavori. Incrocio anche mio padre. Parla con il suo braccio destro, ma guarda nella mia direzione non appena mi scorge. Anche se sta ancora conversando capisco che ha qualcosa da dirmi. Lo raggiungo e appena sono abbastanza vicina mi dà un bacio sulla fronte.
«Buongiorno, cara. Oggi pomeriggio inizierai l'orientamento» annuncia, dopo aver fatto segnale all'altro uomo di aspettare un secondo. Annuisco e mi allontano con un cenno del capo che vuole essere un formale saluto a entrambi. Adesso che ho appreso che il mio orientamento lavorativo avrà inizio oggi stesso, ho ancora più premura di raggiungere la biblioteca. A quanto pare il tempo libero a mia disposizione è anche meno di ciò che mi aspettassi.
La prima cosa che faccio dopo aver chiuso la porta è quella di rannicchiarmi sulla poltrona grigia e consunta. Ce ne sono altre due, ma io mi sono sempre seduta in questa. È nell'angolazione migliore per osservare la stanza. Di certo il posto meno asettico e ostile dell'intera sezione, con le pareti di metallo quasi del tutto ricoperte di libri. La carta è rassicurante.
Quando ho deciso di venire qui avevo intenzione di leggere più libri possibile tra quelli che mi mancano. Ora però ho voglia solo di leggere qualcosa di familiare. Afferro tra le braccia alcuni dei miei libri preferiti, due grossi volumi di fiabe. Pesano così tanto che per un attimo rischio di farmeli cadere sui piedi. Torno alla postazione con i libri tra le braccia. Inizio a leggere una fiaba ma non arrivo neanche a metà che ho gli occhi così pieni di lacrime da non riuscire più a scorgere nemmeno una parola. Non che la lettura sia essenziale, visto che li so quasi a memoria, trattandosi di quelli che preferisco.
Faccio un respiro profondo e cerco di ricompormi. È vero, non amo i cambiamenti. Dopotutto però anche se la mia vita sta per cambiare in maniera radicale, non è detto che debba risultare per forza un disastro.
Riesco in qualche modo a calmarmi e passo le due ore successive a leggere spezzoni un po' di questo e un po' di quel libro. Quando esco dalla stanza per dirigermi verso quella dove consumiamo i nostri pasti, mi sento molto più leggera. Alla fine l'idea di passare del tempo in biblioteca non è stata del tutto cattiva.
Quando arrivo nella sala sono già quasi tutti ai loro posti. Mia madre non c'è ancora. La stanza è un ampio quadrato. La lunga tavolata è già tutta apparecchiata. C'è chi gioca con la forchetta, c'è chi chiacchiera. Un uomo dietro di me dice alla persona accanto che da oggi ci sarà un'altra riduzione. Sento qualcuno mugolare a quel commento e anche io faccio una smorfia. Un'altra riduzione vuol dire altro cibo in meno. Di tanto in tanto questi provvedimenti sono necessari per la salute del corpo e della mente, ci assicura mio nonno.
L'ultima volta è successo nemmeno due mesi fa. Di solito non avviene più di una volta l'anno. Anche se nessuno è contento all'idea di mangiare meno, non una sola persona osa lamentarsi più del dovuto. Sappiamo tutti che il troppo cibo è una delle prime cause della malattia. Due secoli fa la gente mangiava così tanta carne da ammalarsi di un male terribile per fortuna ormai del tutto estinto. Per decine e decine di anni hanno cercato la causa senza sapere di averla, nel vero senso della parola, sotto il naso. Dopo gli attacchi di Mephista stiamo attentissimi a non fare niente che potrebbe far tornare il morbo.
Alla fine arriva mia madre, quindi possiamo scoperchiare le portate che intanto ci sono state servite dalla nostra cuoca. Il vapore caldo e profumato di manzo artificiale e piselli apre il mio appetito come una chiave girata in una toppa. Riempio il cucchiaio della pappetta marroncina e me lo caccio in bocca. Sublime. Il pane che ci spetta è più piccolo del solito e anche il piatto a dire il vero è meno pieno. Quando passo le dita nel piatto e me le lecco, mia madre si schiarisce la voce a mo' di rimprovero. La sua espressione severa però è velata da una compassione che non riesce a nascondere. È chiaro che ha ancora fame anche lei.
«Pronta per l'orientamento?» mi chiede, mentre un'orchestra di cucchiai che raschiano scodelle ormai vuote l'accompagna. Rispondo con un sì poi non così tanto convinto. Mi guardo intorno prima di alzarmi, non è buona educazione farlo per prima. Mio nonno è già quasi alla porta e quindi ho il via libera.
