9. Passato

Era da ormai mezz'ora che la ragazza si ritrovava a camminare senza sosta lungo la strada asfaltata. Il cielo plumbeo forniva da perfetto scenario per la sua disperazione, che si esternava di minuto in minuto con delle improvvise crisi isteriche, che le impedivano di ragionare lucidamente. 

La mente della giovane era offuscata, il suo corpo si muoveva a scatti. 

I vestiti trasandati e la piccola valigia che si trascinava appresso istigavano nei passanti quell'innocente curiosità che li spingeva a fissarla con occhi spalancati e luccicanti.

«Non ce la faccio più» mormorò, alzando faticosamente un braccio e passandoselo con distrazione sull'occhio destro che prudeva impercettibilmente. Sally aprì leggermente la bocca, permettendo ai polmoni di incanalare una piccola quantità di ossigeno.

«Basta» continuò lei, strascicando con pigrizia le gambe rigide, simili a pezzi di legno. Si scostò controvoglia alcune ciocche di capelli scuri, appiccicate alla fronte sudata.

«Sally?» 

Una voce calda penetrò con violenza nelle orecchie della giovane, intrufolandosi nella testa e causando ancora più scompiglio.

«Fermati» continuò il ragazzo, preoccupato dinanzi all'evidente stato angoscioso dell'amica «cosa è successo?»

Il suo corpo si parò di fronte a quello di Sally, nel tentativo di porre fine alla marcia incontrollabile che i piedi dell'adolescente erano decisi ad intraprendere. Le sue mani abbracciarono con forza le spalle esili, ricoperte da un sottile strato di seta grigio, e gli occhi color nocciola di Jonathan si schiusero di scatto.

«I-io...» sussurrò flebilmente Sally, accasciandosi contro il giovane e abbandonandosi a un pianto disperato «non mi hanno voluto Jonathan. Hanno ripudiato la loro unica figlia»

«Cos'è successo, Sally?»

La ragazza si allontanò di scatto da lui, mordendosi con forza il labbro inferiore e iniziando a torturare con le dita il tessuto sottile.

«Sally?» mormorò Jonathan, scostando velocemente un ciuffo rosso dalla fronte. Egli si chinò dinanzi alla ragazza e, con fare protettivo, la strinse a sé.

«Non posso dirtelo, non mi rivolgeresti più la parola»

«Non è vero» replicò il giovane scostandosi leggermente «sai che non potrei mai»

Il debole sospiro che le narici della ragazza esternarono, fu più che necessario per far comprendere a Jonathan la gravità della situazione. Lo sguardo vacuo che si era impossessato degli splendidi occhi azzurri della giovane, i capelli scompigliati, lasciati liberi alla mercé del vento impetuoso che spirava violentemente sui vestiti stropicciati e le enormi occhiaie che creavano un velo di tristezza sul volto delicato di Sally, furono necessari a innescare un enorme moto di preoccupazione nell'animo dell'amico.

«Se non vuoi dirmelo...»

«Sono stata io a uccidere Sara Black»

Mi sporsi leggermente dalla finestra, in modo da intravedere le auto della polizia locale slittare sull'asfalto a grande velocità.

«Non siamo a conoscenza né del passato del signor Kennest né del motivo per il quale abbia commesso il suicidio» aveva sentenziato quella mattina lo sceriffo, agitando con enfasi le mani grassocce e leccandosi con avidità i mustacchi color acciaio «ma al momento non abbiamo tempo per sapere ciò che gli è accaduto»

Il caso era stato insabbiato. Il fascicolo che conteneva qualsiasi informazione riguardante l'ex insegnante era stato riposto con pigrizia su uno scaffale, all'interno dell'ennesimo scatolone color sabbia. 

«Ora inizio a comprendere» sussurrò Brandon sovrappensiero.

«Cosa?» esclamai, voltando leggermente il capo verso l'uomo che mi affiancava. I suoi occhi gelidi sostarono per alcuni secondi sul mio volto, mentre le sue mani trovarono riparo nelle tasche dei pantaloni leggermente attillati.

