~Chi c'è in ascolto?~

«Chi c'è in ascolto?»
Chiese il conduttore radiofonico dando il via alle chiamate da casa.
«Sono Lea.» Affermò una voce bassa, roca e spenta, schiarendosi la voce. «Vorrei ascoltare una canzone.»
Lo speaker, un po' perplesso da quella voce così affranta, continuò subito dopo.
«Certo, Lea, a tuo comando. Qual è la canzone che vuoi ascoltare?»
«Amore che vieni, amore che vai, di... De Andrè.» Pronunciando quelle parole, la voce della ragazza si spezzò, portandola a dover camuffare un singhiozzo.
«Lea, un po' più di entusiasmo, okay?»
Nessuna risposta.
Dopo qualche istante, riprese a parlare la voce maschile.
«Non ti è piaciuta la battuta...»
«No, non molto.» Tirando su con il naso, Lea confermò le sue parole.
La giovane iniziò a piangere, piano, come a volerlo nascondere, ma con scarsi risultati.
Si sentì un sospiro, e, dopo pochi secondi, un grido.
Un urlo straziante.
Con i brividi sulla pelle, a quel punto, conduttore fece cenno a dei suoi colleghi di mandare la chiamata fuori onda.
«Lea, siamo fuori onda, nessuno ti ascolta, solo io.»
Il pianto continuo incessante, a stento riuscì a comprendere e comunicare un "okay".
«Sai... a volte parlare con uno sconosciuto risulta più semplice. Hai voglia di dirmi come ti senti adesso?»
«Io... devo prendere le mie medicine...»

«Quali prendi?»

«Benzodiazepine, Tavor, Xanax.»
«Farmaci forti. Quanto prendi solitamente?»
Nessuna risposta.
Dopo qualche secondo «Lea?»
Un rumore fuori campo simile a quello di una bottiglia in plastica si sentì al di fuori della chiamata.
«Ho appena preso la prima.»
«Di quante?»
«Undici.»
«Lea, non credo il medico ti abbia prescritto undici pastiglie di Tavor a sera...»
Lei non rispose, il rumore della bottiglia proseguì.
«Lea, dove ti trovi?»
«In cucina.» Rispose la giovine prendendolo in giro.
«Sì, ok... ma abiti qui a Catania? O in periferia...»
«Non ricordo molto bene.»
Finse spudoratamente.
«Vivo da sola da pochi mesi.»
L'uomo fece cenno, un'altra volta, a dei suoi colleghi. Disse al primo di sostituirlo nel condurre la radio quella sera, al secondo, mimò con la bocca la parola "polizia" e ricreò un telefono con la mano.
«Lea, sei qui con me?»
Continuò a piangere sonoramente.
«Sì... ma non per mol-to.»
L'uomo chiuse gli occhi sospirando.
«Invece sì, Lea. Smetti di prendere quelle pillole, ti prego. Piuttosto, vuoi ascoltare la tua canzone?»
Dal rumore della plastica, si capì che Lea non avesse alcuna voglia di piantarla con quelle pillole e che era arrivata alla terza, già.
«Ascoltami, vuoi ascoltare la tua canzone?»
Dopo qualche istante, lei rispose.
«Sì.»
La voce della donna era rotta, spezzata, irreparabile.
«Bene, ma prima dimmi perché la vuoi sentire, c'è un motivo in particolare? E coma mai ti piace? Faber non è per tutti...»
Qualche istante dopo... «È... malinconica, mi piacciono le sue parole.»
«Intendi il suo testo? Disse facendo partire il brano, ma mantenendo un volume piuttosto basso, quasi un sottofondo. Allo stesso tempo, un suo collega sussurrò un "stanno arrivando".
«Incantevole, non trovi?»
«S-si...»
Affermò con un tono alquanto sconnesso.
Poi, fu come se si ricordò del suo obiettivo, e, subito, si sentì un altro scroscio fastidioso di bottiglia.
«Lea, canta la canzone, mh? Cantiamola insieme...»
«Amore che fuggi... da me tornerai...»
Cantò in un sospiro Lea, con voce ancora tremante.
Guardò poi le pillole, e continuò a cantare. «Un giorno qualunque... lo ricorderai...»
Cantava con voce bassa, affranta, devastata. Ma la speranza sembrava proprio quella, la musica. La sua luce in fondo al tunnel, la luce, era la musica. De Andrè narrava storie con un indifferenza tale da inquietarla, e quella canzone che ebbe scelto, era sicura avrebbe voluto sarebbe stata quella che l'avrebbe accompagnata lentamente al suo decesso.
«Fra un mese, fra un anno, scordate le avrai...»
Continuò lui.
Lea fissava un punto fisso nella stanza, era rannicchiata in un angolo della cucina, il telefono portatile all'orecchio, e la musica, che sapeva un giorno l'avrebbe fatta morire.