«Aspettate, cari concittadini...» tuona mio padre, immobilizzandomi sul posto. «Approfitto del fatto che siamo tutti riuniti qui per annunciarvi, come forse vi sarete già accorti, la nuova riduzione.» Proprio tutti non siamo, a dire il vero, visto che Ares mangia nella sua stanza e che mia zia resta a fargli compagnia. E poi mio nonno è appena andato via, strano visto che è il sindaco. Di solito non si perde mai un discorso pubblico, ma forse non ha avuto animo di guardare la sua gente in faccia mentre veniva comunicato il nuovo sacrificio che avremmo dovuto fare.
«Ci sono stati sintomi di?» chiede un uomo interrompendosi prima di pronunciare il nome del morbo. Molti non hanno il coraggio di farlo.
«Assolutamente no. Potete stare tranquilli. A noi piace essere prudenti, tutto qui.» chiarisce mio padre con tono risoluto. Poi ci lascia andare.
Mentre seguo mia madre per i corridoi, mi chiede se so già in cosa potrei essere brava. A essere sinceri non ne ho la più pallida idea. Mi informa che proverò diversi mestieri. Il primo è quello del bucato. A farmi da guida in questa prima tappa sarà Tina, una signora a dirsi dall'aspetto centenaria. La stanza è così calda che mi si appiccica subito la maglietta alla schiena. Nella nostra città-bunker non soffriamo mai il caldo o il freddo perché le stanze sono termo-regolate ventiquattr'ore su ventiquattro. Questa stanza piena del vapore emesso dalle lavatrici e dal macchinario per stirare i vestiti a quanto pare è un'eccezione alla regola. Mia madre promette di venirmi a prendere tra un paio d'ore e va via.
Tina non si perde in convenevoli, mi riempie le braccia di capi identici e mi indica le lavatrici. Caricarle e farle partire non è poi tanto difficile. Quello che risulta davvero arduo è stirare. Il macchinario emana così tanto calore da credere che la pelle incartapecorita di Tina stia cedendo proprio per questo e non per l'età. Appendo a un gancio un lembo di lenzuolo e passo sul tessuto la punta del braccio flessibile. Poggio il palmo su un lato incandescente e faccio un volo all'indietro rovesciando tre ceste. Tenere su il lenzuolo immenso senza farlo strisciare a terra, senza bruciarmi e senza stropicciare la parte già stirata è un dramma. A un certo punto devo fermarmi per asciugare il sudore che mi sta colando sugli occhi. Quando torno al lavoro mi accorgo di aver lasciato il braccio del macchinario troppo vicino a un lembo e di averlo bruciato. Strofino la stoffa diventata giallo-marrone sperando che la macchia vada via, ma finisco soltanto per strapparla. Emetto un urlo esasperato e mi arrendo.
Dopo quasi tre ore all'inferno e una montagna di vestiti dopo torna mia mamma. Per il solo fatto di sapere che mi porterà via, l'abbraccio. Cosa che tra parentesi succede davvero di rado. Sono stanca e depressa, però mi trascino lo stesso verso la mia seconda tappa. La cucina. All'idea di poter finalmente vedere cosa si cela lì dentro quasi mi riprendo. Wanda, che deve essere già stata avvisata, ci aspetta davanti la porta. Per ovvie ragioni a mia madre non è concesso entrare, quindi mi saluta e mi dà appuntamento a un paio d'ore dopo.
La stanza è piena di scaffalature. Al centro c'è un piccolo tavolo bianco. Wanda mi spiega che prima di passare ai fornelli mi spetterà, nel caso in cui risulterà essere il lavoro adatto a me, un periodo di gavetta. Al momento quindi mi dovrò occupare di inventari e smistamenti. Perlustro curiosa gli scaffali. Non ci sono tracce di torte e bistecche, proprio come immaginavo. Averne la certezza è un po' deludente e quasi desidero non averlo scoperto. Ci sono un'infinità di barattoli di latta, invece. Alcuni con preparati precotti e altri con soluzioni solubili. Rimango sconcertata quando vedo Wanda versare una cucchiaiata di polverina bianca in un bicchiere d'acqua calda e venir fuori il piatto all'apparenza elaboratissimo che abbiamo mangiato a pranzo. Non abbiamo libri di cucina contemporanei, quindi non sapevo cucinassimo in questo modo.
Ci metto poco a ragionare su quanto siano esigue le provviste. Certo, stringendo la cinghia dovremmo farcela ancora per un paio d'anni, ma non si tratta certo di un patrimonio illimitato. Mentre pulisco i ripiani, mi viene il dubbio che la Mephista non sia la vera causa della riduzione di oggi.
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