THE CHILD

Marcus

Sei mesi prima avevano portato via Cesca. Non sapevo cosa le stessero facendo, né cosa volessero fare a me. Mi avevano trascinato su una nave, rinchiudendomi in una stanza buia e angusta. Ero lì da ore, forse giorni. Il tempo si confondeva tra le ombre, e le uniche voci che udivo erano quelle delle onde che si infrangevano contro lo scafo della nave.

La fame mi tormentava. Lo stomaco mi bruciava, contrattosi in crampi dolorosi. Ogni tanto sentivo il rumore di passi, ma nessuno veniva a portarmi del cibo. Nessuno parlava con me. Ero solo, perso nel buio.

Che fine ha fatto Cesca? Che cosa le stanno facendo? Non posso lasciarla sola. Devo trovarla, proteggerla. Devo uscire di qui.

Mi alzai a fatica, le gambe deboli per la fame e la mancanza di movimento. Mi avvicinai alla porta della cella, cercando di spiare attraverso le fessure. Ma fuori c'era solo il buio.

Il pensiero di Cesca mi dava la forza di resistere. Non posso arrendermi ora. Devo trovare un modo per uscire di qui.

Poggiando la fronte contro il legno freddo della porta, sentii un lieve scricchiolio. Forse, con abbastanza forza, avrei potuto sfondarla. Ma dovevo conservare le energie.

Sentii i passi avvicinarsi di nuovo. Mi allontanai dalla porta, preparandomi per l'eventuale incontro. Ma quando la porta si aprì, fu solo per far entrare un soldato con una ciotola di cibo.

«Finalmente,» mormorai, la voce roca.

Il soldato mi gettò la ciotola senza dire una parola e richiuse la porta con un tonfo.

Mi gettai sul cibo, nonostante fosse freddo e insipido. Ogni boccone era una lotta contro la nausea, ma dovevo mangiare. Dovevo recuperare le forze.

Devo trovare un modo per uscire da qui. Devo trovare Cesca. Devo proteggerla, qualunque cosa accada. Non posso lasciare che soffra per colpa mia. Non posso perderla.

Quando ebbi finito, mi sdraiai sul pavimento freddo, chiudendo gli occhi. L'immagine di Cesca era impressa nella mia mente, un faro di speranza nel buio che mi circondava. Dovevo resistere, dovevo lottare.

La porta si aprì all'improvviso, rivelando un soldato con un'espressione severa. «Siamo arrivati,» disse bruscamente. «Cammina e non fare domande.»

Mi prese per la spalla, trascinandomi fuori da quella cella buia. Camminavamo lungo il corridoio della nave, salendo le scale che portavano al ponte. Il sole mi accecò per un istante, abituato com'ero all'oscurità.

Sul ponte c'era un uomo robusto, vestito in modo imponente. Indossava una tunica rossa decorata con motivi dorati, una cintura di cuoio e sandali che sembravano scolpiti per la sua mole. I suoi occhi brillavano di una luce fredda e calcolatrice. Dietro di lui, la sua famiglia: una donna alta e austera con una tunica verde scuro, e due ragazzi che mi guardavano con curiosità mista a timore.

Allargò le braccia e disse: «Ti ricordi di me, Marcus? Sono lo zio Armando.»

Il nome risuonò nella mia mente come un eco. Armando, il fratello di mio padre. Non avevano mai avuto un buon rapporto, e quando mio padre era morto, Armando ci aveva lasciati soli, senza offrirci alcun aiuto.

«Che cosa vuoi, zio?» risposi con un tono di sfida.

Che vuole da me questo uomo? Dopo tutto questo tempo, perché ora? Devo rimanere calmo, ma devo anche essere pronto a tutto. Non posso permettermi di mostrare debolezza.

Armando sorrise, un sorriso che non raggiunse i suoi occhi. «Voglio solo parlarti, Marcus. Vedere come stai. E, naturalmente, discutere del futuro.»

Sentii un brivido correre lungo la schiena. Non mi fidavo di lui. Non mi fidavo di niente di ciò che stava succedendo.

«Che futuro?» chiesi, cercando di mantenere la voce ferma.

«Sul tuo futuro matrimonio con mia figlia Isadora,» disse Armando, con un tono di voce che non ammetteva repliche.

Rimasi sorpreso, il cuore mi batteva all'impazzata. Non volevo sposare Isadora, avevo un figlio con Cesca. Io la amavo, era l'amore della mia vita. Cercai di mantenere la calma mentre mi rivoltava lo stomaco.

«No,» dissi con fermezza. «Io non sposerò nessuno. Amo Cesca, e la rispetterò sempre.»

Armando rise, una risata fredda e priva di gioia. «Cesca è morta,» dichiarò con crudeltà.

Le sue parole mi colpirono come un pugno allo stomaco. Cesca, morta? No, non poteva essere vero. Stava mentendo, cercava di manipolarmi. Ma il dubbio si insinuava nella mia mente, e il dolore era insopportabile. Non potevo permettermi di credergli, non senza lottare.

«Stai mentendo,» sibilai, il dolore trasformandosi in rabbia. «Non ti credo, Armando.»

«Sono parole difficili da accettare, lo so,» rispose con un sorriso freddo. «Ma è la verità. Cesca non c'è più. E ora devi pensare al futuro. Al futuro del nostro impero.»

Sentii la rabbia crescere dentro di me, un fuoco che minacciava di consumarmi. Ma dovevo mantenere il controllo, dovevo essere razionale.

«Nipote mio, vieni, sediamoci,» disse Armando, indicandomi delle poltrone in fondo al ponte.

Mi seguì, la rabbia che ribolliva dentro di me. Si sedette con un'aria di superiorità che mi dava sui nervi.

