CAPITOLO XXVII | Solo per oggi
«William!» dico non riuscendo a contenere lo stupore «sono un ostaggio?» continuo, tenendomi ben salda al sedile della Ferrari Portofino M che sfreccia sinuosa tra le strade.
«Sei su una Ferrari, non puoi essere un ostaggio» sottolinea scherzoso, accelerando e sorpassando una berlina. Il vento mi schiaffeggia il viso facendo svolazzare ovunque i riccioli sporchi di creme colorate. Non riesco a trattenere una risata. Will mi guarda un nano secondo cambiando marcia con decisione.
«Abbiamo bisogno di evadere da questa città, non trovi? Ce lo meritiamo eccome»
«Non sto capendo. Dove stiamo andando?»
«Dove ci pare, tu scegli la musica e io guido. Non vuoi?» chiede facendo un sorrisino malandrino, che vede solo un lato della bocca sollevarsi.
«Siamo due perfetti estranei se ci pensi!» rispondo tenendomi al telaio del parabrezza non riuscendo a contenere l'emozione. Mi sento come quando ho marinato la scuola per la prima volta. Euforica, stupita di me stessa e terrorizzata.
«Non sembra male» la brezza gli scompiglia i capelli neri come il carbone mentre sorride divertito e mi fa l'occhiolino.
«Chi sei tu? Cos'è successo a William Morgan?» domando sinceramente disorientata.
«Oggi voglio essere solo William. Solo William» svela al mondo, rilassandosi sul poggiatesta in pelle. Sembra spensierato mentre rinnega, anche se solo per qualche ora, il suo cognome.
«Mi stai simpatico, solo William»
«C'è un posto dove che ho sempre voluto vedere ma non ho mai potuto. Sono sicuro che ti piacerà!»
«Will, è una follia! Non voglio che ti metti nei casini pi...» il ragazzo poggia la mano sul mio sedile e si sporge un po'.
«Ascoltami bene, voglio che per oggi, solo per oggi, dimentichiamo tutto. Voglio che siamo solo Cherry e William. Insomma, è arrivato il momento di conoscerci un po', no? Se ci pensi abbiamo fatto ben di peggio» spiega velando una sottile malizia che mi fa diventare rossa in viso. Sì, abbiamo fatto di peggio.
Il ragazzo sgomma immettendosi nella superstrada, vengo spinta dal rinculo sul sedile, istintivamente porto le mani in viso non riuscendo a controllare il mio entusiasmo.
Il ragazzo mi para subito con un braccio per attutire eventuali sballottamenti.
«Piacere! Solo William» strilla per sovrastare il frastuono del motore mentre, afferrando la mia cintura di sicurezza, mi aiuta a metterla.
«Piacere, solo Cherry!» strillo ancora più forte mentre ci lasciamo alle spalle Newberry.
Se qualcuno mi avesse detto appena qualche ora fa che William Morgan mi avrebbe rapita e portata a Charleston, dove sarei stata accolta nella maestosa suite di un Hotel a cinque stelle, invasa di vestiti firmati mentre il mio rapitore, intento a scartare una macchina fotografica costosissima, avrebbe cominciato a importunarmi con il flash, probabilmente avrei riso fino al decesso.
Se qualcuno mi avesse detto che mi sarei ritrovata in un lunapark con William Morgan intento a portarmi zucchero filato e bubble the, ancora peggio, probabilmente avrei creduto che quel qualcuno fosse pazzo. Invece, è tutto reale. Surreale.
Nonostante l'insensatezza di tutto questo, malgrado mille voci mi continuano a ripetere che sto facendo una stronzata e che ne pagherò le conseguenze decido che, per William, per solo William, pagherei volentieri a caro prezzo. Il vortice di realismo che prova a tormentarmi non riesce a smorzare il mio umore.
Sento lo stomaco fare le capriole, quella gioia adolescenziale, dimenticata da tempo immemore, condensarsi sul petto e scalciare tutta la sua emozione.
