Le centrotrenta scale di Stefano Cucchi (Erre)
Di questa vicenda se n’è parlato fin troppo: è assodato. Lo so io che batto insistentemente su una tastiera di un computer infestato dai virus e lo sapete voi che leggete. È un trita e ritrita che forse abbiamo fin troppo sentito, soprattutto negli ultimi giorni. Eppure nelle folte foreste dell’ingenuità c’è ancora qualcuno che non conosce questa vicenda. Perciò eccomi qui a raccontarla un’ennesima volta, sebbene non sia questo lo scopo dell’articolo. Siamo nel 2009 a Roma. Siamo in macchina, dietro, e vediamo dalla nostra tremenda visuale un ragazzo mingherlino fumarsi una sigaretta con un amico: quel ragazzo è Stefano, Stefano Cucchi. Ed eccoli, fra una sigaretta e l’altra arrivare gli altri protagonisti indiscussi della nostra storia: i carabinieri. Accostano alla macchina, controllano Cucchi, lo arrestano per spaccio, perquisiscono casa sua, lo portano in caserma e lì, tutti lo avevamo intuito ma solo da pochi giorni si è saputo, Stefano viene picchiato. Con una ferocia che lo porterà alla morte. Una ferocia che gli costerà una settimana di dolore, angoscia, indifferenza e poi morte.
Ma non è di questo che vi volevo parlare: sarebbe davvero troppo pesante e troppo poco produttivo affrontare una vicenda che già tutti noi conosciamo bene e che tutti, più o meno, condanniamo. Se per caso c’è qualcuno che non la condanna si faccia qualche domanda.
No, Stefano Cucchi e la sua morte la lasciamo sulla scrivania e quando forse sapremo tutta la verità allora potremmo andare a riprenderla. Fino ad allora non parleremo di ciò. Almeno non io.
Voglio parlarvi di qualcosa che reputo più importante: è risaputo, da tutti, che prima di incontrare qualsiasi cosa ci sia dopo la morta Stefano Cucchi sia stato visto da circa centotrenta persone fra carabinieri, polizia penitenziare, dottori, pm e infermieri. Dal suo stesso padre. Insomma, chi più ne ha più ne metta. E dopo la morte di Stefano è calata una scure su queste centotrenta persone: “hanno ucciso loro Stefano” ha detto qualcuno, “come potevano sapere?” ha detto qualcun altro. Di pareri se ne sono spesi tanti, se non troppi e, inevitabilmente, qualcuno prima dei cinque carabinieri tutt’ora indagati è stato accusato, se non penalmente quantomeno moralmente ed eticamente, come uno degli uccisori di questo ragazzo.
Io, oggi voglio provare a spezzare qualche lancia. Più volte, e chi conosce la storia lo sa, Stefano Cucchi per paura o per chissà cosa ha rifiutato le cure dei medici, non ha detto lui stesso la verità su ciò che gli era successo, nonostante spesso gli sia stato chiesto. Lui stesso ha detto più volte “sono caduto dalle scale”. Il che non discolpa i centotrenta dal loro totale menefreghismo ma mi mette in una posizione nella quale mi è impossibile esprimere un giudizio coerente alla mia morale: come posso io biasimare l’agente della penitenziaria di Roma che di ragazzi con gli zigomi viola gliene sono arrivati tantissimi? Come posso io biasimare la dottoressa che si è ritrovata di fronte un paziente-muro che non si è fatto curare? Mi risulta difficile condannarli, così come mi risulta difficile discolparli. Qui sale in me la consapevolezza che di fronte ad una divisa la scelta migliore per tutti è stata anche quella più semplice. Non la più giusta, ma tanto meno la più biasimabile. Tutti loro hanno fatto il loro dovere indipendentemente da chi si ritrovavano di fronte, hanno firmato le scartoffie, hanno curato se potevano o confidatosi (nel caso dei compagni di cella), ma nessuno ha agito. Si sono attenuti alle regole.
Le regole.
Che parolona, regola. Qui in Sicilia, dal basso della nostra posizione geografica e secondo la nostra totale umiltà, si dice che “fatta la legge si trova l’inganno”. Un modo per evaderla ma essere sempre in regola. E non è forse questo il caso? Quando la legge fissa delle regole inscindibili e ci si ritrova di fronte ad un bivio sappiamo che non sempre seguirla è sinonimo di essere nel giusto-morale. Ma non seguirla ci mette in una posizione altrettanto complicata, se non di più.
Curare Stefano Cucchi contro la sua volontà sarebbe significato violare un suo diritto fondamentale: il diritto alla libertà. Anche quella di non essere curati. Ma non curarlo lo ha fatto morire. Che fare? Cosa scegliere quando la legge ti permette di scegliere la via più semplice? Basta essere semplicemente coraggiosi? O ci vuole qualcosa in più?
Vi lascio con questi miei interrogativi.
Stefano Cucchi
Federico Aldrovandi
Riccardo Rasman
Marcello Lonzi
Gabriele Sandri
Riccardo Boccaletti
Stefano Gugliotta
Luca Morneghini
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