Piccola mia, piangi.
"Guarda come è bello lí fuori! Vieni andiamo a farci un giro."
Amanda lo trascinò fuori appena ebbero finito di mangiare.
Era vero.
Fuori era magnifico.
La luna splendeva in quel cielo senza stelle. Le nuvole con la loro semplicità, riuscivano a creavano uno scenario fiabesco. E se le guardavi attentamente sembravano diventare sempre più lilla.
Lí fuori, illuminati dalle luci del ristorante, i due si guardavano. Decisero di andare nel parco. Lì era tutto meraviglioso, come in un altro mondo.
Il parco all'ora era disabitato e probabilmente, se ci fosse stato un custode, chiuso. Ma da quel parco si entrava ed usciva indisturbati a qualsiasi orario.
Nemmeno il tempo di varcare la soia che lei lo trascinò a sé e lo baciò. Nessuno li guardava. Erano soli.
Amanda allora iniziò a ridere e a far la stupida. Corse fra le giostre come una bambina. Si piombò a dirotto sull'altalena, felice che non vi fosse la fila. Iniziò a dondolare sempre più veloce e piena di euforia, rideva.
"E io che pensavo che volessi stare sola con me! Era una scusa!"
La guardò come se volesse farle una predica ma il suo entusiasmo era troppo contagioso per tenerle il muso.
"Vieni e non fare il noioso. Da quanto tempo! Quanti ricordi! È incredibile come il tempo sia passato tanto in fretta."
Alan si sedette sull'altalena affianco quella di Amanda. Iniziò a dondolare lentamente, guardando in basso. Le mani erano intrecciate e lo sguardo pensieroso. Era preoccupato. Forse qualcosa lo tormentava.
Fu però una questione di attimi. D'un tratto alzò la testa e sorrise nostalgico.
"Giá." disse.
Quelle parole rimasero sospese nell'aria per qualche minuto. Amanda non disse nulla. Non sapeva come rispondergli. L'atmosfera improvvisamente si era fatta meno gioiosa ed era calata una tristezza infinita. Era come se la ragazza, in quel momento, fosse consapevole della tempesta che presto si sarebbe abbattuta. Eppure qualcosa la invitava a restare.
"Alcune volte penso..."
Questa volta vi fu un'esitazione. Come se lui fosse indeciso su cosa dire.
Non sapeva se fosse il momento giusto per farlo. Avrebbe rovinato tutto ma... ripensò a Jane e la voce nella sua testa gli disse di farlo.
"E se mi prendesse per stupido e se se ne va? Non ho una seconda possibilità." pensò.
Ma un'altra voce nella sua testa gli disse di farlo. Perché è al chiarore di luna, in un posto isolato e con una donna che ti ama che anche i discorsi più stupidi risultano tremendamente interessanti. È in posti del genere che iniziano le grandi conversazioni. Quelle che ripensandoci, sembrano solo capricci. Ma nell'istante in cui ne parli, mai cosa è più veritiera.
In quel posto avrebbe potuto dire di tutto; solo l'eco della sua coscienza l'avrebbe giudicato.
"Alcune volte" ripetè questa volta con un tono di voce più rauco.
L'aria era leggera. Le foglie danzavano dolcemente, invitandoli a ballare. Il vento soffiava e le scompigliava i capelli: era più bella così.
E lei lo guardava.
Lo guardava come se già sapesse cosa stava per dire. Perché quelle alcune volte lei le aveva viste, ma aveva fatto finta di nulla. Erano quelli i momenti più burrascosi. Ma lei lo amava.
Amava anche le sue "alcune volte".
Si sistemò il colletto e iniziò a parlare con un profondo distacco.
"Mi sembra d'essere in un limbo.
Sono sempre alla ricerca.
Alla ricerca di qualcosa di meglio e quello che ho non mi basta mai. Mi sento perso. Come se un giorno ti svegliassi sola, senza anima viva, su una nave diretta per chissà dove. Mi sembra d'essere l'alter ego di me stesso." si fermò per un po'.
La sua espressione mutò di nuovo; ora la guardava come un cucciolo indifeso.
"Ma io? Dove sono?
Ego.
E alcune volte..." Farfugliò queste parole talmente velocemente che non si capirono.
"...mi sento quel bambino. Quel bambino che faceva la fila per l'altalena, che è caduto tre volte da quel punto per imparare ad andare sullo skate. Quello che non pensa due volte alle conseguenze. Perché delle conseguenze se ne infischia. Ha solo sette anni. Cosa gli potrà mai accadere?
Ma sono un bambino e come tutti i bambini desidero crescere velocemente. E odio il bambino in me.
Altre sono l'uomo che sono ora. E invidio il bambino, ma sono troppo grande per ammetterlo. Il me-bambino non pensa. Lui fa.
Mentre io sto qui a scervellarmi come uno stupido. A fare della mia vita un dramma e di me uno stupido narratore.
