Finale alternativo

Vi starete chiedendo come mai abbia deciso di scrivere un secondo finale per questa storia e la motivazione è molto semplice. Diversi di voi sono rimasti male per come siano andate le cose tra i protagonisti e siccome è mia intenzione deludervi ho deciso di rimediare facendovi un piccolo regalo. Questa parte, ovviamente, è collegata ai capitoli 18 parte 1 e parte 2, quindi se avete dei dubbi vi consiglio di rileggere prima quelli. E nulla, questo è tutto. Fatemi sapere che ne pensate mi raccomando, sono davvero curiosa di conoscere le vostre impressioni e non vedo l'ora di rispondere a tutte le vostre domande. Come sempre vi ringrazio infinitamente per tutto e se vi va passate a dare un'occhiata alle altre storie in corso.
Vi voglio bene, alla prossima ❤️❤️

Ig: redkhloewattpad/ _saradevincentiis

«Fatemi entrate cazzo o giuro che butto giù questa dannata porta»

Rumori e voci ottave arrivarono alle mie orecchie ma non riuscivo a capire cosa stesse accadendo. Avvertivo il cuore pulsare in una maniera innaturale ed il buio tenermi prigioniera. Ero intrappolata in una morsa vuota dalla quale non riuscivo a riemergere ed avevo paura.

«Mi dica almeno che il bambino sta bene»

Il bambino.
Questa volta riuscii ad udire in maniera nitida ed il panico si imposessò delle mie ultime facoltà.
Avvertii un dolore lancinante all'altezza del basso ventre e tutto si fece più chiaro. Con un rantolo quasi innaturale riuscii ad aprire lentamente le palpebre che sembravano pesare come cemento.
Non riuscii a mettere subito a fuoco l'ambiente ma riconobbi il fastidioso bip dei macchinari dell'ospedale.
Sentivo il corpo dolente e allo stesso tempo intorpidito. Guardai meglio e notai anche una flebo conficcata nel braccio sinistro mentre, sul destro, era presente un braccialetto bianco che non riuscii ad identificare.

La stanza era immersa in una fastidiosa luce bianca così come tutto l'arredamento asettico. Alcuni mazzi di fiori erano stati adagiati sulla finestra e sul banchetto di fianco al letto ma, non vedevo biglietti.
Non vedevo niente.

Cercai il telecomando e, a fatica, schiacciai il pulsante di chiamata.
Pochi attimi dopo una chioma bionda ed un sorriso gentile sbucarono dalla porta facendomi rilassare.
L'infermiera sulla cinquantina mi controllò i valori e, dopo le mie lamentele, mi tolse la flebo.
Già potevo vedere un piccolo livido violaceo colorarmi il braccio ma non ci feci caso.

«Qui fuori c'è un certo Harold che insiste di vederla, lo faccio mandare via?» mi chiese dolcemente porgendomi un bicchiere d'acqua ed una pillola rossa.

Volevo che se ne andasse?
La risposta era ovviamente no ma non ero pronta adesso. Non avrei saputo da dove iniziare e ora c'era una cosa che mi preoccupava più di tutto.

«Dov'è il mio...?» lasciai la frase a metà incapace di proseguire oltre.

Lo sguardo della donna cambiò radicalmente ed una fitta di dolore, questa volta non fisica, mi annebbiò la vista. Le lacrime presero a scendere senza controllo ma non mi importava. Avevo cercato di essere forte per lunghi nove mesi e ora, dopotutto, non volevo più fingere di esserlo.
Mi sentivo distrutta, dilaniata da un dolore mai provato prima.
E la colpa era solamente mia.
Avevo lasciato che gli eventi mi schiacciassero brutalmente non curandomi di come il mio organismo avrebbe potuto risponderne.

Posai una mano sulla pancia non più gonfia e lasciai che i singhiozzi si impossesarono del mio corpo. Piansi davanti la tristezza della donna che, dopo un attimo di titubanza, decise di avvicinarsi per posare una mano sulla mia spalla.

«No cara, il bambino è vivo ma è molto piccolo. Ha bisogno di essere nutrito con dei macchinari ed è attaccato ad un respiratore che l'aiuterà finché i polmoni non saranno in grado di farlo da soli. Siete stati molto fortunati, le vostre condizioni erano abbastanza critiche quando siete arrivati  tre giorni fa ma, siamo molto ottimisti che il piccolo recuperi in un paio di mese» spiegò in tono pacato.