Era una pianista, una pianista affranta dall'incubo.
Suonava, dapprima piano, pigiando i tasti acuti con leggerezza, accarezzandoli dolcemente e il loro suono era dolce e candido.
Poi, passava per i tasti di mezzo, e la dolcezza iniziava a diventare più aspra, anche il modo in cui suonava mutava, era percepibile che quella melodia non avrebbe avuto un lieto fine.
Per finire sempre sui tasti gravi, quelli che suonava con violenza, quelli che "rispecchiano la mia anima", come diceva sempre.
«Venuto da sole o da spiagge gelate... perduto in novembre o col vento, d'estate...» Cantò dolcemente lei, continuando a fissare un punto indefinito nello spazio.

E se ti suicidassi, metteresti di pensarci.

La frase che circolava sempre nella sua mente come il sangue nelle sue vene. Le vene ormai tranciate da tempo con una lama, e quel liquido rosso che scia lungo il suo braccio, lungo la mano,
e poi a terra.

«Io t'ho amato sempre, non t'ho amato mai... amore che vieni, amore che vai...»
Cantò la giovane.
«Io t'ho amato sempre, non t'ho amato mai... amore che vieni, amore che vai...»
Finì la canzone l'uomo, con la stessa frase che si ripeté due volte.
«Che canzone incantevole... non trovi, Lea?» «Sì, mi piace molto...»
«Senti, ma...»
La polizia entrò in quella stanza, l'uomo che conduceva la radio, chiese a bassa voce, quasi sussurrando di fare silenzio, e di avvicinarsi, e, in un modo o nell'altro, di rintracciare la chiamata.
«Parlami un po' di te, quanti anni hai, cosa fai nella vita o a cosa aspiri, ciò che ti piace fare... dimmi un po'.»

«Non faccia chiudere la telefonata, la faccia parlare.»
Disse sottovoce uno degli agenti, in modo da poter giungere al luogo della chiamata. È necessario un determinato tempo prima che questa procedura possa avvenire.
«Ho diciannove, studio e suono il pianoforte.» La sua voce parve nettamente più serena rispetto prima, ma la manteneva sempre bassa e pronta a spezzarsi.
«Uh! Sei una ragazzina. Cosa studi?»
Lei sorrise leggermente, con ancora le pastiglie chiuse in un pugno.
«Biologia.»
«Pazzesco! La vita è... così magica, non credi?» Lei sospirò nuovamente.
«No... non per me.»
«Come mai dici così?» Il suo tono divenne più serio.
«Perchè per me non ha più senso vivere, ormai sono... è come se... fossi sfregiata per sempre...»
«Lea, scusa se mi permetto, ma ciò che dici non ha assolutamente senso: mi dispiace che tu la pensi in questo modo, deduco ti sia accaduto qualcosa di brutto, ma la vita va avanti, va avanti con te, vuoi o non vuoi, è così. La vita è un vortice che ti trascina, ti prende, ti sballottola un po' ovunque a volte. Ma devi convincerci, e sembra che tu ne sappia qualcosa. La vita è imprevedibile, lo sai. E se ci pensi, è anche bellissima.»
Gli occhi di Lea si inumidirono leggermente, sentì una folata di aria gelida pervaderle la pelle, rabbrividiva a quelle parole.
Chiuse gli occhi e respirò profondamente.
«La vita è cattiva un po' con tutti, ma con me lo è stata fin troppo.»
«È cattiva, sì, a volte. Ma fa di tutto per farti rimanere in vita, la Vita... ehm, scusa il gioco di parole.» Ridacchiò. Lei rimase impassibile, aprendo di nuovo il pugno osservano le pastiglie che stavano cominciando ad avere effetto su di lei e sciogliersi nella sua mano. I suoi polsi doloranti, il respiro affaticato, i lividi sulle ginocchia per tutte le volte in cui cadeva a terra, e chi più ne ha, più ne metta. Lea era stanca di quella spietata prigionia che la rendeva ogni giorno, sempre, sempre più malandata, triste, incosciente, sempre più morta.