«E così questo è il posto che non hai mai potuto vedere? Un Lunapark?» chiedo prendendo la nuvola rosa dalle sue mani, sono così stordita che mi ritrovo a balbettare.
«Sì. Quando ero bambino tutti i miei coetanei parlavano di questo posto, ogni fine settimana tutte le famiglie venivano in questo parco-divertimenti per fare scorrazzare liberi i figli. Mi parlavano della ruota panoramica, della nave dei pirati, del labirinto di specchi e sognavo a aperti di poter essere uno di loro. Li invidiavo. Li invidiavo con tutto il mio cuore» spiega, mentre ci addentriamo tra le coloratissime attrazioni circondate da marmocchi. Il ragazzo tra un passo e l'altro ruba dei pezzettini soffici di zucchero a velo, facendomi sorridere.
Si guarda intorno meravigliato, curioso e forse, tutt'oggi un po' invidioso dei bambini, che osserva in modo criptico. Ha le mani nelle tasche dei Blue Jeans, ancora stento a credere di vederlo vestito come un comune mortale. La cinta della borsa fotografica gli cinge il petto, squarciando la t-shirt bianca e cadendogli sul blue jeans che a ogni passo svelto di vans bianche, ondeggia. La semplicità gli sta d'incanto ed è difficile contenere lo stupore.
Gli occhi furbi del ragazzo mi scoprono interdetta e con un morso fugace mangiucchia un po' del mio zucchero filato che, adesso, più che una nuvola, sembra un alveare. La mia espressione sembra divertirlo molto e, come spesso ha fatto nelle ultime ore, nonostante le mie lamentele, scatta furtivo delle foto. Mi imbroncio ancora di più scherzosamente.
«Questa è venuta bene!» ridacchia assorto sul display.
«E così ti piace la fotografia, non l'avrei mai detto»
«Ti svelo un segreto, è la mia più grande passione. Addirittura, per due anni ho frequentato l'accademia ma c'erano altri progetti per me, ero destinato ad altro. E poi, faccio pena come fotografo» confida aguzzando l'occhio sul mirino e fotografando più volte la ruota panoramica. Prima di scattare il suo viso è rigido, concentrato, come se stesse disinnescando una bomba, poi in un frangente quasi impercettibile, le sue iridi si muovono fulminee così come le sue mani sul diaframma dello strumento e quando il suo dito con decisione preme il pulsante per scattare, sorride e sembra tornare a respirare dopo una lunga apnea.
«Questo dovrei dirlo io, fammi vedere» ordino cercando di agguantare l'obiettivo che il ragazzo solleva verso il cielo.
«No! Sono top secret» sbuffa sollazzato, mentre prende colore in viso.
«Ma guarda un po' sei tutto rosso! Allora ti piace davvero molto! Perché?» domando curiosa di sentire il suo punto di vista. Con superficialità avrei ipotizzato che la sua passione fosse mettere a disagio delle disgraziate come me o il golf, o peggio, il padel. Insomma, quelle cose noiose da ricchi.
«Perché mi sento come se fossi parte del mondo ma non completamente. Tramite la lente posso vedere cose che nessuno vede, dettagli che sono sotto gli occhi di tutti ma su cui nessuno si sofferma. L'uomo il più delle volte è cieco. Con questa invece, vedo. Sei un po' come un ladro di frammenti di vita, vite che non conosci ma che, con la macchina, solo per qualche istante, intravedi. Immortali una cosa che non si ripeterà più, immortali il momento e la sua emozione, la sua bellezza sincera, naturale e senza artifizio ma secondo il tuo punto di vista, secondo la tua lente naturale» spiega indicandosi l'occhio, «Secondo quello che percepisci, come lo percepisci» svela rilassato. Non riesco a credere alle mie orecchie, questo solo William è una continua sorpresa.
«Se ti fa sentire così perché hai mollato gli studi?»
«E tu perché hai mollato la musica?» controbatte ribaltando la conversazione «Oh sì, ho fatto le mie ricerche. Ho visto su YouTube alcuni live, hai una bellissima voce Cherry, hai solo tanta paura».
