Musica
Mercoledì, 9 settembre 2015. Italia, scuola di musica. Tempo soleggiato, ventoso.
I piedi di Eli dondolavano leggermente mentre lui, seduto su una sedia in un angolo della stanza, teneva abbracciata la sua chitarra.
Aveva suonato ininterrottamente per quasi due ore. La sua lezione settimanale di musica era il suo momento, il suo regno. Da quando, a cinque anni, aveva posato per la prima volta gli occhi su quella vecchia chitarra scordata, da quando l'aveva toccata, fatto scorrere le sue dita sulle corde tese, aveva capito che quella sarebbe diventata la sua amica di una vita. L'aveva contemplata, accarezzandola e guardandola con degli occhi lucidi che non si era saputo spiegare, ascoltando il suo suono, attendo ad assorbirne ogni vibrazione, assetato di quel rumore profondo che sentiva rimbombare nel suo piccolo torace - così fragile che temeva avrebbe potuto spaccarsi, riempito fino all'ultimo centimetro di quella vibrante emozione - e via via più aspro man mano che le sue dita scorrevano verso la corda più sottile, che gli pizzicava i timpani, fino a fargli sentire il sapore di quel rumore pungente.
Eli si era portato dietro quell'emozione per tredici anni. Aveva cominciato a prendere lezioni quando ne aveva sei, subito dopo che, per il suo sesto compleanno, sua mamma gli aveva regalato la chitarra che si era portato dietro per tutta la vita. Era in legno chiaro, con un fiocchetto azzurro su uno dei piroli, posto per l'occasione dalla mamma, che gliel'aveva porta con delicatezza, chinandosi per raggiungere le braccine tese di Eli. Senza una parola, gli aveva accarezzato i capelli, lunghi fino alle spalle, e poi le sue dita erano scese delicatamente fino alla guancia. Lo aveva guardato con i suoi occhi grigi, spenti, e con quel suo sorriso triste. Allora Eli aveva cominciato a suonare la chitarra, per farla sorridere, ma sorridere per davvero, per una volta.
Non ci riuscì. L'espressione malinconica della mamma era sempre la stessa. Forse non è accordata bene, aveva pensato Eli.
Allora le si era avvicinato, trascinando la chitarra, che non riusciva a sollevare, e l'aveva abbracciata. «Grazie» le aveva sussurrato. Ed erano rimasti così, ascoltando uno i silenzi dell'altra.
Eli si guardò i polpastrelli della mano sinistra e vi fece scorrere il pollice, sentendo la pelle coriacea delle sue dita, poi cominciò a tamburellare sulla cassa della chitarra. Non suonare lo faceva sentire un po' perso, e in quel momento il suono della sua chitarra era la cosa di cui aveva davvero bisogno: stava ancora cercando di smaltire la disavventura di due giorni prima. Possibile che la sua vita fosse così piena di eventi imbarazzanti? Lunedì, con Antonio, il suo psicologo, non era riuscito a spiccicare parola, cosa che aveva destato la preoccupazione del dottore. Non aveva fatto altro che fissare le chiavi della sua Volkswagen, appoggiate sulla scrivania. Gli era anche passata per la testa una mezza idea di gettarsi sul pavimento e mettersi a piangere e strillare come un bambino, ma, credendo che poi non sarebbe stato in grado di smettere, aveva deciso di controllarsi. Quando era tornato a casa, si era fatto una doccia e poi un'altra, per cercare di lavarsi via l'imbarazzo di dosso. Poi aveva pensato di mettersi a suonare per distrarsi, ma aveva deciso che non poteva sporcare la sua chitarra di vergogna, così si era messo a dormire, per insabbiare tutto con il sonno. E come al solito, il suo metodo brevettato - e sperimentato innumerevoli volte nel corso della sua vita - aveva funzionato. La sua mente l'aveva rimosso ed Eli non ci pensava più. A parte quando qualcosa spuntava fuori con prepotenza e crudeltà per ricordarglielo.
Dove diavolo si era cacciato Claudio?
«Aspettami qui, torno tra un minuto.», e ne erano già passati sette. Mai fidarsi di un chitarrista trentottenne.
