Quella sera ero decisamente ubriaca

Quella sera ero decisamente ubriaca.

 In testa ho chiare le immagini di me che percorro il tragitto verso il bagno almeno una decina di volte, e soprattutto ricordo la sensazione di stordimento che mi invadeva la mente. Lì, seduta sul gabinetto, dopo aver fatto due metri di camminata barcollando e sbattendo contro porte e muri, a guardare il lavandino come se fosse un panorama visto da una di quelle giostre che non fanno altro che girare.

Sapevo di essere ubriaca? Sì, penso di sì, soprattutto dopo aver raggiunto per l'ultima volta il bagno a gattoni e dopo aver chiesto nel giro di trenta secondi e per due volte se qualcuno avesse una sigaretta. Io, io che quattro giorni prima solo a pensare di provare a fumare avevo un nodo allo stomaco e io, sempre io, che nel giro di mezzo minuto tre giorni fa osservando Lei aspirare quel veleno, avevo assolutamente cambiato idea e mi ero ritrovata con una sigaretta tra le labbra, sigaretta che tra l'altro portava il timbro delle sue labbra, e una nuvola di fumo incastrata tra gola e polmoni, che stranamente non mi aveva provocato i tipici attacchi di tosse di chi fuma per la prima volta in vita sua. E non contenta ammetto che un giorno dopo questa terribile sera, di cui sto per raccontare, avrei nuovamente fatto la stessa domanda e, a risposta affermativa questa volta, mi sarei trovata con la terza sigaretta della mia vita in bilico tra le mie dita e le mie labbra, con lo sguardo perso tra le persone.

E così, ciondolante come una lacrima di ghiacciolo sotto un sole cocente di Agosto, me n'ero tornata nella mia stanza. Ora forse è meglio se preciso qualche dettaglio, anche se non sono solita farlo, poiché senza questo potrebbe risultare incomprensibile l'intero racconto. Il tutto si svolgeva tra l'una e mezza e le due di notte, nella cittadina di Dubrovnik, in Croazia, allegramente in gita con la mia classe, e si da il caso che condividessi la camera con due mie compagne di classe tra cui Lei; ecco risolta l'intera questione contestualizziamo-un-attimo.

Come detto me n'ero tornata in stanza dove per l'appunto mi attendevano le mie compagne. Si erano accorte nel giro di qualche mio riso senza motivo e qualche mia botta data al muro, che ero un po' ubriaca e sembravano piuttosto divertite, com'è normale.

Me ne stavo avvolta nelle coperte del mio letto ad ascoltare i rumori delle mie compagne che, ancora ben sveglie, trafficavano dal bagno alla valigia per sistemare i vari vestiti del giorno dopo o struccarsi con chissà quale procedimento lungo mezz'ora, almeno finché non arrivò un ragazzo alla porta che iniziò una pesante discussione con una delle mie due coinquiline, non con Lei, o forse già discutevano quando ero arrivata ma questo non è importante.

Fatto sta che scoppiai a piangere.

Non era successo niente di particolare né io mi ero improvvisamente messa a pensare a chissà quale cosa di così triste, scoppiai a piangere perché è quello che volevo fare, quello che mi sentivo di fare. Cazzo dovevo piangere, dovevo proprio sfogarmi, avevo bisogno di aprirmi senza sapere quando chiudere di nuovo il mio vaso di Pandora e quella situazione, benché fosse la meno indicata per agire così, mi era capitata come se mi fosse stata offerta da delle mani fatte di alcol, come se mi avessero presa per le spalle e mi avessero iniziato a trascinare nella corrente di me stessa senza la possibilità di fermarmi a pensare prima di agire, senza nemmeno pensare a fermarmi.

Non piansi silenziosamente come forse si pensa la gente faccia, oh no, il mio pianto liberatorio era più simile a quello dei bambini appena nati che, senza intenzione di smettere nel giro di poco, iniziano a urlare e singhiozzare e fanno un casino della miseria.

Lei accorse quando i volumi del mio pianto si erano alzati un po' troppo per assomigliare a un russare di un' ubriaca, e si era seduta subito sul mio letto.

Le sue mani avevano preso ad accarezzarmi ovunque: i capelli, le guance, le lacrime. Mi sembrava di dover esplodere ancora di più di fronte a tanto contatto, mi sentivo piena di dolore, così tanto da dover impazzire. E più lei mi accarezzava, mi abbracciava, mi chiedeva cosa mi stesse accadendo, più io piangevo.

"Ti odio" o forse "Mi piaci", non ricordo quale dissi dei due per primo, comunque sia ripetei le medesime frasi continuamente anche dopo la prima, alternandole ai lacrimoni. L'abbracciai, forse con la volontà di stringerla così tanto da farle cambiare idea. Era esattamente questo ciò che desideravo: che lei cambiasse idea, che tornasse da me. Per questo mi ritrovavo lì a piangere come un bambino, per Lei, sempre per Lei.

"Tu non mi vuoi" "Non tornerai da me".

E quando lei mi rispose mi s'incendiò il cuore, proprio così: era come se le mie lacrime fossero della benzina di cui avevo cosparso il mio cuore e lei fosse la miccia di un fiammifero buttato su quel liquido.

"Lo sai che non posso". Oh, oh si lo so.

Mi ero alzata dal letto come potrebbe fare un panda dopo un abbondante pasto a base di canne di bambù, e, incurante di essere con una felpa lunga e in mutande, avevo sfilato davanti alla mia compagna di classe e al suo ex ragazzo che avevano interrotto la litigata solo per lanciarmi un'occhiata alquanto preoccupata, e mi ero così chiusa in bagno.