Sbuffo indispettita, maledetta me diciassettenne che pubblicava qualsiasi cosa sui social! Da anni provo a sbarazzarmi di quei video ma ho perso le credenziali di quell'account pieno di materiale imbarazzante.
«È complicato»
«Sono tutto orecchie, fifona» continua mentre gli lancio un'occhiataccia che sembra divertirlo. Con i suoi occhi freddi mi sprona a prendere parola, mi sento così a mio agio che mi stupisco di me stessa. Perché non mi sento a disagio? Forse, perché è solo William?
«Non è semplice. La filosofia che l'arte è tale solo quando condivisa è soggettiva» comincio a borbottare. Difficilmente ho trovato qualcuno che potesse seguire i miei pensieri, non sono mai stata brava con le parole, non quando si parla di musica. L'unico modo per parlare o spiegare la musica è creandola.
«Perché non vuoi condividerla?» continua mentre vengo catturata da un bambino in fila per l'autoscontro osservare le assi di legno del pontile in legno dove, sfortunatamente, si è suicidata la sua pallina di gelato al cioccolato.
«E perché tu non condividi le tue foto? È lo stesso ragionamento» controbatto tornando a guardarlo mentre smanetta con la macchina.
«È diverso, io non ho talento. Tu, sì» alle sue parole alzo gli occhi al cielo.
«Non voglio condividerla perché ho provando a lanciarmi nella mischia, nella corsa dietro al sogno americano, case discografiche, contratti, concerti e autografi e ho capito che, semplicemente, non è quello che voglio. Quando canto davanti un pubblico mi sento nuda, vulnerabile e spoglia di difese. Mi sento snaturata. Come se la mia anima fosse visibile a tutti, alla merce di tutti e non voglio. Loro non capirebbero e non voglio che lo facciano. Comincio a tremare, non ho più salivazione, mi si chiude la gola, lo stomaco. È capitato pure vomitassi»
«Vuoi nasconderti dal mondo ma, cantare sottovoce, non è la soluzione» bisbiglia.
«Per essere un musicista non hai bisogno di un pubblico o della fama, scinde da quello, la mia musica è per me. La mia arte è solo comprensibile a me, è riservata solo a me. Mi basta la mia voce, non una luce puntata addosso. Quando suono o canto è come se, rivivessi qualcosa, bello o brutto non è importante, l'importante è quello che mi dà, quello che mi fa. Una volta finito è come se avessi esorcizzato quell'emozione, quel qualcosa. Mi sento leggera, mi sento capita. Non voglio spettacolizzare la mia emotività, la mia fragilità. La mia musica, la mia arte, è destinata, egoisticamente, solo alla mia anima. Io scelgo di nascondermi dal mondo»
William mi guarda con occhi schiusi e limpidi, i raggi del sole illuminano i suoi ghiacciai rendendoli così freddi da farmi rabbrividire. Non riuscendo a reggere quello sguardo che mi sta studiando e analizzando, mi concentro su un ambulante che a squarciagola sponsorizza le sue bevande fresche. Una mamma si affretta a fermarlo mentre il figlio, un piccolo pacioccone biondo, le tira la gonna impaziente.
«Una teoria molto singolare e personale. Ognuno vive le proprie passioni come meglio crede, lo rispetto. Hai un mondo dentro, solo Cherry» il modo in cui mi legge mi costringe a sfogare la tensione arrotolando i riccioli fra le dita tremolanti.
«Sembro matta, vero?» domando proteggendomi con l'ironia. Per tutta risposta fa spallucce regalandomi una buffa risata.
«Non hai continuato gli studi di fotografia per la tua famiglia, vero?» chiedo, non riuscendo a trattenere il dispiacere mentre raggiungiamo la spiaggia sotto il pontile e ci sediamo in riva ad ammirare il tramonto colorare la superficie del mare calmo.