Un sospiro di sollievo involontario abbandonò le mie labbra e mi rilassai.
Passai dal pianto disperato al pianto di gioia in pochissimi secondi e non mi importava di risultare pazza perché, probabilmente, lo ero diventata. Troppi eventi, troppo carico da affrontare per un solo essere umano e mi ritenevo fortunata a non ritrovarmi sull'orlo di una crisi di nervi ormai. C'è l'avevo fatta.
Ero riuscita a farcela.
Nulla e ripeto, nulla sarebbe più stato importante o avrebbe avuto più lo stesso impatto sulla mia vita. Volevo pensare solo a mio figlio e non vedevo l'ora di poterlo stringere tra le mie braccia e di iniziare un nuovo emozionante percorso insieme.

«Posso vederlo?»

«Certo, appena mi dirà cosa fare con i suoi ospiti l'accompagnerò in terapia intensiva» disse indicando la porta con un cenno del capo.

Un nuovo moto d'agitazione prese a corrermi dentro e prima di poter connettere il cervello, annuii.

«Lo lasci entrare per favore»

Sorrise congedandosi sparendo da dove poco prima era entrata. Ma, neanche il tempo di ti chiudersi la porta alle spalle, che il volto stanco e marcato di Harold entrò nella mia visuale. L'abbigliamento era lo stesso del matrimonio ma più sgualcito e non portava più la giacca. I capelli erano arruffati e gli ricadevano in ciocche disordate e prive di direzione. Lo sguardo amareggiato e gli occhi gonfi di chi probabilmente non se la stava passando molto bene. Rughe marcate andavano ad incorniciargli la fronte e le occhiaie scavate poste sotto gli occhi lo rendevano quasi un'altra persona. Sembrava essere appena stato investito da un camion o peggio.

Fece un paio di passi nella mia direzione e senza dir nulla cadde in ginocchio vicino il mio letto.
Si prese il volto fra le mani e sprofondò nel materasso nascondendosi nel lenzuolo bianco.

Mi allarmai e senza pensarci due volte mi spostai per avvicinarmi maggiormente a lui. Gli toccai titubante una spalla e non appena alzò lo sguardo capii. Stava piangendo. Le lacrime gli rigavano le guance scavate terminando sulla barba ispida del mento.

La mia mente smise di funzionare e rimasi semplicemente lì a fissarlo.
Nessuno aprii bocca, ci limitavamo a guardarci negli occhi e non sapevo perché ma avvertii il suo dolore.
Perché sapevo essere uguale al mio.

«Dimmi che mi ami ancora» pronunciò ad un certo punto serio.

La sua richiesta, dopo mesi di silenzio, mi colpì come una lama affilata.
Non poteva spuntare dal nulla pretendendo di ricevere indietro gli stessi sentimenti. Non era giusto.
Mi aveva abbandonata dal nulla ed ora era qui difronte a me soltanto per comodità oppure, forse, per sensi di colpa. In entrambi i casi era sbagliato.

«Perché sei sparito?» era l'unica cosa che mi interessava sapere da lui. Sapere la ragione del suo allontanamento e poter finalmente porre fine alle mie paranoie.
Cosicché avrei potuto chiudere questo libro per poi iniziare a scriverne uno nuovo.

Il suo sguardo si rabbuiò passandosi una mano anellata tra i ricci scomposti. Era dannatamente bello anche in questo stato e, nonostante non avessi dovuto, sentivo il cuore sciogliersi davanti a lui.
Sapevo fosse sbagliato provare ancora queste emozioni ma quando si trattava di lui non riuscivo ad essere razionale e giusta. Era il cuore a dettare le regole ora.

«Sono stato debole Megan. Ho fallito come uomo e mi dispiace di averti ingannata. Hai presente tutte le promesse e gli sproloqui su ciò che avremmo fatto dopo che la mia identità sarebbe emersa? Beh era tutto vero, volevo che andasse esattamente come programmato ma per diversi motivi mi è stato negato» spiegò sfregandosi la mano sulla fronte e lasciandosi sfuggire un gemito frustrato.

Non risposi e attesi che, non appena se la fosse sentita, continuasse da solo.
L'atmosfera era tesa ma non in maniera negativa. Ero avida di conoscere la verità e di poter finalmente andare avanti.