Io non vivo le cose per mano mia. Sono lo spettatore, capisci il problema dov'è?"
Attendeva una risposta che non arrivò mai. Amanda capiva ma allo stesso tempo era confusa. Non sapeva che si sentisse tanto male.
Sospirò e continuò:
"E sono un bugiardo.
Ti ho detto alcune volte. Ma non è vero.
Alcune volte tu te ne rendi conto.
Alcune volte io lo lascio intuire.
Ma queste alcune volte sono per sempre.
Alcuni giorni la mia depressione è un ricordo lontano. Altri è un gran carro che corre, corre, sempre più veloce. E io sto dietro. Sto a guardare le mie scarpe bucate e il terreno arido. E la strada diventa più ripida e impercorribile. Ma io sto lì. Devo pur sempre camminare.
Devo aggrapparmi ad una speranza.
Mi capisci Amanda? Mi capisci?"
Amanda sembrava stupita. Era rimasta colpita quando aveva nominato "depressione". Sembrava felice quando stava con lei. Era una finta?
Respirava lentamente ma il cuore batteva più velocemente.
Era come se si trovasse altrove ed era molto più attenta.
Riusciva a percepire ogni singolo cambiamento: dal tono di voce alle mani scivolose che continuava a contorcere.
E come gesto istintivo appena finì di parlare gli tenne le mani. Le strinse forte alle sue. Cercando di tranquillizzarlo.
Ma non funzionava.
Quegli occhi così vacui la osservavano. E ripetevano un interrogativo a cui lei non aveva intenzione di rispondere.
"Capisci Amanda? Capisci?"
"NO!" sbottò lei preoccupata.
Non l'aveva mai visto così ed era preoccupata. Aveva paura. Perlopiù le incuteva terrore quello sguardo. Gli occhi sbarrati ora non mostravano le sue debolezze. Ma la sua pazzia.
Era sola.
E lui non piangeva.
Nonostante quello sfogo le parlava ancora dolcemente. Come farebbe uno psicopatico nei migliori film thriller.
La stessa frase in continuazione.
La stessa frase che la spaventava.
"Va tutto bene!" gli ripeteva alzando il tono di voce. Lui però non ascoltava.
Lui era su un'altra linea. Per la prima volta in sette mesi Amanda non amava quella parte di lui.
Davanti aveva un estraneo.
O forse le si era semplicemente presentato come un altro, nascondendo la sua vera natura.
"Ecco il vero Alan." pensò delusa.
"Era questo che volevi dirmi? Possiamo superare tutto insieme. Non so come, ma un modo ci sarà! Stai calmo. Ora torniamo a casa. Non ti preoccupare. Respira lentamente. Pensa ad altro. Guarda la luna. Guarda quanto è luminosa."
Ma lui continua a guardarla con quello sguardo che aveva qualcosa di sinistro.
"Guardami! Guarda me. E calmati dannazione. Non ti riconosco più."
"Sono io. Sono sempre stato io." disse lentamente e con una freddezza da far raggelare il sangue.
"Non capisci vero? D'altronde come potresti?"
Si era arreso, forse. Ma la paura di Amanda non si era placata. Avrebbe preferito stare ovunque ma non lì.
"Scusami Amanda, è stata colpa mia. Sono andato troppo avanti. È ora."
"Ora di cosa?"
"Amanda!" urlò
Silenzio.
L'eco della sua voce persisteva nell'aria e la faccia di lei mutò. Ora era spaventata, veramente. La bocca seguiva una strana curva, un misto di delusione e spavento.
Poi ricominciò, più calmo che mai.
"Non capisci? Quando lei se ne andata, la nave è partita senza lei a bordo. Quando ho assistito al suo funerale, il carro è corso via. Lasciando dietro di sé solo polvere e nostalgia. E un vago ricordo felice."
"A CHI? Diamine! Di chi cazzo stai parlando?" urlò lei esasperata. Forse era la paura che le faceva trovare un po' di fiato in corpo.
"Come fai a dire chi? Non vedevi lei quando guardavi me? Lei era la parte migliore di me. Forse ti sei innamorata proprio di quel lato. Non sei innamorata di me. Era un'illusione. Tranquilla che adesso è finita. Io posso smettere di fingere."
"Cosa..." lei lo guardava allibita.
Aveva sul serio sentito quelle parole? Lui voleva chiudere con lei? No, non voleva chiudere. Le stava dicendo che non provava niente per lei, che la loro relazione era stata una finta. Non riusciva a crederci.
Forse non erano aperti come la maggior parte della coppie, ma lei lo amava sul serio. Lei amava le piccole cose che lui faceva per lei. Ma si ritrovò a prendere che anche quelle erano delle finte.
Pianse. Le lacrime le uscivano senza che lei potesse darmi nulla.
No. Aveva detto di no. Non sarebbe rimasta ad auto-commiserarsi mentre tutto ciò in cui lei credeva andava a rotoli. Avrebbe urlato ciò che provava.