«È così ovvio?» ride, debolmente «ho delle responsabilità, la mia famiglia aveva già spianato un sentiero per tutti noi e non c'era possibilità di scelta. Al tempo li odiai, odiai il mio cognome ingombrante. Scuola privata, eventi politici, cene di lavoro, lezioni di scacchi e di bon-ton. Già a dieci anni invidiavo gli altri. E non mi capiva nessuno, ero un viziato per loro, di cosa mai potevo lamentarmi? Non avevo amici, le uniche persone che sono state o sono al fianco lo fanno perchè sperano di poter godere della mia fortuna. Non volevo diventare come tutti loro, non lo accettavo e crescendo mi ribellai, rifugiandomi nella cocaina, volevo sfuggire da quelle pressioni, da quegli obblighi. Volevo sentirmi forte perché ero solo, non mi sentivo nessuno. Immagino tu possa capirmi» tramite queste parole riesco a percepire la sua vernice nera tornare a marchiarmi.
«Più di quanto mi piaccia ammettere»
«Non l'avrei mai pensato di te. Cosa facevi? E perché soprattutto?» domanda distendendosi e concentrarsi sul mio viso. Indaga senza alcun filtro, investiga come se volesse leggere tutte le mie pagine in un solo secondo. Mi rilasso anch'io sulla sabbia mentre alcuni gabbiani, sopra le nostre teste, si lasciano trasportare dalla corrente.
«Ho convissuto per tre anni con un ragazzo, un tossicodipendente. Venivo da un periodo particolare e non mi sono neanche resa conto di essere caduta nella dipendenza. Principalmente tiravo coca. Quando ho provato il crack ho capito che dovevo fare una scelta; morire o ricominciare da capo. Paradossalmente, mi spaventava di più ricominciare, dovere guardare la realtà e porre rimedio ai miei disastri piuttosto che morire. Morire, sarebbe stato più semplice, più facile».
«La vita è molto più terrificante della morte, solo chi ha visto il fondo delle cose, il fondo del dolore, può capirlo. Hai convissuto per tre anni? Scusa, quanti anni avevi?»
«Avevo diciott'anni quando l'ho conosciuto» ricordando il viso di Jacks comincio a stropicciarmi l'orlo del vestito verde dai motivi floreali.
«Perché nessuno ti ha aiutato? Insomma, la tua famiglia avrà notato c..» lo interrompo, sentendo la necessita dopo anni, di ricordarlo ad alta voce. Forse perché tra le strilla dei bambini, il baccano metallico delle giostre e il fruscio del mare, sembra una confessione meno dolorosa.
«Sono scappata di casa a diciassette anni» rivelo, distendendomi al fianco e giocando con i granelli di sabbia con l'indice come se, quel gesto, potesse risparmiarmi lo sguardo smarrito del ragazzo al mio fianco. Will, forse perché intuisce il mio disagio verso l'argomento, non aggiunge altro, mi guarda e basta.
«Perché tuo padre ti ha trattato così? Cosa c'è sotto? Patti, promesse...Eloise»
«La prima cosa che voglio tu sappia è che Thomas Morgan è un coglione, motivo per cui, ti faccio le mie più sentite scuse per...tutto. Da quando sono nato non fa altro che volermi modellare a suo piacimento, il primogenito destinato a seguire le sue orme. Mi ha allevato come se fossi un suo investimento. In fondo, lo sono. Ci ha educati alle finte buone maniere, al galateo, allo sfarzo ma alla fine, siamo venuti su come dei bastardi sguinzagliati. Non volevo diventare quello che volevano ma dopo Eloise...tutto è cambiato» dice scombinandosi i capelli con una mano.
«Perché? Non capisco, cosa c'entrano i Forrester? Parla come se non sapesse di Dan, come se tu fossi colpevole»
«Perché sono colpevole. È morta per colpa mia. Era un mio amico, sapevo benissimo chi fosse, cosa faceva e, nonostante la mia famiglia più volte abbia cercato di farmi agire, non ho fatto nulla»
«Smettila di dire questa cosa. Il fatto che cercassero appoggio in te non ti carica di nessuna responsabilità. Sanno di Dan?» sbotto sinceramente frustata.
