4. Vendetta

Fu un tonfo sordo, proveniente dalla cucina, a svegliarmi quella mattina, come se gli incubi e i problemi con il lavoro non fossero abbastanza numerosi da impedire ai miei occhi di abbassare le proprie palpebre per una buona parte della notte.

Appena il rumore occupò ogni singola parte della camera d'albergo, i miei occhi si spalancarono, riemergendo dall'abisso buio e cupo nel quale erano stati imprigionati, e le mie orecchie tentarono di ripararsi dal chiasso che proveniva dal piano di sotto. Appena terminò, mi liberai dalle coperte e tastai la sedia accanto al letto, alla ricerca dei vestiti. Tolsi la canottiera e i pantaloni da yoga in pochi secondi, indossai degli indumenti più appropriati e legai rapidamente i capelli neri in una crocchia disordinata. 

Spalancai la porta e scesi lentamente le scale, per evitare che gli altri ospiti dell'hotel si risvegliassero, ma non appena mi lasciai l'enorme rampa di scale alle spalle, li ritrovai tutti seduti attorno al tavolo rettangolare, utilizzato solitamente per la cena. Davanti ad ognuno di loro era posta una piccola ciotola in vetro, ricolma di latte, mentre al centro del tavolo una decina di alimenti occupavano la superficie ricoperta da una grande tovaglia color crema.

<<Dannazione Ester, fai più attenzione>> esclamò il proprietario con voce squillante, voltando il mento grondante di latte in direzione della cucina. Il suo pugno batté stizzito sulla superficie in legno, facendo tintinnare leggermente gli oggetti tra di loro, e tutti i commensali si voltarono verso di lui, interrompendo per alcuni secondi i soliti gesti meccanici che avevano tenuto occupati i loro corpi nei minuti precedenti.

<<Sì, mi scusi>> rispose una voce femminile, ricoperta poco dopo dal rumore dei piatti. Tutti tornarono a occuparsi della propria colazione, mentre io ero ancora immobile, incerta sul da farsi. Indugiai per alcuni secondi sull'ultimo scalino, premendo con violenza sulla tappezzeria, mentre i miei occhi scrutavano lo scenario che si stendeva dinanzi a me.

<<Buongiorno, Diana>> mugugnò una voce maschile alle mie spalle. La schiena si irrigidì istantaneamente, mentre il tono di voce del ragazzo, troppo alto per non poter essere udito nella camera adiacente, bastò a garantirmi decine di paia di occhi incollati su di me.

<<Da quanto tempo stai qui, immobile? Stai per caso ficcando il naso in qualche altro affare che non ti riguarda?>> continuò, questa volta a voce più bassa. Mi limitai a rivolgergli un'occhiataccia e a far scivolare il braccio sul mancorrente scricchiolante, per darmi la forza necessaria per superare l'ultimo scalino. Mi appostai infine in uno dei posti vuoti, aspettando che la cameriera portasse la colazione.

<<Buongiorno Diana, ha dormito bene?>> chiese Andy, strofinandosi un tovagliolo sulla faccia e rivolgendo i suoi occhi curiosi verso di me. Annuii distrattamente, sistemando alcune ciocche disordinate dietro le orecchie.

<<Le piace la città? Ieri la signora Sanchez mi ha detto che le ha fatto un po' di compagnia. È venuta a sapere della disgrazia?>>chiese, ingurgitando un altro sorso di latte.

<<Sì...>>

<<Mi dispiace ancora molto per Mary. La morte della figlia l'ha distrutta>> aggiunse una donna che le sedeva accanto, dagli eccentrici capelli rosso scarlatto. La stanza piombò nel silenzio più assoluto, e si inondò non solo di imbarazzo, ma anche del rumore del soffio del vento, che spirava senza sosta dalla serata precedente.

<<Che cosa ne pensa dell'intera faccenda, Diana? Mary le ha parlato di Charles?>> riprese la donna, subito dopo aver ingoiato un piccolo pezzo di brioches.

<<Quel farabutto -ululò l'uomo seduto accanto a me, agitando in aria un pugno- è l'assassino, questo è certo>>

<<Come fa a dirlo, signor Kennest? La polizia l'ha ritenuto innocente>> intervenne Jonathan, seduto proprio di fronte a me.

