"Vista" o "La sfocatura"

I passi di Jake echeggiavano tetri nella tromba buia delle scale. Si perdevano in echi che salivano rimbombando per tutti i piani ancora da superare. Sembravano ripetersi all'infinito, come copiati e incollati lì da un computer con il pallino per la cacofonia.

Ogni volta che arrivava ad un pianerottolo leggermente illuminato, riprendeva fiato e si voltava per guardarsi alle spalle. Acuiva l'udito il più possibile ma alle sue orecchie non arrivava nulla se non il leggero rombo di traffico lontano e qualche clacson strombettante perso nell'aria.

C'era qualcosa di strano quella sera, una sorta di sensazione che gli si era appiccicata addosso e che stentava a lasciarlo. Era tutto nato da quelle fotografie, o meglio, da quello che vi aveva visto...

Scosse la testa riprendendo a salire i gradini nascosti dal buio finché non giunse al suo piano, le tre porte scure sembravano voragini nere sul muro grigio e scrostato. Frugò nella grossa cartella che portava a tracolla, scostando con la mano vecchie penne esaurite e foglietti di carta appallottolati. Toccò con i polpastrelli la grossa custodia della camera fotografica e istintivamente rabbrividì, il ricordo di qualche ora prima lo avvolse. La faccia della ragazza baluginò qualche secondo come una macchia sfocata di fronte ai suoi occhi, poi scomparve così com'era venuta.

Si agitò e scavò più in fretta nella borsa finché le sue dita non toccarono il freddo metallico delle chiavi. Le strinse nel pugno senza farle tintinnare e le inserì nella serratura. Due, tre giri in senso antiorario e la porta si aprì con un sibilo che rimbombò giù per tutto il palazzo avvolto nell'oscurità. Entrò dopo aver grattato le scarpe sullo zerbino marcio. Le lettere sbiadite di benvenuto lo salutarono come a monito mentre ad intermittenza vi passava sopra le suole.

Finalmente varcò la soglia e si richiuse la porta alle spalle. Il corridoio, quasi completamente al buio, si allungava di fronte a lui in modo simmetrico. Appoggiò la schiena al legno scuro della porta e ascoltò il suo respiro farsi più lento, il suo cuore che moderava i battiti.

La ragazza... Il suo volto lampeggiò di nuovo sotto le sue palpebre chiuse. Continuava a vederla eppure non era lei il problema. Si sfregò gli occhi col palmo della mano lasciando gli occhiali di sghembo sul naso. Quella strana sfocatura che le circondava il viso, quell'ombra che aveva visto solo sullo schermo della macchina fotografica...

Si diede una pacca sulla fronte, forte, con il palmo aperto. "Smettila" si disse. Ci doveva essere una spiegazione, qualcosa di logico, di naturale. La Reflex doveva avere qualche problema senza dubbio, non poteva esserci altra soluzione.

Si guardò in giro ora che gli occhi si erano abituati alla quasi totale assenza di luce. Solo dalle finestre della cucina il debole chiarore della città lontana illuminava l'interno.

Si alzò, prese la grossa cartella e la ripose nell'armadio accanto alla porta. Fece un sospiro quando la aprì per estrarne la custodia della macchina fotografica.

La sollevò e richiuse pesantemente l'armadio. L'anta cigolò violentemente espandendo scricchiolii nell'intera casa vuota. Jake percorse il corridoio, accese la luce e si infilò nello studio. La scrivania ingombra di cartacce, vecchie foto e appunti su post-it, reclamava pietà dall'angolo opposto alla porta. Vi passò sopra una mano, sgomberando di quanto bastava una porzione di legno chiaro per poggiarci sopra la Reflex. Sganciò le cinghie che la tenevano chiusa e ne estrasse prima gli obiettivi poi la fotocamera stessa. La superficie liscia rifletteva la luce gialla della lampada da ufficio, inondando la scrivania di riflessi sfocati.

Prese un cavo USB e lo inserì nell'incavo delle macchina, poi accese il computer. Il vecchio portatile si avviò con un fischio basso delle ventole sputacchianti. Era ora di cambiarlo ma non aveva abbastanza soldi. Aveva sperato che quel servizio fotografico avesse potuto sollevare le sue sorti di fotografo in erba, ma le cose non erano andate esattamente come previsto.

Cercò di ricordare di nuovo il volto della ragazza, pallido e nitido come quando l'aveva vista arrivare all'appuntamento. Il collo stretto in una sciarpa pesante e i capelli scuri che le volavano dietro come una corona di fiamme nere. Una bellezza sincera e semplice, come un'alba invernale grigia e fredda.

Occhi di ghiaccio balenarono nei suoi ricordi, la pelle candida della giovane attraeva la luce delle lampade. "Elizabeth Brighton", così si chiamava. Si era mossa con pochissima disinvoltura nella stanza, sotto i faretti alogeni. Sembrava reticente a farsi fotografare, come se ci avesse ripensato. Quegli occhi tristi e azzurro slavato gli erano sembrati sul punto di minacciare un pianto...

