Astrea - Capitolo 18

È un ragazzo sconosciuto la prima persona di cui decido di fidarmi. Io, che non sono mai riuscita ad aver fiducia nemmeno nei miei genitori, oggi mi rimetto a un estraneo. Gli consegno la mia libertà, permettendogli di trascinarmi tra viuzze e strade secondarie. Per una volta, metto a tacere la diffidenza e allontano il dubbio che possa trattarsi di una trappola, che dietro a tutto questo ci sia mio padre.

«Fidati di me» dice e io inspiegabilmente decido che posso. Sono i suoi capelli del colore sbagliato a convincermi o il risentimento che gli leggo sul volto quando incrociamo i Funzionari. E poi ho bisogno di una mano, ho provato a fuggire più volte e ho sempre fallito, senza un alleato a coprirmi le spalle. Con qualcuno alla guida di questa spedizione, inoltre, posso concedermi di osservare scorci di città, cosa che non mi sono mai potuta permettere in passato.

Tutto è di metallo nel bunker: le pareti altissime che si chiudono in una volta celeste, le case basse rade in alcune zone e quasi ammassate in altre, il suolo sotto i nostri piedi.

Attraversiamo tre quartieri quasi identici e poi siamo costretti a nasconderci nell'ennesimo cantuccio. Da qui riesco a osservare con attenzione la strada zeppa di edifici grigi. Dei bambini troppo piccoli per frequentare la scuola giocano ad acchiappa uno tra le mura di due case. Rimbalzano da una parete all'altra in uno spazio di tre metri e le scarpette stridono sulla ghiaia sintetica.

Tutto è di metallo nel bunker, forse anche l'ossigeno che a ogni respiro mi graffia i polmoni.

I Funzionari, sentinelle di guardia agli angoli delle strade principali, scrutano con sguardo attento i passanti.

Ho creduto che fuori dalla mia cella mi sarei sentita libera. Invece la sensazione di soffocamento mi ha seguito fin qui. È vero, ci sono le strade e le case, ma pure qui le mura di metallo coprono il cielo, pure qui non c'è via di fuga. È una prigione anche questa, solo più grande.

«La mia famiglia ti accoglierà, non temere» dice il ragazzo, mentre siamo ancora rannicchiati nel nascondiglio.

«Guarda che so benissimo dove andare, accetterò lo stallo giusto per stanotte, niente di più, mi dispiace» ribatto dura. Non sono fatta per stare tra la gente e comunque ho rischiato già troppo affidandomi a lui. Ci sarà pure un posto per me, in questa cella gigante, ci sarà pure un posto in cui non sentirmi in trappola.

«Sono Seth, comunque» fa, prima di balzare fuori dal rifugio e tornare sulla strada.

«Astrea.»

Quando finalmente arriviamo, mi fa nascondere dietro a un cespuglio artificiale che costeggia la casa. Apre la porta e solo allora mi fa segnale di correre dentro.

Al centro della stanza, poco più grande della mia cella, c'è una brandina sulla quale un bambino conta una fila di bulloni di ferro. Non c'è altro mobilio oltre al materasso sulla piccola rete e una cassettiera ammaccata che sembra fatta di latta.

Poco più distante una ragazzina impasta il pane su una lastra poggiata sul pavimento.

«Sai cosa era un binocolo?» domanda il bambino a quell'altra, un attimo prima di voltarsi verso la porta d'ingresso, i capelli biondi tagliati a scodella rasentano le sopracciglia e passano retti appena sopra le orecchie.

«Alexandre, chiama mamma e papà» proferisce Seth. La ragazzina nel frattempo ha abbandonato l'impasto di cui ha sporche le mani e si è alzata in piedi. Mi guarda.

«Ha gli occhi gialli!» urla il bambino, io indietreggio per istinto, ma una mano di Seth mi trattiene da una spalla. Trovo il suo sguardo, «Tranquilla» mi dice, «Alexandre! Non è carino». Il fratello più piccolo si limita a scrollare le spalle.

Poi entrano nella stanza due adulti, ora gli occhi di tutti sono puntati su di me.

«Mamma, papà... lei è Astrea.»

Per alcuni lunghissimi attimi, durante i quali mi pento di essere venuta qui, nessuno apre bocca, alla fine è il padre a dire: «Possiamo parlare un attimo di là?»

Seth molla la presa dalla mia spalla e lui, la madre, il padre e la sorella si spostano in un'altra stanza, il bambino resta invece a fissarmi. Sorride cercando di essere cordiale e capisco che vorrebbe dire qualcosa per rompere il silenzio e per scusarsi dell'atteggiamento di poco fa. Sospira e si prende di coraggio.

«Quindi, li hai sempre avuti gialli?»

«Sì.»

«Ah, bene»

Nelle pause tra una frase e l'altra riesco a sentire il dialogo che si sta svolgendo tra i padroni di casa al di là della sottile parete di metallo.

«È la figlia di Glauco» fa Seth.

«Non ti stanno male, comunque» dice Alexandre, che continua a fissarmi gli occhi come se si aspettasse di vederli cambiare colore all'improvviso. I suoi sono di un azzurro chiaro, acquoso.