«Edward ha le videoregistrazioni del vostro bacio in ufficio e mi ha ricattato con quelli, voleva che ti stessi lontano oppure li avrebbbi divulgati e per te sarebbe stato un inferno riuscire a trovare un qualsiasi altro impiego. Ha un giro di conoscenze piuttosto influente e non gli sarebbe costato nulla farti terra bruciata intorno.
So che magri avrei dovuto parlartene ma a che scopo? Non avremmo risolto nulla e lui lo sarebbe comunque venuto a sapere, sono stato un vero vigliacco. Per colpa sua e, in gran parte mia, ho lasciato andare la cosa più bella che mi sia capitata e non me lo perdonerò mai» ammise tutto d'un fiato con la disperazione nelle corde vocali e il rammarico nello sguardo.

Dovevo elaborare la nascita prematura di un figlio, il ritorno di Harold e la brutale verità sul suo allontanamento. Non ero in grado, adesso, di sopportare oltre. Non ci riuscivo proprio e, forse anche egoisticamente, non volevo.
Per un attimo volevo godermi la felicità che credo solitamente provino tutte le famiglie con l'arrivo di un neonato. E non volevo privarmi anche di questa gioia, almeno non per ora.

«Io emh, voglio andare a vedere il piccolo... Forse non so, ti va di venire...con me?» domandai titubante con le mani che tremavano e lo stomaco in subbuglio.

Vidi le sue iridi colorarsi di un'emozione nuova e un sorriso timido solcargli le labbra per la prima volta da quand'era entrato.
Si alzò in piedi ed entusiasto mi scostò le coperte aiutandomi ad alzarmi.
Delicatamente mi sollevai in piedi e dovetti fare un passo indietro per evitare di capitolare a terra. Sentivo la testa pesante e le gambe molli come gelatina ma cercai di non farmi sopraffare.

Hardol mi affiancò porgendomi un braccio e senza ripensamenti l'afferai.
Toccarlo dopo tutto questo tempo mi provocò una scarica di adrenalina tale da restituirmi un po' di forza. Era incredibile come nonostante tutto rispondessi sempre allo stesso modo quando si trattava di lui.

Lentamente passeggiammo verso il reparto indicato e anche se il dolore dei punti era lancinante non mi fermai. Continuai finché non mi ritrovai di fronte la stanza 107 e prima di entrare mi presi un attimo per guardare l'uomo al mio fianco.
Ne avevamo passate tante ma alla fine eravamo qui, a due passi dalla felicità e niente, nemmeno la più ovvia delle verità avrebbe potuto cambiare tutto questo.

Aprimmo la porta insieme e finalmente lo vedemmo. Un piccolo esserino era adagiato su un fianco in un incubatrice bianca forse troppo grande. Diversi tubi e fili spuntavano dal suo corpicino minuto e una manciata di capelli scuri gli coprivano il capo.

Sentivo il cuore battere come non mai e d'un tratto nulla sembrava più avere senso. Tutte le paure e i problemi sembravano non esistere e per un attimo sentivo di potercela fare. Sentivo che tutto sarebbe andato per il meglio e che ben presto tutto questo sarebbe stato solo un ricordo lontano.

L'infermiera di prima ci fece cenno di avvicinarci e dopo aver sollevato delicatamente il neonato me lo adagiò tra le braccia. Lo strinsi appena e dolcemente gli stampai un bacio sulla fronte corrucciata. Il suo respiro era lieve e gli occhi erano chiusi così le manine intorno alle mie dita.
Era perfetto.

«Come lo chiamerai?» mi domandò curiosa la donna.

Guardai attentamente il mio bambino e dopo aver scoccato un'occhiata ad Harold che, per tutto il tempo, era rimasto estasiato dalla visione del piccolo, sorrisi. Non gli aveva tolto gli occhi di dosso nemmeno per un attimo e con mano tremante gli accarezzò un piedino scoperto.
Come se avesse timore che da un momento all'altro potesse rompersi.

«Erik» dissi.

«Erik Lucas Styles» ripetei questa volta sicura.

Incontrai lo sguardo sorpreso ma, allo stesso tempo emozionato di Harol e, senza ripensamenti, posai lievemente le labbra sulle sue. Non avevo la certezza che tutto sarebbe andato come avrebbe dovuto ma, di una cosa ero più che certa: l'amore per nostro figlio ci avrebbe legati indissolubilmente fino alla fine dei nostri giorni.

FINE.




N.B. Il nome del piccolo Erik è in memoria del defunto padre di Megan (che ho nominato diverse volte in CWS1) mentre ovviamente Lucas in onore di suo fratello che, da come avrete capito, ama più della sua stessa vita. Il cognome, bhe quello è stato adottato come simbolo di riconciliazione e, naturalmente, di amore verso H.
Erik Lucas Styles è l'inizio di una nuova avvenuta per i nostri Hardol e Megan Styles.

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