«Bé, la storia si ripete, giusto?» affermò «i poliziotti commettono gli stessi errori»

Scossi con disapprovazione il capo, addentando distrattamente il labbro inferiore mentre il mio sguardo studiava il cielo limpido. Non era presente il solito vento pungente che pizzicava gli sguardi di chiunque, o l'ammasso di nubi che costellava la distesa che ricopriva Cherry Ashes. Vi era qualcosa di particolare all'interno di quell'improvviso cambio climatico, di quella luce che batteva con impeto su quel borgo sinistro e buio. 

Riportai l'attenzione sull'uomo che sostava a pochi centimetri da me, sovrappensiero.

«Che cosa intendi?» chiesi infine, avvolgendo ancora di più il mio braccio all'interno della manica in lana. Brandon si alzò dalla sua postazione, facendo stridere la sedia in legno al solo contatto con il pavimento cigolante. Mosse fiaccamente il suo corpo robusto, avvicinandosi alla scrivania. Aprì il primo fascicolo che riuscì ad afferrare, lasciando che le pagine scialbe e incartapecorite frusciassero contro le sue mani.

«Layla Sanchez, Sara Black...ci sono una serie di vittime che non possono essersi suicidate» esclamò, lasciando che la lingua rosea inumidisse le labbra sottili per alcuni istanti «le indagini si sono concluse in una settimana. Un tempo relativamente corto se ci si accorge che stiamo parlando di dieci vittime» 

«Ma stiamo parlando della polizia, Lewis» intervenni, aggrottando la fronte e serrando le labbra in una linea sottile. Lui scosse il capo, avanzando lentamente verso di me.

«Anche la polizia può essere corrotta» replicò prontamente, tirando la bocca in un sorriso sardonico «non essere ingenua. Ti fidi ciecamente della polizia solo perché tua madre ne faceva parte»

Sgranai leggermente gli occhi, allibita. 

Come era venuto a conoscenza di mia madre?

Le mie mani presero a tremare dinanzi al suo sguardo glaciale. Voltai di scatto il capo, in modo tale da impedire ai brividi di propagarsi per tutto il mio corpo. Scostai una ciocca di capelli, premetti i palmi delle mani contro la superficie patinata della scrivania, tentando di dissolvere il groppo che mi si era formato in gola. 

Mi incamminai verso la porta socchiusa, afferrai il pomello e lo tirai angosciosamente verso di me, mentre tentavo di scacciare dalla mente tutti i brutti ricordi che tentavano di emergere. 

«Vado in camera mia» riuscii a sussurrare in preda al panico. Arrancai con difficoltà, calpestando il pavimento malridotto.

«Diana?» esclamò una voce stranamente alterata e familiare «è davvero un piacere incontrarti da queste parti». Andy Miller si avviò barcollante verso la camera di Brandon, che avevo ormai superato da alcuni secondi. Si appoggiò con titubanza alla porta e lasciò che la schiena scivolasse su di essa, accompagnata dalla bottiglia vacillante che aveva trovato rifugio nella sua mano. Ne osservai il liquido giallognolo, che ricopriva ormai una piccola area del recipiente. 

«È ubriaco?» replicai, socchiudendo leggermente gli occhi.

«No, non lo sono» biascicò di rimando, tentando di rialzarsi. La sua bocca si spalancò, mentre il suo braccio era flesso nel tentativo di sostenere il peso del corpo rugoso. Avanzò incespicante verso di me, afferrandomi un braccio con enfasi. 

Mi osservò confuso, per poi lasciarsi sfuggire un ghigno. Un po' di bava fuoriuscì  ricadendo sul suo maglione beige, lasciando una macchia scura su di esso.

«Hai v-visto mio figlio?» chiese, guardandomi spaesato. Si appoggiò maggormente, lasciando che il palmo sudato della sua mano premesse contro la mia spalla.

«Mi scusi, ma chi è suo figlio? Probabilmente si sta confondendo con qualcun...»

«Brandon»

«C-cosa?»

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top