primo - las costillas de los muertos


All'alba, Maria fu svegliata di soprassalto da un incubo.

Stringeva tra le braccia un bambino che aveva il nome di suo padre, e continuava a baciarlo mentre lui strillava e si dimenava. Uno stormo di uccelli scendeva in picchiata attorno a lei, all'improvviso, e le tirava i capelli fino a farla gridare per il dolore. Il bambino allora chiamava mamma, e lei provava ad accucciarsi su se stessa per proteggerlo, nonostante le uccelli artigliassero soltanto i suoi lunghi capelli neri e il soprabito che aveva addosso.

A svegliarla del tutto fu il rumore del vento contro le sottili finestre della sua camera da letto, forte e aggressivo come un carcerato che scuote con rabbia le sbarre della sua cella. Accese la lampada da lettura sul comodino e lanciò un'occhiata alla sveglia, sbuffando quando i suoi occhi incontrarono le lancette fosforescenti. Le quattro e un quarto.

Allungando il braccio, scoprì che accanto a lei il letto era vuoto, riempito soltanto dalle coperte sfatte di un abbandono frettoloso vecchio di tre anni. La foto del fuggitivo era incorniciata poche spanne più in là, appoggiata sul comodino nella polverosa illusione che quell'immagine non appartenesse a un passato fatto di rimpianti ma piuttosto a un'intima realtà popolata da sospiri e lenzuola ancora calde.

Javier sorrideva; mostrava una fila di denti bianchi sotto a un paio di baffi scuri, mentre con fierezza sfoggiava quella sua giacca di pelle comprata apposta per la sua laurea. Bisognava festeggiare, e per festeggiare bisognava essere eleganti. Cinque anni prima, chi aveva scattato quella fotografia non aveva avuto il coraggio di dirgli che il cammello aveva smesso di essere elegante da un po'.

Fuori la tempesta cominciava a quietarsi, quando Maria aprì la finestra della sua camera da letto e si affacciò sulla città ancora assopita: l'aria era gelida, tagliata dai grossi chicchi di ghiaccio che cadevano da un cielo grigio di nubi. Soffiava un vento impertinente e scomposto, ma Bogotà era avvolta in una pace che era tutta sua, popolata dal guaire di un cane a pochi isolati di distanza e dalla sirena di un'ambulanza persa nella nebbia. Assottigliando lo sguardo sul groviglio di strade appena scrutabile nella foschia notturna, Maria si chiese se c'era davvero, da qualche parte, un bambino che piangeva e chiamava mamma.

Fece colazione da sola nella sua minuscola cucina, seduta al tavolo di plastica su cui consumava ogni pasto. Julius, il gatto randagio che suo fratello le aveva regalato tre settimane prima, la osservò per tutto il tempo dal mobile dei fornelli, miagolando di tanto in tanto per far pesare la sua affamata presenza in quel mattino troppo grigio e piovoso per uscire in strada a cacciare qualche topo.

Sorseggiando del caffè, Maria pensò che quella bestia era diventata particolarmente sofisticata, per esser cresciuta in mezzo ai rifiuti del Chapinero. Mentre spalmava un pezzo di burro sul pane, la spiò farsi strada con aria pretenziosa tra il tostapane e il lavello, attenta a sedersi proprio di fronte al tavolo per poi mettersi a fissare il cibo. Alla fine, riuscì a vincere: Maria rinunciò alla sua fetta di pane e burro, e Julius balzò soddisfatto sulla tovaglia a margherite per gustare un premio di tutto rispetto. Certo, non erano le generose porzioni di tonno in scatola che Bruno gli rifilava quando passava in visita a sua sorella, ma per un gatto quello era un pasto più che dignitoso. Fagocitò tutto con estremo compiacimento, dopodiché tornò a zampettare sul tavolo e si accoccolò infine nella sua postazione nella cesta vuota della frutta, iniziando a farsi le unghie nel vimini con aria del tutto solenne.

Maria non toccò altro cibo, ma si sforzò di bere del caffè, seppur svogliatamente, cullata dal ticchettare quasi ipnotico del ghiaccio contro il cornicione.

Dopo essersi lavata, si buttò addosso un paio di jeans troppo larghi e si coprì il petto con un maglione a rombi che un tempo era stato di suo fratello e che portava ancora il suo odore di bambino mai cresciuto. Si rimproverò di essere troppo magra quando davanti allo specchio infilò una cintura nei passanti, e con rammarico constatò di aver perso altro peso da quando era tornata da Palmira: anche con il maglione addosso poteva senza fatica contarsi le costole, accarezzandole una ad una con il dito che passava a esplorarle seguendone i contorni attraverso la lana. Perse tempo a domandarsi se anche ai morti si vedessero le costole, perché ultimamente al lavoro non sentiva parlare che di cadaveri, ma di persona non era mai riuscita a vederne uno. E poi, quando Javier l'aveva vista uscire dall'aeroporto, aveva fatto la stessa faccia che faceva sempre quando parlava di assassinii: aveva spalancato gli occhi neri, dischiuso le labbra, si era piegato in avanti ... forse gli era sembrata morta. Sicuramente il colorito la diceva lunga.

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