«Ok, ci siamo.»
Sussurrò uno degli agenti.
Disse osservano quel computer portatile che in qualche modo, era riuscito a dare l'indirizzo di casa di quella povera donna.

«Quanto è distante?» Chiese l'uomo, sottovoce, ad un poliziotto.
«32 minuti, abita a Belpasso.»
Lo speaker si appoggiò allo schienale della sedia portando le mani alla fronte.

«Lea, adesso devo chiudere, il mio turno qui è finito, non fare nulla di incosciente. Buonanotte.»
«Notte.»
E chiuse la cornetta.
La bottiglia in plastica accanto a sé mezza piena e le pillole ancora chiuse nella mano. Le osservò.
Poi le gettò a terra e furono sparse per la stanza.
Si alzò, i suoi polsi erano sporchi di sangue secco come la lametta che vi era nel lavandino del bagno.
Il cane, Teo, un bellissimo Golden retriever che risentiva dei comportamenti della padrona. Non mangiava più nemmeno lui nonostante il cibo fosse da giorni nella ciotola. La sentiva piangere, la vedeva accasciarsi a terra per qualche minuto, per poi risvegliarsi in preda al panico.
A piedi scalzi, con solo una vestaglia bianca indosso, macchiata di sangue, si diresse verso il centro della stanza, davanti la porta di ingresso, sopra il tappeto, accanto alla televisione accesa da non si sa quanti giorni.
Cominciò a piangere nel ricordo della piccola lei, si accasciò a terra, su un fianco. Osservò la stanza e come si era ridotta per colpa sua e della sua depressione. Osservò sé stessa allo specchio proprio davanti a lei, appoggiato a terra, che doveva ancora essere montato, e chissà per quanto altro tempo ancora avrebbe rimandato quella faccenda.
Si osservò, buttata a terra, con le lacrime che scioglievano il suo viso come fosse acido, le sue urla che rimbombavano nella stanza e che la laceravano sempre di più. Si guardò negli gli occhi, e vide tutto il fallimento al quale era arrivata.
Si rendeva conto, giorno dopo giorno di come il mondo la ignorasse e calpestasse. Di come avesse deciso di ridursi. Non pensava mai a chi o a cosa l'avesse ridotta così, dava sempre a sé stessa la colpa di tutto.
Poi guardava Teo e pensava che sarebbe morto di fame se avesse continuato a non mangiare, poi guardò sé stessa, magra, esile, con un corpo asciutto a sciupato, e si ricordò che nemmeno quella sera aveva cenato. L'unica cosa che faceva per rendersi più presentabile, anche solo a sé stessa, era la doccia, a volte gelida, a volte bollente, mai tiepida. Con l'acqua fredda avrebbe voluto che i pensieri, le paure, le debolezze e i fallimenti scivolassero giù e finissero nello scarico della doccia. Con quella calda, invece, avrebbe provato a bruciarsi, come a castigarsi dandosi la colpa di un qualcosa in cui la responsabilità non cade su di lei, nel modo più assoluto.

Stava per addormentarsi, le pillole avevano avevano di gran lunga agito su di lei, ne aveva prese quattro, e già alla prima, solitamente crollava per qualche ora.
Chiuse gli occhi, lasciandosi cullare fra le braccia di Morfeo.

Mezzanotte e nove minuti

Lea non era più a terra, accasciata al centro della stanza dormiente e dolorante.
Era sdraiata di fianco su un letto bianco come la sua vestaglia.
La stanza, con le pareti bianche e arredata nel minimo indispensabile.
Le fasce ai polsi e una flebo attaccata al braccio sinistro.

