Capitolo 4

«Riccardo!» urlò mio fratello correndomi in contro per poi abbracciarmi.
«Ti prego dimmi che si sa qualcosa» disse, implorandomi di dargli notizie positive, che però non avevo. Scossi la testa in risposta, e lui si sedette accanto a me sul pavimento.
«Dove ha portato Nanci? E soprattutto cosa le hai raccontato?» chiesi titubante, ero molto preoccupato per mia sorella.
«Le ho detto che dovevamo andare a casa di amici e l'ho portata da nostra nonna». Almeno lei era esclusa dalla sofferenza che ci stava assalendo.
Un'altra porta si spalancò, ma con nostra sorpresa fu quella della sala operatoria. Uscirono due medici che stavano camminando verso la sala d'attesa e speravo che cercassero proprio noi.
«Parenti di Marcuzzo e Poletti?» chiesero e noi annuimmo. Non avevamo nemmeno la forza di aprire la bocca e rispondere verbalmente.
«Noi abbiamo fatto tutto il possibile». Ecco le fatidiche parole. Quelle parole che da un medico non vorresti sentire mai. Una frase che può distruggere l'equilibrio di altre vite e che spezza la corda che tiene unita una famiglia. Sono paragonabili solo all'impatto di un esplosione che, senza preavviso, cancella tutto quello che c'è attorno.
Il dottore stava ancora parlando, ma io non riuscivo ad ascoltare. Ero troppo impegnato a pensare. Capii che una casa sempre pulita, un pranzo sempre pronto, le camicie sempre stirate, il caffè caldo alla mattina, le coperte rimboccate la sera, la borsa della palestra pronta, le bollette pagate, l'armadio riordinato, il frigo pieno e la spesa fatta erano molto più che abbastanza. E io non avevo mai capito quanto tutto ciò fosse importante, perché ne ero ormai abituato.
Ogni parola che cercavo di dire mi moriva in bocca, non sarebbe stata mai abbastanza opportuna, o abbastanza delicata da commentare la situazione.
Luca si gettò tra le mie braccia, un gesto che probabilmente nessuno dei due si sarebbe mai aspettato.
«Luca io non ce la faccio! Devo uscire» sussurrai prima di scappare fuori da quella stanza, da quell'ospedale e da quella situazione. Furioso con me stesso, corsi, in parte per sfogarmi e in parte perché dovevo trovare un luogo dove poter nascondermi, rilassarmi, sentirmi protetto e lo trovai. Di fronte a me c'era l'immenso parco, che frequentavo ogni giorno quando ero bambino. Era il luogo dove venivo per scherzare, ridere e divertirmi, mentre in quel momento non riuscivo a fare altro che piangere e ricordare le persone che mi avevano amato così tanto.
Mi chiesi tante volte chi fosse il colpevole, e cosa avrei fatto se me lo fossi trovato davanti, ma la verità era che non riuscivo ad essere arrabbiato con chi aveva causato quell'incidente. Ero impegnato a riflettere su quanto la mia vita fosse perfetta, prima che tutto ciò accadesse. E senza accorgermene iniziai a colpire quell'albero, che per tanti anni era stato la mia fortezza, la mia fonte di sicurezza, tranquillità. La sua corteccia spessa assomigliava così tanto a quel muro che mettevo tra me e le persone. Colpii più forte che potevo, volevo distruggerla. Desideravo ardentemente di poter vivere la mia vita senza più alcun rimorso o rimpianto, senza mai chiedere di più e ringraziare sempre per ciò che avevo. E forse abbattere tutti i muri, a partire da quella corteccia era il modo più giusto.

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