A.
Marcus era stato spinto da agitazione e paura, fretta e ansia ma in realtà tutto era accaduto più lentamente di quanto si pensasse. Dalla morte dell'uomo al suo ritrovamento erano passate infatti ben due ore. E l'uomo era stato un'ora a meditare sul da farsi. Ad esserne testimone era stato un uomo, alto snello e di bello aspetto. A, così lo chiamavano gli amici. Aveva osservato tutta la scena da una terrazza, posizionata chissà dove, che offriva un'ottima visuale. A non aveva profanato parola, si era limitato ad osservare.
Perché in fondo, anche se gli doleva ammettere, la colpa era sua...o almeno in parte. E con gli occhi di un verde preoccupante osservava tutto in silenzio. Giudicava le azioni dell'uomo pronto ad ammazzarsi. Empatizzava. E tal volta comprendeva i suoi lamenti. Ma nemmeno per un attimo A si sentì in dovere di intervenire.
"Perché mai? È una sua scelta." Si ripeteva.
A. non era un uomo insensibile da come queste poche righe lasciano intuire. A. era impulsivo, a tratti arrogante e superficiale, dolce e tremendamente puntuale. E sarebbe un errore definirlo insensibile.
A. non era un semplice nome, o meglio lettera. A. era una persona sofferente da anni che collezionava tormenti quasi fossero pietre preziose. Preferiva portare i suoi demoni che accollarsene altri. Portava il suo fardello da solo, solitario. Ma allora non aveva ancora capito che questo l'avrebbe portato alla rovina. Che ogni volta che rifiutava un aiuto, scappando, le sue colpe triplicavano e l'anima gentile che correva in suo aiuto, precipitava nel baratro.
A. voleva far del bene. Voleva migliorarsi. Voleva rallegrare gli altri. Ma lo seguiva una scia di distruzione. A lui stava davvero a cuore la sorte dell'uomo tuttavia le cose dovevano andare così. Lui non poteva fare nulla contro il cerchio che si era creato. Solo ubbidire.
Ed ecco un altro demone che si materializzava davanti ai suoi occhi, presto gli sarebbe appartenuto.
Una raffica di vento lo sorprese immediatamente. Il cappotto marroncino ondeggiò lievemente. Appena il vento si placò udì la voce della sua fidanzata.
"A entra, ti perderai lo spettacolo" - diceva lei, sforzandosi di non alzare troppo il tono di voce. Lui fece finta di non sentirla, e rimase ancora un po' a guardare il vuoto.
"AAA che fai lì impalato? Si sta alzando il vento, muoviti ad entrare." ripeteva lei.
Si concesse ancora un attimo poi entrò.
Appena distolse lo sguardo, l'uomo si era sparato: tutto era andato come doveva andare, purtroppo.
Amanda era davanti a lui, raggiante come sempre anche se ora risultava un po' infastidita.
"Insomma perché mi fai aspettare tanto?"
"Ehm...la vista è così bella, sono rimasto ammaliato. " A. si fermò per un attimo e rivolse un debole sorriso mostrando le fossette.
"Scusami."
Fingere gli risultava tanto naturale che quasi non riusciva più a distinguere i suoi sentimenti. C'erano alcune volte in cui fingeva tanto bene che quasi si autoconvinceva d'essere innamorato di Amanda. Altre si ricordava il suo vero scopo.
"Scuse accettate, ora muoviti!" disse lei con tono beffardo.
Amanda non era una cattiva ragazza, non meritava quello che A. le avrebbe fatto.
Entrarono entrambi nella grande stanza. Era un museo, adibito per l'occasione. L'oro e il bianco regnavano in quella stanza. E vi erano centinaia e centinaia di affreschi e statue. I lampadari erano di cristallo e riflettevano la luce creando uno strabiliante gioco di colori. Erano state disposte alcune sedie e poltroncine ma era chiaro che gli organizzatori non si aspettavano una simile affluenza. La maggior parte degli spettatori stava in piedi e A. e Amanda appartenevano a questa categoria. Erano arrivati addirittura in anticipo ma i posti erano tutti occupati o riservati.
A rompere l'agghiacciante silenzio fu il presentatore che annunciava l'inizio dello spettacolo. Amanda era elettrizzata all'idea. A. decisamente no. Aveva anche cercato di sviare la fidanzata e magari fare altro ma lei aveva insistito fino ad avere una crisi isterica.