Avevano suonato insieme, prima qualche canzone di prova, poi le canzoni che Eli scriveva ormai da anni, poi improvvisando, dove li portava la musica. Tra loro c'era una sintonia che Eli aveva difficilmente sperimentato con altri. Non uscivano insieme, non si chiamavano al telefono, non si vedevano nemmeno ogni tanto per andarsi a bere una birra. Non sapeva nemmeno se gli piaceva, la birra. Ma tra loro c'era armonia, le loro orecchie captavano le stesse frequenze, e i loro cuori battevano allo stesso tempo. Ognuno capiva i silenzi dell'altro. Insieme, la loro musica era delicata, del calibro di un soffio, ma riempiva l'aria e la faceva vibrare come di commozione. Per Eli, quella era la cosa più vicina a un'amicizia che avesse mai provato. Forse anche con Antonio, ma probabilmente lui assomigliava un po' di più a un padre. Claudio era il suo compagno di percorso, non più il suo maestro da molto tempo, ormai.
«Stiamo andando bene.» gli aveva detto dopo una lunga sessione di prove. «Sai, stavo pensando a una cosa nelle ultime settimane...», la sua voce era eccitata. «Ho avuto un'idea. Un'idea fantastica, modestamente». E poi: «Aspettami qui, torno tra un minuto», ma non era ancora tornato.
In quel momento in Eli combattevano la curiosità e la paura di ciò che lo aspettava. Si chiese se davvero voleva sapere cosa Claudio aveva in serbo per lui, dopotutto. Mai fidarsi di un chitarrista trentottenne, si ripeté. Non gli piacevano le sorprese, ma Eli era comunque curioso, e ogni minuto rendeva l'attesa sempre più snervante.
Ne passarono altri tre prima che Claudio tornasse. A fianco a lui c'era una ragazza bionda, dell'età di Eli, o forse un po' più piccola, che parlava a voce alta con Claudio di cose che Eli non stava a sentire. Indossava delle scarpe con zeppe vertiginose, quelle che Eli amava chiamare 'i carri armati', perché gliene ricordavano i cingoli; portava un top corto nero, vari bracciali, smalto e rossetto rosso fuoco. Era certo di non averla mai vista, ma forse aveva già sentito la sua voce. Doveva essere una ragazza che studiava canto nell'aula a fianco.
Stava chiedendosi cosa ci stesse a fare lì, quella ragazza, quando si accorse che dietro Claudio c'era un'altra persona. Due luccichii grigi gli balenarono davanti agli occhi, ed Eli sbiancò. Aveva già visto quello sguardo.
«Ecco Eli.» disse Claudio. «Mi è venuta questa fantastica idea, sapete... siete tra i migliori del vostro corso, e ho pensato di farvi conoscere... Pensavo avreste potuto formare un terzetto... Anche perché Eli è un chitarrista bravissimo» disse alle ragazze «poi» si rivolse ad Eli «abbiamo Rina che studia canto... e la nostra pianista, Sara.»
Silenzio.
«Che ne pensate?»
Per la fragile psiche di Eli, questo era decisamente troppo. Aveva fatto tanto per dimenticarsi di ciò che era accaduto due giorni prima, gli sembrò l'ingiustizia più grande del mondo il fatto che il caso le ripresentasse davanti quella ragazza.
«Adesso è tardi,» disse Claudio «ma domani potreste iniziare a provare insieme. Se venite alle 16, dovreste trovare me e gli insegnanti di canto e di pianoforte.»
Eli si sentiva in trappola. Guardò Sara deglutendo vistosamente. Lei lo guardava con un leggero, appena percettibile, sorriso educato e accogliente, lo stesso che aveva il viso di Antonio, che lo faceva sempre sentire benvenuto e al sicuro.
L'espressione di Sara stemperò l'ansia che si sentiva addosso, e lui abbassò lo sguardo sulla sua chitarra, stringendola forte tra le mani.
Rina parlava fitto fitto con Claudio, ed Eli non ascoltava. Alzò lentamente lo sguardo per controllare la reazione di Sara: i suoi occhi non si erano mossi, lo scrutavano, ma non con fare inquisitorio: piuttosto, con la sincera curiosità di un bambino. Nessuna traccia di derisione o di pena nei suoi confronti. E di questo, Eli gliene fu immensamente grato. Le abbozzò un debole sorriso, una smorfia buttata lì, timorosa e scoordinata, e Sara ricambiò con un sorriso sincero e radioso: avrebbe potuto illuminare una notte senza stelle, pensò Eli.
Eli abbassò lo sguardo e socchiuse gli occhi, vedendo stampato nella sua mente il sorriso luminoso di Sara, e gli venne da ridere dalla gioia al pensiero che era solo per lui.
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