Capitolo 8
Ultima chiamata per il volo 94728.
Non ci potevo credere. Mi ero addormentato nel divanetto del bar dove avevo fatto colazione. Quando scoprii di aver perso l'areo, mi informai subito per il successivo, che sarebbe partito due ore dopo. Decisi di prendere un po' di tempo per me stesso, mangiare qualcosa e per riposare, ma probabilmente avevo perso la cognizione del tempo.
Corsi verso il gate di partenza e consegnai velocemente i documenti d'imbarco all'addetto, piuttosto infastidito dal mio ritardo.
«Si sbrighi l'aereo sta partendo» mi informò, mentre controllava la mia carta d'identità. Me lo consegnò e iniziai a correre lungo il tunnel che conduceva al portellone d'entrata del velivolo.
«Appena in tempo» disse una delle assistenti di volo, allungando una mano per controllare il mio biglietto per poi farmi segno di entrare. Percorsi il corridoio alla ricerca del mio posto.
«22, 23... 24B! Trovato!» esclamai sorridente, forse un po' troppo ad alta voce. Caricai il bagaglio nello spazio apposito e poi abbassai lo sguardo per accomodarmi sul sedile.
«No, ancora tu. Non ci posso credere, ma mi perseguiti!» strepitò improvvisamente. Anche io non provavo piacere nell'averla vicina, ma non trovavo un motivo per creare tutta quella confusione, così decisi di starmene in silenzio e sedermi tranquillamente.
«Ora non mi parli nemmeno?» chiese retoricamente, ed io per tutta risposta me ne stetti in silenzio e collegai le cuffiette al mio cellulare. La musica era sempre stata per me una via di fuga, un rifugio ma anche un buon metodo per esprimere tutto ciò che a parole non sapevo dire. Passavo giornate intere con lo stereo al massimo chiuso in camera. Spesso cantavo, ma a volte, soprattutto nell'ultimo periodo, piangevo. La musica amplificava le emozioni, sia positive, sia negative. Ma in particolare mi aiutava a trovare le risposte alle domande che credevo essere l'unico a porsi.
In quel momento stavo ascoltando "Scivoli di nuovo" di Tiziano Ferro. In quel periodo era la canzone che forse più mi rappresentava, poiché parlava di solitudine e della delusione verso se stessi.
«Scusi, scusi signorina». Una hostess attirò la mia attenzione, perché stava cercando di parlare con Federica. Tolsi le cuffiette ed iniziai a picchiettare sulla spalla di Federica, fino a farle aprire gli occhi.
«Signorina, lei ha un biglietto per la prima classe, e adesso si trova nell'economy. Venga la accompagno nella zona giusta» disse l'assistente, ma la mia vicina di sedile non azzardò un movimento e replicò: «No sto bene qui, non importa. Grazie lo stesso».
«Ma è sicura?» Chiese preoccupata la donna
«Si certo».
Pazza. Doveva essere decisamente pazza per rifiutare un posto migliore che aveva pagato, probabilmente anche tanto, per stare seduta qui, per lo più accanto a me.
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