Capitolo XXXIII | La forza di un'anima


William

Cherry dorme sull'isola prendi sole del terrazzo da almeno mezz'ora, abbiamo passato tutta la notte a parlare. Non è stato facile farla aprire riguardo la sua famiglia, aveva difficoltà a guardarmi negli occhi mentre mi raccontava delle sue sventure, si concentrava su un punto proteggendosi con alcuni gesti inconsci che avevo notato. Come alzare la spalla quasi potesse nascondersi il viso o girare compulsivamente l'orecchino argentato con le dita. Toccarsi ripetutamente i gomiti e le braccia, quasi volesse auto-rassicurarsi, oppure grattarsi entrambe le pellicine dei pollici. 

Tormentata e vulnerabile mi ha concesso qualche sprazzo di sé, non ha detto molto ma comunque è stato abbastanza da permettermi di fare un quadro generale della situazione. La cosa che più mi aveva scosso era vederla ridere davanti certi ricordi per nulla piacevoli. Cercava in tutti i modi di sminuire il suo vissuto ma, ormai, avevo imparato a decifrarla. Nonostante la sua corazza d'acciaio inossidabile e il suo caratterino avevo sempre avuto l'impressione fosse sola al mondo, la sua diffidenza, la sua ferocia e tenacia mi avevano spesso ricordato, teneramente, una bambina spaesata che attaccava tutto ciò che non conosceva per paura. E adesso ne ho la conferma, Cherry è anche tutto questo. 

Non avrei mai pensato che dietro i suoi occhietti dispettosi si celasse tanta solitudine. La ragazza sbuffa e si gira verso di me mettendosi una mano dietro la guancia. Non me ne rendo conto che comincio a inquadrarla con la mia macchina fotografica. Mi concentro sul suo viso paffuto, scatto immortalando ogni dettaglio della sua pelle. Ogni neo, ogni minuscola cicatrice, come quella sotto il mento. Una piccola folata di vento freddo le scompiglia alcuni riccioli, la copro immediatamente assicurandomi di non disturbarla. 

Come è possibile non amare una creatura del genere? Non proteggerla? Come hanno potuto abbandonarla così?

Sento una malinconica rabbia imprigionarmi il petto al solo pensiero di lei, appena diciassettenne, in giro per il mondo con uno zaino in spalla senza nessun posto dove andare. Senza nulla.   

Quando le avevo chiesto di più sul rapporto con sua madre sembrava spaesata, come se dovesse giustificare la totale inesistenza di questo. Una donna rigida, fredda, indifferente, totalmente priva d'istinto materno, obbligata a sposare un uomo molto più grande per volere dei genitori, fondatori di un'azienda farmaceutica. Due figure del tutto assenti, focalizzate sulla crescita della società di famiglia. Quando le avevo chiesto del padre era scoppiata a ridere intenta ad accendersi una sigaretta.

«Non credo nemmeno avesse una voce, era il burattino di sua moglie. Sembrava stanco, anche solo di respirare» aveva risposto riempiendosi i polmoni di fumo denso. La cosa più triste è stato apprendere quanto davvero poco si conoscessero tra loro, come se fossero estranei sotto lo stesso tetto. 

Della sua infanzia non aveva voluto parlarne, aveva solo confessato che fino all'età di quattro anni non aveva parlato. Lei stessa si era definita un "oggetto inanimato". Non credo che dimenticherò mai il suo commento ironico che, d'ironico, non aveva nulla.

«La tata si era accorta che qualcosa non andava, loro neanche ci facevano caso. Forse avevo scelto il mutismo perché ero nata nel silenzio, dicono che i bambini emulano e io emulavo tutto alla perfezione. Nessuna parola, mai. A tavola, sul divano, in macchina, erano sempre presi dal lavoro»

Non le piaceva affatto parlare della madre, era palpabile il suo astio nei riguardi della donna, tanto da non chiamarla nemmeno con il suo appellativo. Le si bloccavano quelle letterine nello stomaco. La chiamava per nome, Susan.

L'unico faro di quegli anni era una certa Marisol, la sua tata d'infanzia, unica figura che l'aveva accudita e cresciuta con amore, per quanto possibile. Susan la licenziò quando scoprì che, invece di portare Cherry alle lezioni di equitazione, le insegnava di nascosto a suonare la chitarra. Strumento che frantumò davanti i suoi occhietti.

Se da bambina la ragazza cercava di attirare in tutti i modi l'attenzione di sua madre, alla ricerca di quel filo che, normalmente e naturalmente, lega la genitrice alla sua creatura, durante l'adolescenza cominciò ad accusare i primi sintomi della sua incontrollabile rabbia repressa. Cominciò a ribellarsi, a non rispettare più i voleri imposti da Susan che, senza neanche confrontarsi con la figlia, l'aveva iscritta all'università di scienze biologiche. E lì, dopo tante cose che Cherry ha preferito non raccontarmi, rischiò quasi di mandare la donna all'ospedale.