«L'unica figlia di Glauco è morta alla nascita» ribatte l'uomo da quella che immagino sia la cucina.

«Grazie» dico intanto al bambino e cerco di simulare con scarso successo un sorriso. Non sono fatta per stare tra la gente.

«A quanto pare no.» Di nuovo Seth.

«Anzi, vorrei anche io avere qualcosa di speciale, come mio fratello che ha i capelli scuri. O come te.»

«Come fai a sapere che è la verità?» È una voce autoritaria ma gentile a parlare, la madre di Seth.

«Perché avrebbe dovuto mentire? E poi guardala, non è difficile immaginare per quale ragione l'abbia tenuta nascosta. È stata imprigionata per tutto questo tempo.» Ouch, questo fa male, Seth.

Alexandre continua a parlarmi, io non lo ascolto più, impegnata ad assorbire il dolore di uno schiaffo invisibile. Accettazione, adesso che non sono più in isolamento mi accorgo che è un bisogno importante, quasi quanto la libertà.

«Questi sono mio fratello Alexandre e mia sorella Elise» mi fa sapere Seth quando torna nella stanza. Lei sembra interessata solo al mio abito verde. Indossare un abito da cerimonia qui fuori è pericoloso. Se non voglio attirare l'attenzione devo procurarmi una divisa.

«Stasera siamo a cena da Carlie, Astrea potrà aspettarci qui e fare come se fosse a casa sua. Ragazzi, è tardi, filate a scuola. Finisco io con il pane, grazie, Elise» dice la madre. La voce decisa e gentile mi ricorda di nuovo il tessuto setoso di uno dei miei vestiti, quelli sequestrati da Labdaco sotto comando di mio padre. La ragazzina va a pulirsi le mani e Alexandre mette in ordine i bulloni utilizzati per i suoi calcoli matematici.

Seth nel frattempo si sposta verso la brandina e mi invita ad accomodarmi accanto a lui.

«Tra dieci minuti ti voglio al lavoro» gli dice il padre. È un uomo alto e ha i capelli, ormai radi, tagliati cortissimi. Gli occhi stretti e azzurri sono contornati da piccole rughe. I figli hanno ereditato da lui le espressioni ed Elise anche il naso allungato. Della madre sono le labbra carnose di Seth e del piccolo Alexandre, così come il viso a diamante del primogenito e le sopracciglia dritte. Squadro la donna, che adesso ha preso a impastare il pane al posto della figlia, non sembra molto in salute, ma prima delle occhiaie scure e dell'estrema magrezza deve essere stata avvenente.

«Per adesso puoi restare qui, ma non possiamo ospitarti per molto. È rischioso» mi dice Seth. Tanto sarei andata via prima dell'alba in ogni caso.

Mi solleva il mento e mi fissa gli occhi. Non c'è ripugno nel suo sguardo, solo curiosità.

«Hai le iridi frastagliate di pagliuzze dorate, sembrano scintille elettriche.»

«E tu, come mai hai i capelli di quel colore?»

«Sono nato così. Il mio gene per la melanina non è mutato» continua a guardarmi come se mi stesse studiando. Di nuovo penso che forse non sarei dovuta venire qui. In fondo non conosco queste persone e se in questi quindici anni di vita ho imparato qualcosa è che abbassare la guardia significa venire sconfitti.

«Smetti di fissarmi» dico e nel frattempo mi guardo intorno alla ricerca di qualcosa che possa trasformarsi in un'arma, se mai ne avessi bisogno. La stanza è davvero povera di suppellettili, «che c'è? Ti consola aver trovato qualcuno più mostruoso di te?»

«No. Ho imparato ad accettarmi molto tempo fa e quando impari ad accettarti nessuno può ferirti più» ribatte, «dormi, tu che puoi.» Si alza e raggiunge il padre e i fratelli usciti di casa qualche minuto fa. Io mi accuccio sul lettino, sento la donna con la voce di stoffa muoversi per casa, abbandono le difese e mi addormento.

A pranzo tornano tutti. Si siedono a tavola e mi invitano a prendere posto con loro. La madre di Seth mi passa un piatto. C'è un brodino di verdure che ha molta più acqua che verdure. Non ho mai mangiato niente di tanto insignificante, ma non voglio sembrare sgarbata e così finisco il pasto e ringrazio. Dalle condizioni della casa e dal modo in cui sono ridotte le uniformi devono essere molto poveri. Una cosa, forse l'unica che non ho dovuto patire nella mia prigionia, è stata proprio la povertà.

Alexandre mi pone una serie interminabile di domande riguardo la mia vita trascorsa in cella. Pensa a dei posti assurdi dove potrei nascondermi o scuse da dire nel caso in cui i Funzionari venissero a bussare alla porta e mi trovassero con loro. Alcune sono tanto fantasiose e impossibili da fare scoppiare tutti a ridere, me compresa.