Amanda amava il solo pensiero di vestirsi elegante, andare ad un evento importante, far parte della schiera degli intellettuali ma di musica non gliene importava nulla. Questo capriccio era nato per colpa di una sua "amica". Anche se più che amica, le due ragazze erano in una eterna competizione e invidiose l'una dell'altra. L'amica, Anastasia, era solita andare con il suo fidanzato ogni settimana al teatro. E amava vantarsi di come non sapesse più come spendere i suoi soldi. A questa provocazione, Amanda si era offesa terribilmente, ma davanti all'amica aveva trattenuto il suo istinto omicida. Appena Anstasia era uscita dal cancello di casa, Amanda passò l'intera serata con A. a criticare il comportamento sgarbato dell'amica. E così, in preda all'odio e alla gelosia, aveva prenotato il concerto di un noto pianista francese e dei suoi allievi. A. si era arrabbiato tantissimo. Non solo perché lo aveva trascinato in quella storia senza chiedergli nemmeno il permesso ma anche a causa di uno spiacevole evento del suo passato. Storia che non poteva raccontare ad Amanda. Lei si era insospettita terribilmente, si era arrabbiata e qualche lacrima aveva iniziato a scorrere lungo il viso. A. era stato costretto ad accettare.
Ora, vedendola, era certo d'aver fatto la cosa giusta. Era raggiante e sorrideva, era una gioia per gli occhi. E nonostante l'uomo sapesse il vero motivo che aveva spinto Amanda a venire, era felice di averle regalato un momento di gioia. Lo doveva. L'atto che avrebbe commesso sarebbe stato imperdonabile.
Il presentatore si scusava ancora del terribile ritardo. Non sembrava a proprio agio su quel palco. Probabilmente non aveva mai presentato ad un evento di gala. Avvertiva il pubblico che ci sarebbe un ulteriore ritardo di mezz'oretta. In quel frangente i due giovani quasi non si rivolsero la parola, se non per formalità. Amanda era troppo estasiata. A troppo pensieroso. Nella sua mente riproduceva la scena del suicidio più volte. Era strabiliante come ricordasse ogni particolare: l'uomo che cammina a passi lenti in mezzo al boschetto, la sua mano che cercava di afferrare qualcosa, i suoi pianti, le sue labbra che si muovevano, il vento e infine gli attimi di esitazione. Aveva esistano prima di premere il grilletto. Come se volesse chiedersi un'ultima volta se quello che stava facendo fosse giusto. La risposta a quella domanda era si, ma forse se ne sarebbe pentito. Era scioccante osservare con quanta facilità la vita abbandona un corpo. Un attimo prima era lì, vivo, sano e un attimo dopo no.
Un solo sparo. Dritto alla testa. Morte istantanea. Il sangue ovunque.
A cercò di scacciare questi pensieri. Non doveva soffermarsi troppo, lo facevano stare solo peggio.
Dopo attimi di esitazione si accingeva a salire il primo pianista. Era alto, snello, un ragazzino. Aveva studiato molto ma doveva ancora perfezionarsi. Le note erano tutte corrette e anche la metrica ma era come se mancasse qualcosa. In fondo era un esordiente, se davvero gli interessava il piano, sarebbe migliorato presto.
La seconda fu una ragazza. Più grande, più esperta. Forse quel genere di persone che studiano e si cimentano in pieno in una passione fin da piccole. Suonò un brano di *inserisci pianista* molto difficile e complesso. Suonò alla perfezione. La sua musica era commovente. Sapeva dare il giusto peso alle note e la melodia sembrava quasi che comunicasse qualcosa. A volte chiudeva gli occhi durante la performance. E in quei momenti il suono risultava più puro ma mai banale. Solo alla fine sbagliò qualcosa. Uno stupido errore commesso dall'ansia o dalla troppa fretta.
Una nota sbagliata che purtroppo risuonò in tutta la stanza come il suono di vetri rotti. Lei si bloccò. Presa dal panico e dall'ansia.
Non credeva di sbagliare. Tutti tacereno. Né una parola, né un rumore.
Silenzio assoluto.
Ad un tratto qualcuno iniziò ad applaudire. Era il suo maestro. Un tipetto eccentrico che A aveva avuto il piacere di incontrare. Peccato che il gran pianista non lo ricordava.