Aprì gli occhi infastidita dalla forte luce bianca di quella stanza. Si guardò intorno, prima confusa e stordita, poi prese il sopravvento la paura.
Si rese conto quasi subito di trovarsi in un letto d'ospedale, uno dei posti che meglio conoscevano la sua diagnosi.
Sentì parlare delle persone, o, più che altro, sentì farfugliare qualcosa che non riuscì a comprendere.
Due uomini dal camice bianco e un infermiera che sistemava l'aghetto della flebo sulla vena del dorso della sua mano. Poi, un ragazzo, poteva avere... 26 anni, credette in un primo momento. Un ragazzo dai capelli lunghetti, castani e gli occhi scuri, con le braccia incrociate ascoltava par bohlare attentamente un medico.
Poi un sospiro di Lea si fece sonoro nella stanza.
Ad occhi superficiali, quel lettino era colorato di bianco. Ad un'anima nobile, tinto di tante sfumature diverse: grigio, come l'anima lacerata della giovane.
Glicine, come il colore di un fiore bellissimo come lei. Nero, come i punti del suo cuore che ha lasciato scoperti a tutti, e tutti vi sono entrati e tiratone via un pezzo, fino a lasciarla priva di sentimento.
La paura svanì, non del tutto, ma quasi, nel momento in cui si rese conto che qualcuno si interessò effettivamente a lei e al curarla.
Ma chi? Chi era questa persona?
«La ragazza è sveglia.»
Annunciò voltandosi verso i medici l'infermiera.
Allora, tutti si voltarono verso di lei.
«Ciao, Lea.» Salutò con fare serio uno dei due uomini in camicie, facendo schioccare la penna perché fuoriuscisse la punta con l'inchiostro, e avrebbe potuto procedere al prendere nota di qualcosa che si sarebbe rivelato importante.
«Io sono il dottor Rossi, sono un neuropsichiatra. Ti trovi nel letto del policlinico della tua città. Ti sei profondamente addormentata, sei quasi entrata in overdose da Benzodiazepine. Ricordi in che città vivi?»
Lea sospirò una seconda volta, schiudendo la bocca per cominciare a rispondere.
Pensò subito che sua sorella, chiamando a casa e non ottenendo nessuna risposta, si precipitò da lei e, trovandola in quello stato, la portò immediatamente in ospedale. Ma lì non c'era Valentina.
«Io...» Si grattò la tempia Lea.
«Abito in... un paese nella provincia di Catania, vivo a Belpasso.»
Disse certa e con più lucidità.
Si guardò intorno in cerca di un familiare.
«Belpasso... okay. Lea, quanti anni hai?» Le chiese il medico per accertarsi fosse maggiorenne e per verificare non farfugliasse.
«Quasi venti.»
Notò la curiosità nello sguardo del ragazzo e l'attenzione che prestava sia alle domande del medico che alle risposte della giovane.
«Lea, ti dimetteremo quanto prima, ma per ora devi stare qui, in ospedale. Puoi chiamare i tuoi genitori o dei parenti per farti portare le tue cose, domattina. Adesso ti farò portare la cena da un'infermiere.»
«No, non ho fame. Ma chi mi ha portata qui, dottore?
«Questo ragazzo.» Disse l'uomo indicando il giovane con il chiodo di pelle sulle spalle che si faceva avanti per parlare con Lea.
«Ciao, Lea. Mi chiamo Zeno. Sono il conduttore radiofonico con cui hai parlato poco fa, ricordi? Ti ho tenuta al telefono e tu... tu hai preso delle pillole che ti hanno fatto addormentare. Quando ho chiuso la chiamata, non era perché il mio turno fosse realmente finito, ma perché la polizia che avevano chiamato i miei colleghi sentendo la chiamata sono riusciti a rintracciare il tuo indirizzo. La porta di casa tua era socchiusa e siamo entrati con gli agenti. Tu eri a terra. Abbiamo immediatamente chiamato l'ambulanza, che ti ha portata qui. Perdonami, ma dovevo farlo.»
La ragazza scosse la testa. «No, non è possibile... Io...» Guardò le fasce al polso e la flebo che scorreva.
«Grazie... io non so davvero che dire...»
Sorrise con gli occhi lucidi la ragazza.
Zeno la osservava con un fare curioso, ma pieno di compassione.
Notava i suoi corti capelli ricci, castani e folti. I suoi lineamenti rilassati, gli occhi grandi e nocciola. Il naso, drittissimo e la bocca alquanto carnosa.
Non la credeva così... così, semplicemente.
«Prego duemila!» Sorrise Zeno.