«Oppure Seth può portarti nella sezione B. Dice che un giorno diventerà casa sua.» I genitori fulminano Seth con lo sguardo. Non si dovrebbe parlare della sezione che ormai fa parte del passato, così come non si dovrebbe ripensare a quella che era un tempo la vita dell'uomo là fuori. Il maestro, l'unica persona che veniva a trovarmi oltre ai miei genitori, diceva sempre: «rivangare il passato è un inutile segno di regresso.» Mi raccontò poco di quella che era Antevorta prima dell'epidemia.

«Nessuno me lo ha mai raccontato. Come arrivò fin qui?» Non ho bisogno di specificare a cosa mi riferisca, capisco dai loro sguardi che hanno compreso benissimo. Seth mi guarda, ha lasciato che la testa gli ciondolasse quasi sulla scodella per tutto il pasto e adesso invece è vigile e attento. Sembra sorpreso dalla mia domanda e nello stesso tempo impaziente della risposta.

Suo padre scosta la sedia dal tavolo e distende le gambe lunghe, poi gli occhi a mandorla si fissano su un punto lontano e inizia a parlare: «Non si sa. Successe quindici anni fa. Qualcuno disse che la Mephista era riuscita a raggiungerci per l'infedeltà di un uomo nei confronti della moglie. Qualche giorno prima, infatti, c'era stata un'esecuzione in piazza per un tradimento. Cominciarono a circolare delle voci, che nei cuori aridi il virus attecchisca meglio. Qualcuno disse che era stata la pigrizia di un gruppo di operai a rendere i loro corpi deboli perfette incubatrici per la malattia. Un'altra teoria era invece che il morbo avesse acquisito l'abilità del nuoto e che fosse riuscito a penetrare nel Bunker tramite il condotto che separa l'acqua marina dall'ossigeno. Tuo padre, l'unico che avrebbe potuto darci una risposta, non confermò e non negò nessuna teoria.»

«Cosa successe veramente è un mistero, fatto sta che quando i primi si ammalarono si pensò subito a un modo per arginare la malattia e i malati vennero messi in quarantena. Ci rimasero per settimane» aggiunge la moglie.

«Lì sotto dove sei stata segregata per tutti questi anni.» È la prima volta che Seth mi rivolge la parola da quando è tornato a casa. Nel suo tono di voce non trovo le tracce del rancore che mi aspettavo di trovare, dopo quello che gli ho detto stamattina.

«Ma poi successe anche di peggio. A quei tempi tuo padre era l'immunologo della città e braccio destro di quello che era il Sindaco di allora, Ofione. Fu questo a prendere una decisione difficile per proteggere tutti. Senza chiedere il consenso del suo vice e senza averne prima parlato con i cittadini, Rilasciò i malati in mare. I familiari non la presero bene e furono dei giorni di tensioni e rivolte. Gruppi di persone assediarono l'abitazione del Sindaco e degli uomini che lavoravano per lui, insultandoli e minacciandoli senza sosta. Vennero scuciti i Koru dalle divise e bruciati, imbrattati di vernice quelli incisi sulle mura della città. Qualche giorno dopo ad ammalarsi fu Ofione stesso e qualche membro della sua famiglia. Forse per paura di essere a loro volta Rilasciati si chiusero nella sezione B che si trasformò in un ossario» conclude l'uomo, gli occhi ancora fissi nel vuoto. 

Nota dell'autrice:

Scusa, scusa, scusa. 

Sono sparita per mesi e hai tutto il diritto di essere arrabiato con me. Mi sembra giusto spiegarti le motivazioni di questo silenzio. 

La vita reale ha preteso ogni stilla del mio tempo e delle mie energie. Lo studio, il lavoro, il corso di scrittura, la ricerca della casa e l'organizzazione di un evento impegnativo hanno catturato tutte le mie attenzioni. 

Mi sono inoltre dedicata alla riscrittura di una tragedia di Euripide tratta dal mito di Ifigenia, in chiave ucronica. La Corrimano Edizioni l'ha pubblicata all'interno di una raccolta di riscritture e il libro è acquistabile sia online che nelle librerie (anche alla Feltrinelli in via Cavour - Palermo).

In questi mesi ho messo molto in discussione la mia scrittura e questo mi ha fatto perdere la motivazione. Ho avuto dubbi sul mio modo di scrivere e anche su questa storia. Non me la sentivo, perciò, di assemblare un mucchio di parole a caso e di pubblicare il capitolo solo per amore di aggiornare. Ho ritenuto più giusto aspettare, far passare la crisi, anche a discapito delle visualizzazioni e delle classifiche. 

E adesso? Questa storia mi convince ancora come prima?  

Le lacune di questa prima bozza sono tante, le vedo. Non è perfetta la forma e non è perfetto il contenuto, però voglio continuare a stendere questa prima versione del romanzo. Voglio farlo per te e voglio farlo per Danae e per Seth e per Astrea e per Ares. Li ho lasciati sul ciglio di una pagina, con un piede sull'ultima parola che ho scritto e l'altro sospeso nel vuoto del foglio bianco. Li ho plasmati e poi li ho lasciati nel limbo delle storie a metà, ho cristallizzato il loro tempo come Piper Halliwell faceva con i demoni; e adesso è il momento di dar loro il finale che si meritano.


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