«I Morgan e i Forrester hanno degli affari in comune da ancora prima che nascessi, la famiglia di Dan gestisce tutte le banche sul territorio e tra i suoi e i miei, ci sono giri di miliardi. I Morgan non possono esistere senza i Forrester e viceversa. Mio padre disse che Dan era il male collaterale, poteva essere chiunque» racconta lasciandosi sfuggire un sorriso amaro «Ci ha fatto firmare un patto di riservatezza, nessuno doveva sapere nulla. Nessuno avrebbe dovuto parlare. Si è premurato di far emergere ciò che conveniva per insabbiare quello che avrebbe sporcato la nostra immagine; Eloise ha avuto un incidente perché pioveva, è solo stata sfortuna. Niente droga, niente Dan» racconta intento a sfidare il sole con lo sguardo. Sento la pelle accapponare anche se l'aria è ferma e rovente.
«Al funerale, quando ho visto la scenetta del fidanzato che piangeva davanti la lapide della defunta fidanzata, non ci ho visto più. Bevevo tanto, odiavo la mia famiglia, odiavo me stesso. Ho perso il controllo sotto gli occhi di tutti, è finito in prognosi riservata. Lì è stata la prima volta che mio padre mi ha apertamente colpevolizzato per la morte di mia sorella. Diceva che ero stato io a introdurla alla droga, ai giri sbagliati, alle persone sbagliate. Non aveva torto, ancora prima della sua relazione con quel verme era costretta a vivere tutti i miei sfasi, le mie sfuriate. Diceva che pur di voler affossare la mia stessa famiglia non mi ero accorto di star condannando Eloise. Per qualche motivo assurdo che non comprendo, lei vedeva in me un riferimento, una guida. Dopo aver perso una campagna elettorale per quel siparietto mi ha fatto promettere di non fare più nulla del genere. I banchieri Forrester lo minacciarono di fare saltare degli accordi. Avrei dovuto tollerare l'eventuale presenza di Dan agli eventi sociali e lavorativi e avrei dovuto prendere in mano i progetti di famiglia. Dovevo rimediare a ciò che avevo fatto»
«Questo è un ricatto emotivo bello e buono! Will, non ti rendi conto della follia di tutto questo? Ha strumentalizzato il tuo dolore per un suo torna conto, è mostruoso! Non sei così ottuso. Dovrebbe vergognarsi! Piuttosto che pensare alla figlia appena sepolta, ha pensato agli affari, alla reputazione della famiglia! Lei non è morta per colpa tua» continuo avvicinandomi ai suoi occhi vacillanti, insicuri, confusi e impregnati di angoscia.
Il ragazzo mi guarda con compassione, affetto e forse pure invidia, come quando si accorgeva di essere l'unico bambino sul pianeta a cui era vietato andare al Lunapark. Come chi ha davanti un'ingenua che grida "alla pace" nel bel mezzo dei bombardamenti. Ma è più forte di me, non riesco a credere che normalizzi una situazione del genere, per quanto possa essere intricata la sua famiglia, non può vivere con queste catene addosso. Non è un peso a portata d'uomo.
Mi accarezza la testa dolcemente con l'aria di chi, ormai, ha accettato il suo fato crudele.
Solo William, in questa giornata assurda e meravigliosamente semplice, sembra libero. Sarà per quel sorrisetto sul viso che non vuole saperne di morire. Ma è solo William e lo sarà solo per oggi. In questa giornata di fine estate in cui inspiegabilmente affondiamo insieme le mani nella sabbia dorata come se ci conoscessimo sempre, come se, non avessimo aspettato altro che condividere questo momento da una vita.
Però, è solo per oggi. E, solo per oggi, io voglio godermelo al massimo.
«Per quelli come noi è così» sentenzia tristemente. Poggio la testa sulla sua spalla cercando di placare il fiume di parole che vorrebbero sommergerlo. Non è il momento, il sole è ancora all'orizzonte e lascio che asciughi bene le nostre ossa fragili.
Se solo sapesse quanto li conosco bene, quelli come loro.
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