Tutti lo seguirono e guardavano con occhi stupefatti e compassionevoli la giovane. Lei si alzò, un po' imbarazzata e con le guance rosse. Si inchinò e girò frettolosamente su se stessa. Era davvero abbattuta. Sarebbe voluta scendere immediatamente dal parco, magari correndo e piangendo ma doveva mantenere un po' di decoro. Si fece forza e camminò a testa alta. Probabilmente non avrebbe mai dimenticato quel momento. Alcuni suoi amici subito si complimentarono con lei, senza accennare all'errore commesso. A però non aveva fatto caso alla scena. Non si era accorto dell'errore. Nella sua mente i ricordi si mischiavano con l'immagine della pianista intenta a scorrere le dita affusolate sui tasti.
Ecco perché non voleva andare. Sapeva che quel concerto gli avrebbe riportato alla mente bellissimi ricordi, che adesso ferivano come spade. Ora sul quel palco non c'era la giovane pianista alle prime armi ma di talento...no, su quel palco c'era Jane. Jane con i suoi lunghi capelli neri, mai in ordine. Con gli occhi così scuri ma pieni di vita. Con quel sorrisetto che sapeva farti sentire a casa. E quelle labbra. La forma del suo viso. Il suo corpo. Le sue gambe. Le sue mani. La sua stramba abitudine di salire sul palco scalza. La sua dolce melodia. Quando la sera prima di un'esibizione non riusciva a dormire. I suoi caldi abbracci.
Jane.
Ma era tutto finito. Questo pensiero la tormentava. Si era illuso. Credeva che la parola fine non sarebbe mai arrivata per lui. Sperava che fosse un sempre.
Ma l'amore si affievolisce con il tempo. Forse il "per sempre" è una storiella per addolcire la vita.
Forse non riusciremo mai ad amare una persona come la prima volta.
E probabilmente il "per sempre" che A. cercava, non è mai esistito. Ma illudersi di ciò è stato uno dei suoi migliori sbagli.
Peccato che A. non l'abbia mai capito.
Sì... perché A. crede ancora in lei. Ci spera ancora. Spera che, ovunque sia, lei lo ami ancora. Perché in fondo quando qualcosa di molto prezioso ti viene strappato, cambi inevitabilmente. Magari diventi più ottuso, cocciuto. Più determinato e speranzoso. O semplicemente ti abbatti.
La costante è il cambiamento.
A., quando accadde ciò che il destino aveva stabilito, divenne strano. Il cambiamento lo scosse più del normale.
Tanto è l'amore, tanto fa male.
Come una rondine che vola nel cielo. Più vola in alto, più lo schianto sarà forte. Ma la paura di cadere, non deve fermare l'istinto di volare.
E una volta schiantati, non resta altro da fare se non raccogliere i cocci. Come raccogliere pezzi di vetro con le mani, finisci sempre col tagliarti.
Come voler giocare con il fuoco... perché lo fai, se sai che dopo starai peggio?
Ed era quello che pensava A. in quel momento.
"Perché sono venuto a questo dannatissimo concerto. Sapevo che ti avrei pensata. Che ti avrei rivisto, anche se solo nella mia mente. Perché continui a vivere QUI, nella mia testa?
Perché non riesco a vederti? Cosa non ti rende reale? Cosa mi rende reale? Vorrei abbracciarti forte come facevo un tempo.
Eri capace di farmi urlare, stando zitto.
Eri capace di farmi svanire fra le tue braccia. Nessuna ci riesce. Sei unica. E te ne sei andata."
A. voleva uscire, o gridare, o uscire gridando, ma non poteva farlo. E mentre i suoi pensieri si calmavano, gli applausi andavano a sfumarsi.
Ora c'era quiete.
Nessun rumore dentro la stanza.
La sua mente sgombra.
Ma solo perché lei si era appisolata, in realtà c'era.
Con prepotenza reclamava quel luogo che lui chiamava la sua mente. Pretendeva di sedersi in cima ai suoi pensieri e sentirsi una regina da lassù.
Lui non riusciva a sopportarlo.
Una lacrima cadde.
Cadde rumorosamente come solo tanta tristezza sa essere. Come se fosse piombo e in quel momento si sentì infinitamente piccolo.
Nessuno si era accorto di nulla. Come non avevano fatto a sentire tutto quel frastuono?
Il concerto continuò ma per A non fu un piacere. Era come se si rifiutasse di ascoltare la musica. Come il suono della voce sott'acqua: lontano e un debole sussurro.
Amanda al termine era contentissima ed emozionata di potersene vantare con la sua amica. Per A fu una liberazione tornarsene a casa. Si accasciò sul letto e pensò un'ultima volta all'uomo morto e alla sua Jane.
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