Essendo palesemente inquieta avevo preferito ammutolire la mia curiosità. Non volevo forzarla, ma seguire il corso dei suoi pensieri caotici, perdermi nelle sue linee nere annodate. Gli ultimi anni erano stati oscuri, li aveva definiti così. Scontri accesi che le causavano il vomito, che la obbligavano a rinchiudersi sempre di più in sé stessa fino alla sua nuova esplosione incontrollata. 

La madre, abile con la sua lingua biforcuta, trovava sempre il modo di provocare e annientare la figlia che rispondeva sempre più violentemente. 

«Dopo aver scoperto che avevo rifiutato la borsa di studio, mi disse che avrebbe voluto tornare indietro nel tempo per far sì che non nascessi. Non so cosa è successo, è stato come se tutti quegli anni di silenzio e sofferenza esplodessero per la prima volta. Ho spaccato la mia cameretta davanti i suoi occhi. Tutto quello che avevo, che avrebbe dovuto rappresentare la mia vita, l'ho distrutto. Era una gabbia, lo sarebbe sempre stata. Quando provò ad acciuffarmi per i capelli la spintonai verso l'angolo, si fece male alla schiena ferendosi. Non la lasciai neanche parlare, presi le prime cose e uscì di casa ma solo dopo aver frantumato in mille pezzi tutte le foto che ci ritraevano sparse nelle mura di quella gabbia che avrebbe dovuto essere il posto più sicuro al mondo. Strillò per strada che sarei tornata strisciando bisognosa dei loro soldi. Non tornai mai più» mi raccontò imbarazzata fumando un'altra delle sue Marlboro rosse. 

E poi mi aveva raccontato dell'arrivo a San Diego come artista di strada e dell'incontro con il suo ex ragazzo. Mentirei se dicessi di non aver provato gelosia nel vedere il modo in cui ne parlava, mentirei se dicessi che, una volta appreso della loro storia a dir poco malata, non vorrei andare a fargli visita in cella. L'amore che provava per lui trapela ancora nelle sue parole, nelle smorfie che cerca di sopprimere, negli occhi lucidi.

Cherry è sempre saltata dalla padella alla brace. Sembra non aver ricevuto sconti dalla vita, anzi, sembra aver dovuto pagare tutto il doppio, il triplo. Nonostante la sua disarmante e amara consapevolezza nel dirmi che, probabilmente, alcune cose avrebbe potuto evitarle e che è stata spesso causa del suo male, credo fermamente che, nella sua posizione, chiunque avrebbe avuto difficoltà.  C'è una parte di lei che si colpevolizza eccessivamente, questo mi innervosisce. 

La forza di un'anima non si misura in base alle volte in cui resta in equilibrio mentre tutto trema, piuttosto, in tutte le volte in cui cade, sbucciandosi le ginocchia e si rialza. Nonostante intorno, tutto sia in procinto di crollare.

Non ha mai avuto tregua, pace o tempo di guarire. Ha sempre dovuto correre, scappare, non si è mai fermata per riprendere fiato. E ora eccola qui, sul terrazzo di casa mia, intenta ad arricciare il nasino per colpa di un ricciolo che le solletica il sonno.

Spero che adesso stia riprendendo fiato, che almeno nei sogni, tu non debba correre, penso, scattando una foto della sua faccia corrugata e infastidita.

«Morgan, non so è eccitante o inquietante che mi fotografi mentre dormo» biascica accennando un sorrisino.

Abbasso subito la macchina fotografica.

Appena mi libero dal cinturino a cui è legata, la ragazza si solleva appena per afferrarmi dalla camicia. Mi ritrovo a qualche millimetro dal suo viso. 

«Mi hai perdonato?» sussurro divertito.

Lei scuote la testa scherzosamente alzando il nasino e socchiudendo gli occhi. La bacio prima che possa riaprirli. 

«Mmm, guarda che non ti perdono» bofonchia prima di stamparmi un altro bacio sulle labbra.

«Tanto un modo lo trovo» le prometto distendendomi dietro per poi abbracciarla. Lei fa versi strani alzando le sopracciglia e avvicinando di più la sua schiena al mio petto. I suoi capelli mi accarezzano gli zigomi, comincio ad accarezzarglieli.

«Guarda che ho un'autonomia di tre secondi prima di riaddormentarmi, ti avviso che tiro calci»

Lei sembra godersi quelle coccole, allungando un po' il collo, come se fosse un gatto. Lascio le mie dita scorrere tra le ciocche, fino a spostarle dietro l'orecchio. Mi rendo conto che la ferita che ha sul mento è uguale alla mia. Abbiamo la stessa cicatrice, piccola, sbiadita e nascosta. 

«Veramente tiri anche schiaffi, ginocchiate e frustate di capelli, ah e rubi anche tutte le lenzuola» sussurro prima di coprire accuratamente entrambi con la coperta. Ma lei, raggomitolata, è già intenta a sognare. 

Non correre bambina, non correre più.







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