China Town


Un bambino, o forse una bambina, un cucciolo d'umano insomma, è chino sui fogli in un aula vuota, solo il ticchettio dell'orologio a rompere il silenzio.

L'aula occupa tutto il palco, ma c'è un solo attore in scena.

Il tichettio dell'orologio è rotto da un sussurro, un piccolo dialogo fra sé e sé del piccolo.

Come unici ascoltatori in scena solo un foglio, e una penna.

La prima volta, la prima volta non ne la ricordo, forse alle elementari quando ho scritto il mio primo tema, sui draghi o qualche mostro mitologico la memoria mi pecca assai a ripensare a quel periodo.

Ma la sensazione di euforia di elevarsi altrove, di libertà assoluta ( certo nei limiti della traccia richiestasi e delle lacune grammaticali e lessicali date dalla giovanissima età ) era unica.

Era una penna a stilo la prima volta, andavano di moda, non erano gli anni ottanta o novanta ma solo i primi duemila e c'erano ancora quelle stilo di plastica con il beccuccio in acciaio dove compravi la cartuccia d'inchiostro, la inserivi e scriveva perfettamente, un azione anch'essa calmante, di serenità che prevedeva il tuffo nelle righe di un foglio di scuola, ingiallito di un diario o solo un foglio bianco, un languorino come il cane di Pavlov che sentendo il campanello gli si attiva lo stimolo della fame.

L'euforia, la possibilità di scrivere di liberare la fantasia in un altro modo che non fosse il gioco, presto si è trasformata in calma, una pace che non ricordo di aver mai provato in altre situazioni nemmeno negli anni successivi con la scoperta delle droghe, del sesso e dell'alcool, forse solo paragonabile a quella privata con i calmanti che rubavo a mia zia, pace intorpidimento ma lucido, e via verso lande e mondi innominabili e innumerevoli, un giro del mondo in ottanta film mentali trasformanti in parole.

Buio, dieci minuti e poi si accendono le luci.

È cresciuto ora quel futuro essere umano ora può avere quindici anni, capelli non in ordine, forse per il vento o negligenza è seduto sul water di un bagno di scuola, il bagno è sporco come il viso dell'adolescente e contratto in un pianto silenzioso.

Ha un quaderno in mano.

Voce fuori campo, la stessa dell'inizio.

La scrittura è sempre stato un porto sicuro per quelli che come me non sanno fare amicizia, che sedevano in banco da soli o ignorati dai nostri stessi compagni di banco e di classe, gli scherni e le risate che accompagnano la nostra venuta, magari per degli occhiali troppo vistosi, i vestiti che venivano scelti da tua madre ancora alle medie, capelli spettinati, brufoli o solo lo sguardo fisso in basso, al pavimento o qualsiasi cosa che non fosse una figura umana.

L'arma che ci permetteva di sfogare la frustrazione delle interrogazioni a sorpresa, alla lavagna o solo le domande di sconosciuti dove la mente si azzera e resta un foglio bianco, e le lacrime l'umiliazione, chiedere di andare in bagno per singhiozzare nel cesso, e poi la rabbia per le parole che dopo si fanno vive dopo vorticano nella testa, e lì devi implorare basta perché sono troppo veloci e fanno venire la tachicardia, la nausea.

E allora ho imparato a portarmi un taccuino dietro o nell'epoca di adesso, le note del cellulare dove le parole le butto subito giù per liberare la mente, pulirmi dalla rabbia e dall'umiliazione, ritrovare per un attimo la pace, scrivere dialoghi immaginari dove interloquivo, rispondevo in modo che nella realtà non sarei mai riuscito a fare.

Una penna, un foglio o le note di un cellulare, arma, scudo ma anche dannazione, che ci fa chinare lo sguardo a mondi interiori dimentichi quasi della realtà, di noi stessi.

Ma è un prezzo da pagare, ogni arma ogni dono e salvezza ha il rovescio della medaglia e questo è il mio, ormai non conto più i calli al pollice e alle dita, ma li guardo con affetto, ringrazio quel dolore pulito di ore passate a scrivere e gli occhi brucianti e rossi.

E i pasti saltati, il collo dolorante troppo chino, ma i mondi che si aprono sono promesse lusinghiere di pace e ristoro momentaneo, una luce il sorriso amico di chi rimane nonostante tutto.

Buio di nuovo dieci minuti la scena è cambiato ora è una camera da letto arredata spartanamente, un letto, una mensola, un armadio e dei poster di film anni '80 o ancora più vecchi, qualche pupazzetto sulle mensole e vecchi libri da bambino, i muri sono verdi.

L'adolescente ora è un adulto seppur in una camera che richiama l'adolescenza e residui di infanzia, ha una camicia e i capelli pettinati, è seduto chino sulla scrivania, guarda in computer.

Parla rivolto allo schermo, ha le mani macchiate d'inchiostro.

Poi con gli anni la stilo è scomparsa, la rimpiango ancora, se per puro caso la trovo in tabaccheria la compro ma la uso sporadicamente per non sprecare quell'inchiostro così prezioso, nero con sfumature lucide viola quasi, la mia droga, la pittura gialla che Van Gogh mangiava nella speranza di infondergli quella felicità mai provata in vita, e le macchie che mi fa sulle dita mi duole lavarle via, quando scompaiono mi rattristano come vedere un caro amico partire dopo anni di assenza.

Poi dopo le stile penne colorate, poi a sfera, poi i tasti di un computer e cellulare, l'inchiostro che viene sostituito dalla tecnologia, da bit e comandi elettronici, niente più calli ma lo stesso occhi rossi e collo dolorante, le sensazioni sono le stesse, e anche se è un evoluzione che forse lascia l'amaro in bocca,i fogli bianco sostituito dallo schermo pulsante di luce blu, senza l'odore della carta, che io adoro nei libri, starei ore ad annusarli, ritrovare quel profumo che sa di promesse e libertà seppur solo mentali, di casa.

Sono cresciuto, di altezza e di età, non più un fanciullo ma un essere umano adulto, non chiedetemi nome né età né sesso, chiamatemi come volete come il delfino che faceva da padre a una balena, in quel vecchio libro per bambini, eppure resta la stessa sensazione di allora non appena mi siedo, prendo la penna e quaderno o solo apro la pagina Word del computer e le note del quaderno.

Scrivo, oltre per evadere, anche per imprimere la memoria, che è fuggevole, ma la parola scritta resta lì, finché qualcuno non la cancellera' o la distruggerà un monito di eternità come le vecchie foto o i vecchi film con attori e persone scomparse, fotogrammi frammenti di immortalità, il perpetuarsi di idee, sentimenti della varietà dell'animo umano.

Basta così poco, e il mondo scompare.

O solo lo si visiona con più lucidità.

Sta a te la scelta.

Ma tieni, prendi una penna apri Word, o le note di un cellulare, non ha importanza il mezzo.

Perpetua te stesso, perpetua un idea di te stesso, forse la versione migliore che non sarai mai nella vita, o forse sì.

Perché forse magari siamo anche noi solo dei personaggi, magari il Dio che preghiamo e a cui diamo tanti nomi è uno scrittore, come noi, come te.

Quindi, scrivi.

L'adulto si alza, va verso il pubblico, in una mano ha il computer, nell'altro un quaderno e delle penna, una stilo e una a sfera.

Continua a sorridere, appoggia tutto a terra, si spoglia nudo, si siede, si versa l'inchiostro sulla testa, cola sul corpo e scrive qualcosa con la penna sul petto, non si riesce a capire cosa.

Apre il computer e continua a scrivere lì, sporca i tasti di nero, il tutto mentre cala il buio e il sipario.

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