Una notifica del sistema operativo scosse i suoi pensieri come una sveglia. Teneva ancora stretta in mano la macchina fotografica quasi a volerla stritolare. Fece un profondo respiro imponendo di calmarsi e inserì il cavo USB nella rispettiva presa del portatile. I "click" del mouse gli riempirono le orecchie finché non riuscì ad aprire la cartella dei file. Esitò prima di posizionare il puntatore sulla raccolta di foto più recenti. Sembravano totalmente bianche per via dello sfondo che aveva usato quando le aveva scattate, ma sapeva perfettamente che quella macchia scura al centro era la ragazza, era Elizabeth.

Cliccò con un movimento nervoso dell'indice e la prima foto in ordine cronologico si aprì. Lo sfondo chiaro, candido e senza linee, la faceva da padrone eppure, minuscola nel suo abito nero, Elizabeth vi si stagliava in contrasto. Il fuoco era perfetto, il vestito si vedeva nei minimi particolari, ma qualcosa non tornava. Il volto della ragazza, la faccia pallida ed elegante, era coperta da un'ombra nerastra, un alone buio e smangiucchiato che assomigliava ad una macchia sullo schermo.

Jake si passò un mano sul volto, nervoso, e mosse la rotellina del mouse per scorrere le altre foto. La chiazza era sempre lì, sempre sul volto della ragazza in ogni singolo scatto, come una nebbia che ne confondeva i tratti.

Chiuse gli occhi e reclinò la testa all'indietro, la sedia cigolò in uno scricchiolio desolato. Perché lei era rimasta così spaventata quando gli aveva fatto notare che c'era qualcosa che non andava? Aveva raccolto i suoi vestiti e se n'era andata il più in fretta possibile, mormorando che non avrebbe dovuto accettare, che non avrebbe mai dovuto fare una cosa del genere. Era uscita nella serata gelida sbattendo la porta dello studio e perdendosi fra i passanti imbacuccati nei cappotti. "Perché?"

Jake riaprì gli occhi e scrutò ancora la fotografia sullo schermo del computer. La sfocatura grigiastra era ancora lì, indefinita e intangibile come una nebbiolina di primavera. Cos'era quell'alone buio? Cos'erano quelle forme tetre che si protendevano dalla schiena della ragazza verso l'obiettivo quasi a volerla nascondere...

Il bip della batteria carica della macchina fotografica lo fece sobbalzare. La sedia gemette ancor più violentemente quando con un imprecazione si allontanò dalla scrivania dandosi una spinta con i piedi. Cercò a tentoni nei jeans per trovare il cellulare, sperando che avesse ancora un po' di carica. La luce dello schermo lo abbagliò quando lo accese, lo sfondo bianco ritraeva un'alba fredda poco prima di un acquazzone. L'aveva scattata lui stesso quella foto, tanti anni prima, quando ancora nutriva speranze in quel lavoro.

Aprì Whatsapp e scorse le chat fino a che non trovò quella contrassegnata col nome "Elizabeth". Una sagoma grigia, leggermente sfocata, sostituiva l'avatar personale. La aprì. L'ultimo messaggio risaliva a qualche ora prima, era un "Va bene" seguito da una faccina sorridente, mandato dalla ragazza dopo che avevano concordato l'orario.

Jake premette il tasto per avviare una registrazione vocale. Esitò qualche attimo mentre i secondi sul display scorrevano, poi si decise.

-Ciao Elizabeth, sono io, Jake. Volevo sapere perché te ne sei andata così in fretta, io devo scusarmi... Ehm... Probabilmente c'era un problema con la macchina fotografica, non so... Sto guardando di nuovo le foto dal computer e pare esserci una sfocatura intorno al tuo volto, probabilmente un problema dell'obiettivo- disse, concludendo il messaggio con una risatina forzata che risultò odiosa e irritante perfino alle sue orecchie, ma non riuscì a fare di meglio.

Posò il cellulare con lo schermo acceso e si alzò. Improvvisamente gli era venuta sete. Uscì dallo studio e superò il corridoio buio, la moquette polverosa alzava nuvolette ogni volta che vi poggiava sopra un piede. La porta della cucina era aperta così come gli infissi esterni della finestra. La città luminosa si espandeva oltre i vetri luccicanti inondando di un debole chiarore tutto l'ambiente. Si diresse nell'angolo opposto alla porta dove un piccolissimo frigorifero taceva, in silenzio. Quando lo aprì la luce gialla gli ferì gli occhi già abituatisi alla semi oscurità della stanza. Una macchia violacea gli si mosse d'innanzi mentre si riempiva un bicchiere d'acqua fresca e lo mandava giù in due sorsi. La chiazza informe si mosse sulla retina come una cellula, pulsante e scura come un livido. Jake si stropicciò gli occhi per farla andar via ma quella rimase lì, inesorabile.