"Una finta...osi definire tutto questo una finta?" e mentre riprendeva fiato tra un singhiozzo e l'altro, lui annuiva con la testa.
"Io ti amavo sul serio. Più ti vedevo, più mi innamoravo di te. Quindi dimmi le peggiori cose ma non provare mai più a dubitare dei miei sentimenti."
Fece un respiro profondo e poi aggiunse:
"Sai...non credo di avere la tua stessa capacità nel menrtire. Non ti vergogni? Mi fai schifo!" e scoppiò in un pianto isterico.
"Non potrei amare mai nessuno più di lei." ribatte lui con la solita freddezza. Anche se questa volta si annuiva una leggera delusione
"Lei, lei, lei chi?
Chi è? Diamine!
Non ne sapevo niente ed avevi un'altra?"
"No. Sono sempre stato solo tuo, anche se non riuscivo a ricambiare i tuoi sentimenti."
"E non hai pensato nemmeno per un attimo di rendermi noto questo ~insignificante~ particolare?"
"Piccola..."
"Non azzardarti a chiamarmi in questo modo!" disse lei più incazzata che mai. La cosa che più la faceva arrabbiare era che la sua indifferenza. A quell'uomo non importava nulla di lei. Ora se ne rendeva conto.
L'aveva ingannata.
"Non ti amo.
Hai ragione. Non sei stupida e devi averlo capito. Un uomo, una volta, mi aveva concesso un frammento di speranza. E sai una cosa? Io mi aggrapperò a quella scheggia rovinata di illusioni per sempre.
Lo devo a lei.
E se per riaverla ho fatto quel che ho fatto e farò quello per cui tu mi odierai, non me ne vergognerò e non me ne sono mai vergognato.
Perché quando sei solo su una barca, sei capace di gettarti in mezzo agli squali per rivedere la terra ferma.
Perché quando sei solo in una strada desolata e a piedi scalzi, inizia a correre, nonostante i sassi ti feriscano. Perché io avevo bisogno di te, per riaverla. E non sei la prima a cui ho fatto orribili cose.
Giuro che la ritroverò.
Tu sei stata per me un peso ma ora forse sarai utile. Eri nulla per me. Ora sei un mezzo.
Sei il sangue delle ferite che non curerò mai.
Ricorda. Devo correre. Devo arrivare al carro. Se volessi medicare ogni ferita, non starei dove sono ora.
Devo essere il me Bambino. Non preoccuparmi delle conseguenze. Jane sei il mio carro.
Jane sei la mia riva.
Amanda tu la mia speranza.
Ti prego.
Non odiarmi.
Se c'è qualcuno che dovresti odiare è te stessa. Non avresti dovuto fidarti di me. Mi hai sopravvalutato. Sono una persona cattiva."
Amanda cadde a terra. Quelle parole facevano troppo male e le gambe non riuscivano più a sopportare nulla. Tremavano. Le parole non uscivano, rimanevano incastrate e quasi la soffocavano. Con la mano si toccò il viso. Voleva avere la conferma che non fosse tutto un sogno.
Era vero, purtroppo.
La mano ricadde a peso morto sulle gambe. Sbiancò. Non riusciva a muovere un singolo muscolo. Era come bloccata dai sensi di colpa, dalla crudeltà del mondo. Pianse. Pianse tutte le lacrime che aveva in corpo ma senza fare rumore. Le lacrime le ricadevano lungo il volto una dopo l'altra, come una fontana da aggiustare. La faccia diventò paonazza e gli occhi sempre più rossi. Quei celestiali occhi non risplendevano più. Non si sarebbero mai più riaccesi come un tempo.
Lui le piombò addosso.
Lei non riusciva a muovere un muscolo.
Le iniziò a mordere il collo. Prima come se fosse una carezza, un gesto d'amore. Poi iniziò a far male. Non mangiava la sua carne, cercava di spogliarla e mettere letteralmente a nudo la sua anima.
I morsi divennero più profondi. Rivoli di sangue le dipinsero la pelle di rosso.
Quelle labbra che tastavano il suo corpo la disgustavano. Sentiva la sua presenza. Il suo alito. Il suo profumo. Ma non era il lui che conosceva.
Era il sapore di morte.
La morte incombeva su di lei.
Ripensò un'ultima volta ai suoi genitori.
Al suo fratellino.
Chiuse gli occhi e anche l'ultima lacrima scese. Poteva morire. Il destino le aveva riservato una vita infelice ma non le aveva fatto mancare momenti felice.
E così qualche attimo prima di morire, sorrise.
La scena era curiosa. Lei sporca di sangue, bagnata dalle sue stesse lacrime, sorrideva alla vita.
Le ultime parole che riuscì ad udire furono: Jane sto arrivando. Poi la lama del coltello infilzò la carne.
La rosa bianca del locale, che aveva appoggiato sulle snelle gambe, fu colorata dal vivido rosso del sangue.
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