<<Davvero? La polizia ha detto che tutte le morti avvenute sono state suicidi. Ho conosciuto quei ragazzi meglio di chiunque altro, visto che ero il loro insegnante. Non mi hanno nemmeno voluto ascoltare>> la sua voce era diventata tuonante, mentre il suo corpo fremeva a ogni singola parola pronunciata <<nessuno di loro avrebbe avuto motivo di porre fine alla propria vita>>

<<Concordo>> intervenne nuovamente la donna dai capelli rossi <<e la cosa più strana è che tutti quei poveri ragazzi erano accomunati da un legame con Charles>>

<<Già. Purtroppo ho anche letto tutto ciò che quell'uomo scriveva>> intervenne il proprietario.

<<Che cosa scriveva?>> chiesi curiosa, sorseggiando leggermente un sorso di tè, evitando di ostentare troppo interesse. Jonathan mi guardò, tirando la bocca in un sorriso furbo e sghignazzando silenziosamente. Tirai le labbra in una linea sottile, per trattenere la rabbia che cresceva sempre di più in me, e mi voltai verso la donna, che proprio in quel momento si accingeva a prendere parola.

<<Quando era più giovane imbrattava i muri delle loro abitazioni. Cercava di insultarli in ogni modo, scrivendo anche bigliettini e lasciandoli nei loro armadietti. La prima a morire dei dieci ragazzi non fu Layla, ma una ragazza di nome Ruth>> spiegò, <<il suo fu un suicidio. Non era abbastanza forte da ignorare il suo persecutore>>

<<Povera ragazza>> riprese il signor Kennest <<quel cane non prova pietà per nessuno>>

Si alzò dalla sedia, piantando i palmi delle mani rugose sulla superficie in legno. I pantaloni grigi, troppo grandi per le gambe scheletriche, ciondolavano fiaccamente verso il pavimento, mentre il maglione color pece si stropicciò ancora di più sotto la forza esercitata dai suoi movimenti bruschi.

<<Ora il mio dovere mi chiama. È stato un piacere conoscerla>> aggiunse, voltando il capo ricoperto da peli bianchi verso di me. Ogni commensale lo guardò uscire dall'hotel, per poi alzarsi a sua volta, pronunciare debolmente alcune parole di congedo e sparire dietro a qualche parete o stanza. L'unico rimasto al tavolo era Jonathan, che non aveva staccato neanche per un momento gli occhi dal mio volto. Mi accinsi a imitare il signor Kennest, quando la sua voce profonda e calda mi  richiamò.

<<E così, la tua piccola indagine sta procedendo a gonfie vele>> disse con voce sarcastica e tagliente <<chi sarà la prossima vittima innocente del tuo interrogatorio? Il padre della povera Ruth? O il fratello di Sandy?>>

<<Che cosa te ne importa?>> chiesi stizzita <<non potresti fermarmi comunque>>

Un sorriso sardonico comparve sul suo volto ben delineato.

<<Io non sono tuo nemico, Diana>> rispose con enfasi <<ti voglio aiutare. Che ne dici di fare un salto alle tombe dei poveri ragazzi?>>

Scossi la testa, mentre il mio cuore accelerava il suo movimento. La bocca divenne arida, mentre le immagini di quel giorno mi ripiombarono nella mente. Non sarei riuscita a reggere un ulteriore confronto con lei. Sapevo già che il mio cuore non avrebbe retto nel vedere i rimasugli della sua vita, costretti a una lapide anonima e dei resti seppelliti e decomposti a più di tre metri di profondità nel suolo.

<<Ci vado da sola, grazie>> replicai, tentando di nascondere l'agitazione. Le sue spalle si alzarono con disinteresse, e le sue mani si incastrarono all'interno delle tasche dei jeans.

<<Come vuoi>> replicò <<però lascia che ti dia una mano. Vieni con me>>

Mi passò accanto con estrema velocità, lasciando che il suo profumo invadesse le mie narici. Mi apprestai a seguirlo, salendo gli scalini impolverati a due a due e immettendomi nel corridoio. Spostai leggermente la porta di una camera non appena entrò all'interno di essa, e lo imitai. 

<<Guarda>> disse, porgendomi delle buste bianche in carta, e prendendo posto sul letto matrimoniale. Mi limitai a osservarlo per alcuni secondi, per poi spostare lo sguardo sulla sua camera. Le tende erano perfettamente bloccate ai lati delle finestre, e lasciavano che la luce emanata dal cielo ricoperto di nuvole, inondasse la stanza. Il letto era perfettamente sistemato, e l'armadio che lo affiancava pochi passi più avanti era pulito e meno rovinato del mio.