No, non ve lo dico cosa successe in bagno. Però è un ottimo nascondiglio e mi sento di consigliarvelo anche se le piastrelle sono davvero fredde, in un certo senso ha un che di accogliente, non so nemmeno io perché.

Uscii solo perché continuavano a bussare alla porta, probabilmente sentire una che piange come una disgraziata dentro un bagno chiuso a chiave, non è molto rassicurante. Uscii per questo e anche perché le piastrelle erano davvero fredde.

Lei mi controllò e io la odiai.

Allora anche lei ragionava, qualche volta.

Da quel momento il mio allegro teatrino si sarebbe svolto anche di fronte ad altri due spettatori, ma, come si può ben immaginare, non me ne fregava davvero niente e vi posso assicurare che anche per loro non è cambiato quasi nulla nella loro vita dopo aver assistito al mio spettacolo.

Qualche altro "Ti odio" alternato a "Mi piaci" finché lei, probabilmente esaurita dalla situazione che si era venuta a creare, aveva tentato di rifilarmi la solita spiegazione del perché non possiamo più essere amiche, al che mi ero praticamente soffocata nel cuscino tappandomi le orecchie con le mani e pregandola le avevo detto per una ventina di volte di non continuare, che non volevo sentirlo più, che ne avevo abbastanza. Due giorni fa mi diceva che ero la persona a sapere più cose di lei e ora tentava di argomentarmi nuovamente la teoria sviluppata sulla sua personalità non compatibile quasi con nessuna persona al mondo.

Qualche carezza ancora ma ormai ero abbastanza in me, o forse proprio perché non lo ero più, comunque sia avevo smesso di piangere e i miei occhi erano diventati vuoti, come me, ero vuota, ma non quel vuoto che ci si sente dopo un lungo sfogo, no, piuttosto il vuoto di chi si piazza un muro di fronte a sé e blocca qualsiasi fattore esterno voglia provare ad avvicinarsi. Mi sentivo così, sempre piena allo stesso modo, se non di più, con un coperchio che sigillava definitivamente non solo il mio vaso di Pandora, ma qualsiasi vaso contenesse una qualsiasi emozione.

Ah, l'apatia.

Ne parlai nel primo "capitolo" di questa raccolta. A quanto pare sembra sia destinata a non abbandonarmi mai. Amata Apatia.

Probabilmente lei non prese bene questo mio voler tagliare il discorso, oh no, lei voleva metterci una pietra sopra, si certo, un masso di trecento chili che mi avrebbe seppellita viva, ma non glielo permisi, avevo praticamente troncato il suo addio definitivo con incluso bonus "Ecco perché non possiamo essere amiche, ciao non rivolgermi più la parola" e io so benissimo quanto lei odi queste situazioni di stallo dove non c'è un punto definitivo.

Oh, Oh ti odio amor mio.

Non ricordo quale frase dissi prima se "Mi piaci o "Ti odio" però sono abbastanza certa di aver concluso con quest'ultima.

Il mattino dopo? Niente.

"Stai bene?" "Sì". Me lo chiese la mia compagna, non Lei.

Non mi aspettarono per andare a far colazione e io sinceramente ero troppo stordita per darmi una mossa e prepararmi in fretta, avevo dormito sì e no quattro ore, avevo un raffreddore di quelli che hai voglia di strapparti il naso per sempre e gli occhi oltre a essere gonfi e rossi, erano circondati sulle palpebre da puntini rossi (si, ho scoperto che quando bevo tanto mi succede, è tipo una rottura di capillari a quanto ho capito); ero uno straccio ma non avevo alcun mal di testa e non avevo rimesso nonostante tutto.

Quella sera non cambiò assolutamente nulla a Lei.

Lo capii il giorno dopo quando si scoprì che le camere del nuovo albergo erano solo doppie e non triple e io mi ritrovavo in mano con una tessera di una stanza singola perché Lei e l'altra compagna avevano deciso di tagliarmi via come una foglia marcia senza avvisarmi di nulla.

Da quel momento iniziai ad odiarla sul serio, forse in fondo l'ho sempre odiata o forse non l'ho mai fatto e tuttora fingo (Odio di plastica), ma è cambiato qualcosa in me.

Forse la parte meno masochista di me stessa ha tirato un calcio al suo alter ego e ha deciso di riprendersi la sua rivincita personale, o forse tra qualche mese cambierò idea di nuovo. Non lo so, non sono mai capace di determinare qualcosa in senso assoluto, ma so che ora la detesto e che non voglio parlarle più perché ho scoperto qualcosa che, nonostante io abbia sempre saputo, non mi aveva mai toccata così tanto in profondo.

E allora va così.

Così così ma in realtà sono contenta perché ho tagliato via la parte marcia di me stessa proprio quello stesso giorno, anzi forse le sono quasi grata che sia stata stronza perché questo mi ha aiutata a finirla, definitivamente per quanto ne so ora, ma spero solo non l'abbia fatto apposta, so ne sarebbe capace anche se questo risulterebbe incoerente con tutto il resto, ma lei è proprio così: un'incoerente. Non credo abbia finto ma se questa remota ipotesi fosse veritiera allora grazie e sennò grazie ugualmente perché hai facilitato tutta l'operazione con questa tua anestesia, che sia stata volontaria o meno.

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