Pensò a quanto assomigliasse alla sfocatura che inondava il viso della ragazza nelle foto e si sorprese a sorridere. Un sorriso stanco e tirato, in un certo senso sarcastico, ma di ironia e sarcasmo in quella situazione ci vedeva ben poco in realtà.

"Mi dispiace", aveva detto la ragazza prima di scomparire, "Non sarei mai dovuta venire qui". Anche lei aveva parlato senza ironia, quasi con rammarico. Quelle parole rimbombarono nella sua mente mentre si allontanava dalla cucina e rientrava nello studio illuminato solo dalla luce giallastra della lampada da ufficio. "Mi dispiace per cosa?", si chiedeva Jake.

Il cellulare era ancora acceso sul piano ingombro di cartacce. La luce bianca dello schermo si rifletteva insieme a quella del computer sulla superficie lucida della macchina fotografica facendola assomigliare quasi a un ectoplasma. L'obiettivo, simile ad un occhio cieco illuminato da bagliori azzurrini, lo osservava senza vederlo.

Prese in mano il cellulare e guardò le spunte dell'ultimo messaggio: erano blu. Elizabeth doveva aver ascoltato le sue parole. Si stropicciò un occhio mentre una strana sensazione gli si piantava nello stomaco, un senso di disagio e malessere che si acuiva.

"Sta scrivendo" era infatti apparso sullo schermo. Jake si sedette trepidante, gli occhi fissi sullo schermo mentre l'alone viola pulsava ancora, ma più tenue, ad un angolo del suo campo visivo.

"Mi dispiace" apparve dentro il fumetto bianco. "Non volevo che accadesse".

Jake strabuzzò gli occhi, interdetto. Che diamine voleva dire con "Non volevo che accadesse"?

Premette di nuovo il pulsante della registrazione vocale. Stavolta parlò in fretta, la voce nervosa.

-Che vuoi dire? Come facevi a sapere che sarebbe accaduto?-

Lasciò il pollice e il messaggio incominciò a caricarsi per essere recapitato. I suoi occhi volarono ancora allo schermo. La foto che lo aveva inquietato più di tutti era ancora lì, il bianco dello sfondo che strideva con l'abito scuro della ragazza e quella strana macchia grigia che ne celava il volto e parte del busto.

Posò il cellulare e riprese in mano il mouse. Aprì il programma di correzione immagini e incominciò a giochicchiare con i contrasti e con le ombre.

La sua ansia incominciò a salire mentre regolava i vari parametri. Il suo cuore batteva in enormi balzi come se oltrepassasse infinite staccionate ogni volta che pompava sangue gelido nelle vene. C'era qualcosa nella foto, qualcosa che si intravedeva soltanto, una figura che si protendeva dalla schiena della ragazza e cercava di raggiungere l'obiettivo.

Un volto scarno, grigiastro, si chinava sulla faccia di Elizabeth e ne sfocava i contorni. Si allungava col mento in fuori, la bocca aperta in un urlo muto. Eppure la cosa che lo spaventò di più furono gli occhi. Due enormi buchi, scuri e neri come niente aveva mai visto, si allargavano sfocati e ciechi in uno sguardo avvolgente e ipnotico.

Jake lasciò andare il mouse con un moto di timore. Si accorse di stare tremando, solo non capiva se per il nervosismo o per la paura. Voleva con tutto sé stesso darsi dell'idiota per le sensazioni che stava provando in quel momento eppure la sua stessa mente non riusciva a pronunciare quelle parole. Voleva credere che era solo una fotografia, una dannatissima fotografia sfocata, ma non ci riusciva.

Riprese il cellulare, lo schermo acceso illuminava ancora il muro di un riflesso bianco evanescente. Preso da ciò che aveva scoperto in foto non aveva sentito la notifica della risposta di Elizabeth.

"Mi dispiace" aveva scritto pochi minuti dopo. "Adesso lo vedrai. Adesso verrà per te".

Jake scosse la testa intontito, il mondo vorticava intorno ai suoi occhi. Elizabeth sembrava sapere, sembrava essere al corrente di ciò che aveva visto.

"Adesso lo vedrai. Verrà per te."

Guardò meglio lo schermo del computer. C'era ora un'ombra sulla foto che si sovrapponeva alla figura lattiginosa sottostante, una macchia scura e impolverata come di sporco. Posò il cellulare e con il dorso della mano cercò di eliminarla. Strofinò due, tre volte, poi la macchia si mosse e Jake sentì il cuore cadergli in un tonfo. Lo sentì sprofondare nella vescica come in un tuffo a peso morto.

Si girò alle sue spalle e lo vide. Era un enorme sfocatura, una grossa macchia perlacea e semitrasparente. Due enormi buchi scuri gli trapassavano il viso all'altezza degli occhi. Voragini di tenebra buia e insondabile come pozzi neri.

"Adesso lo vedrai"  pensò, poi venne inghiottito dall'oscurità tetra di quegli occhi. 

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