<<Che aspetti?>> mi incitò, vedendo la mia curiosità venire meno. Annuii, abbassai il capo e abbracciai con le dita la prima busta, posando le altre sulla scrivania situata nell'angolo più remoto della camera. Lasciai scorrere il dito indice sull'apertura, indugiando alcuni secondi. Inspirai e distrussi con violenza l'apertura. Una decina di bigliettini fuoriuscirono da essa, spargendosi per terra e fermandosi a poca distanza dai miei piedi.

Muori c'era scritto sul primo. Spostai lo sguardo sugli altri.

Nessuno ti vuole.

Brutta e grassa, a quanto pare madre natura ha voluto giocare pesante con te.

Hai mai pensato al suicidio?

Scossi con disapprovazione il capo, mentre rivolgevo il mio sguardo a Jonathan.

<<Che cosa sono questi?>> chiesi con voce tremante. Lui mi guardò con compassione, come se capisse alla perfezione i sentimenti che mi stavano tormentando.

<<I biglietti scritti da Charles Sevilla a Ruth e Layla>> rispose <<nell'altra busta ci sono le foto dei graffiti con i quali imbrattò le loro case, e nell'altra tutte le minacce di morte lasciate dentro alla loro cassetta delle lettere. Mi chiedo ancora perché la polizia non l'abbia direttamente sbattuto dentro>>

L'ultima frase espressa dal giovane restò sospesa a mezz'aria, come una minaccia. Mi limitai a osservarlo, mentre i suoi occhi color nocciola erano fissi sul pavimento, a osservare i biglietti.

<<Jonathan>> sussurrai, nel tentativo di attirare la sua attenzione <<perché porti lo stesso nome di uno dei ragazzi morti?>>

Era dal giorno che ero venuta a conoscenza della sua identità che quella domanda vagava senza sosta nella mia mente. 

<<Quel ragazzo morto era mio padre>> rispose, dopo aver gettato via l'aria che era rimasta all'interno del suo corpo per alcuni secondi <<mia madre era Sally Jones e mio zio è Charles Sevilla, il fratello di Sally>>

<<Quindi tu mi stai aiutando perché...>>

<<Perché voglio che tu racconti questa storia al mondo, che i federali sbattano quella feccia di uomo in prigione, prima che lo costringa allo stesso destino dei miei genitori. Lui è il colpevole e deve pagare per tutto ciò che ha fatto>>

<<Ci ha creduto?>> proruppe la voce macabra e metallica, strappando il silenzio che si stendeva con tranquillità sopra quel vasto prato di lapidi. Jonathan sogghignò soddisfatto di se stesso, stringendo la presa attorno al cellulare, come a voler imprimere la sua compiacenza su di esso.

<<Si...>> sussurrò pacatamente, assaporando ogni singola parola <<Charles Sevilla sarà il capro espiatorio, il responsabile della "disgrazia" di Cherry Ashes>>

Un esule rivolo di vento giunse sino al suo volto, facendo increspare le ruvide labbra l'una contro l'altra. I capelli scuri si spostarono disordinatamente, accompagnando l'inospitale ballo eseguito dai rami spogli degli alberi, che ondeggiavano gli uni contro gli altri.

<<Bene, Jonathan, sapevo sin dall'inizio che ci saremo potuti fidare di te>>

Il cupo bip che risuonò per alcuni istanti bastò ad annunciare il termine della telefonata. Un cupo rantolio uscì dalla bocca di Jonathan, mentre si accingeva ad accovacciarsi sempre di più dietro ai quei pochi rami che fornivano riparo. Il suo sguardo schizzò verso quella vasta landa desolata, occupata solo da una figura femminile. Fu proprio il rumore dei suoi passi ad avvertire il ragazzo della sua presenza. Il suo corpo si protese sempre di più verso di lei, la vittima dello sporco gioco che macchiava e ricopriva la cittadina di Cherry Ashes, mentre deponeva un mazzo di fiori viola dinanzi alla lapide di Rosa Tallish.

<<Sei meno furba di quanto pensi>> sussurrò Jonathan con voce gutturale, lasciando che quelle poche parole venissero trascinate il più lontano possibile dal vento gelido che li circondava <<e lo scoprirai presto>>

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