«Pronto?» Chiese preoccupata una voce che all'una e un quarto di notte ricevette una telefonata.
«Vale, sono Lea, sono... in ospedale, ma non preoccuparti! Sto bene.» Cerco di non far andare in panico la sorella prima del previsto.
«Cosa?! Sei in ospedale? Che cazzo ci fai là?!» Chiese agitatissima Vale.
«Ti ho detto che sto bene. Senti, è una storia lunga, e... ho avuto una di quelle mie... situazioni con le pillole, lo sai.»
«Cristo, Lea, pensavo ti fosse passata... ma come sei arrivata in ospedale?»
«Domani te lo racconto se passi da me a portarmi delle cose che mi serviranno.»
«Certo, certo che... che passerò da te, ti porterò tutto il necessario. Domani vedrò io di dirlo a mamma e papà, ma dimmi come sei finita lì. Sei in compagnia, va tutto bene?» Chiese speranzosa di una risposta Valentina.
«Valentina, è davvero una storia intrecciata e difficile da spiegare al telefono, ma se sono qui sarà pure per un cattivo fatto ma per una buona persona.»
«Lea... è stata Ella? è stato grazie a lei che sei lì?»
«Domani ne parliamo, davvero.»
«Lea, così mi fai stare in pensiero... ma... in che ospedale sei? E quando possiamo venire a trovarti?»
«Policlinico, e l'orario di visita è dalle dieci alle undici, me l'hanno detto poco fa.»
«Va bene, tesoro. Che colpo basso che mi stai dando... vuoi stare al telefono? O preferisci riposare?» «Macchè stare al telefono! Questo telefono va con la moneta ed è a tempo! Anzi, penso stia per scadere. Facciamo che vado a riposare, vediamoci domani, portami dei pigiami freschi che qui si muore. Lo spazzolino e... basta, penso che questo sia il minimo indispensabile al momento.» Sorrise la giovane.
«Ti porterò naturalmente anche qualche cambio, l'intimo e qualche barretta di cioccolato! Buonanotte, Lee.» Come la chiamava sempre Valentina: Lee, pronunciato "Li", data la passione innata della Lea di 7 anni per l'artista marziale Bruce Lee.
«Notte.»

Quando si avvicinava la sera, per Lea era il momento peggiore: quando la mattina i pensieracci sembravano star scampando, e pareva la sua perfida mente le stesse lasciando respiro dalle crude immagini che si ripetevano nella sua testa, la sera, tutto ricominciava. I giramenti di testa di testa prima, i conati di vomito a seguire e il pianto disperato esplodeva non appena capiva che l'incubo stava riavvolgendo i suoi passi. Come ogni sera.
E le notti sveglie a piangere disperatamente, mentre suonava il suo pianoforte, a volte, per cercare la cura. La cura nella musica, che tornava sempre ad essere il suo enigma più intricato.
La musica, che l'ebbe sempre aiutata nei momenti duri della sua fanciullezza, adesso, scaglia pietre. Ogni volta che la giovane si ritrovava davanti al suo pianoforte, il suo Steinway d'alta classe, di un nero lucidissimo e a coda, tutto sembrava star passando. Come la sua depressione, che mutava. Prima, a sei, sette anni, il buio, la via d'uscita incendiata. Poi, con il passare del tempo, anni di scampo da quel malessere così intenso da non trovare nemmeno le parole per spiegarlo.
Successivamente, l'avvenimento che la spense.
La spense e non le diete più ragione per vivere; difatti, Lea ha tentato il suicidio.

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