«Marcus, tu vali molto. Non puoi stare con una bastarda,» disse, con un tono di voce mellifluo.

Un sorriso nervoso si dipinse sul mio volto. «Cesca non è una bastarda,» dissi, con una freddezza che cercava di nascondere il mio disprezzo.

Non riuscii a trattenermi oltre. Gli diedi un pugno in pieno viso. Armando barcollò indietro, sorpreso. Ma non mi fermai lì. Lo presi ancora a pugni, uno dopo l'altro, finché non lo vidi crollare a terra.

Il sangue mi pulsava nelle tempie, la mia rabbia finalmente esplosa in violenza. Vedere Armando a terra mi dava una soddisfazione che non avevo mai provato prima. Ma sapevo che non poteva finire così. Non bastava.

Armando si rialzò a fatica, con il viso contorto dal dolore e dall'ira. «Sei un pazzo, Marcus. Non sai cosa stai facendo.»

Mi gettai su di lui di nuovo, ma questa volta i suoi uomini mi fermarono, trascinandomi via. «Basta così,» gridò uno di loro, stringendomi forte per impedirmi di muovermi.

L'uomo mi gettò sul divano con forza, facendomi perdere momentaneamente il respiro. Armando si rialzò con una smorfia di trionfo sul volto. Due dei suoi uomini estrassero le spade e le posarono al mio collo, il freddo del metallo contro la mia pelle.

«Isadora,» disse Armando, «scopa Marcus come ti ho insegnato io, figliola.»

«Vi prego, no,» dissi, sentendo il panico crescere dentro di me. Guardai le spade sotto al mio collo, sapendo che sarei morto se avessi opposto resistenza.

Isadora, con occhi pieni di lacrime, si avvicinò titubante e si sedette sulle mie gambe. «Piano,» le dissi, cercando di mantenere la voce calma. «Se non vuoi, non devi farlo.»

Ma lei, con il volto segnato dal terrore e dalla rassegnazione, si posizionò meglio. Alzò la mia tunica e prese il mio membro nella mano, facendolo entrare lentamente dentro di sé. Non volevo scoparla, non volevo toccarla. La mia mente era piena di pensieri su Cesca, sul nostro bambino, su quello che ci avevano fatto.

Isadora si mosse lentamente, le lacrime scendendo silenziose lungo le sue guance.

Ogni movimento di Isadora era una pugnalata al cuore. Non era solo il dolore fisico, ma quello psicologico che mi lacerava. Pensavo a Cesca, alla nostra promessa, al nostro amore. Questo non era fare l'amore. Questo era una violenza, una tortura inflitta da un uomo crudele.

Mi sentivo impotente, un burattino nelle mani di Armando. Ogni fibra del mio essere voleva reagire, lottare, ma le spade al mio collo mi ricordavano costantemente il pericolo. Dovevo resistere, per Cesca, per nostro figlio. Ma a quale costo?

Isadora continuò a muoversi, il suo corpo tremante di paura e vergogna. Volevo fermarla, dirle che tutto sarebbe andato bene, ma sapevo che era una bugia. Non c'era nulla di giusto in tutto questo.

Le sue lacrime si mescolarono con le mie, mentre il peso dell'orrore e della disperazione ci schiacciava entrambi. Avevo fallito nel proteggere Cesca, nel proteggere me stesso. E ora, stavo fallendo nel proteggere Isadora.

Con ogni movimento di Isadora, giurai a me stesso che avrei trovato un modo per liberarmi da questa prigionia, per vendicare tutto il dolore e l'umiliazione subiti. Non avrei permesso a Armando di vincere. Non importava quanto tempo ci volesse, avrei trovato un modo.

Iniziai a muovermi sotto di lei, spingendo forte, cercando di perdere me stesso nel ritmo brutale e senza senso. Isadora sussultò e disse con un filo di voce, «Piano, sono vergine.»

La sua confessione mi colpì come un pugno nello stomaco. Era vergine, come Cesca lo era stata. Ma in quel momento, non mi importava. Non c'era spazio per la compassione, solo per il dolore e la rabbia che mi bruciavano dentro. Continuai a spingere forte, quasi volendo dimenticare tutto, cancellare ogni pensiero.

«Marcus, no,» sussurrò Isadora, il suo volto una maschera di dolore e confusione. Le sue lacrime si mescolavano con le mie. La stavo ferendo, e lo sapevo. Ma non riuscivo a fermarmi. Non mi importava. Non era Cesca. Non poteva mai essere come lei.

Sto facendo a lei ciò che hanno fatto a me. Sto distruggendo la sua innocenza, come hanno distrutto la mia. Ma perché? Perché non riesco a fermarmi? La mia mente è annebbiata, persa in un vortice di odio e disperazione. Ogni spinta è un grido di rabbia, un grido che nessuno sente.

Isadora piangeva, i suoi singhiozzi soffocati. Sentivo il suo corpo tremare sotto di me, ma non riuscivo a fermarmi. Non volevo fermarmi. La stavo punendo, come se fosse lei la causa di tutto il mio dolore.

«Marcus, per favore,» mormorò, la sua voce rotta dalla sofferenza. Ma le sue parole cadevano nel vuoto. Non riuscivo a sentire altro che il mio stesso dolore, la mia stessa rabbia. Ogni colpo era una ferita aperta, un ricordo di quello che avevo perso.

Perché sto facendo questo? Perché non riesco a fermarmi? Ogni fibra del mio essere urla di dolore, eppure continuo. Sono un mostro. Sto diventando come loro. Sto diventando come Armando.

Con ogni spinta, sentivo la mia umanità sgretolarsi. Stavo affondando in un abisso dal quale non potevo più uscire. Ogni colpo era un grido di aiuto che nessuno avrebbe mai sentito. E in quel momento, realizzai quanto ero distrutto. Quanto ero perso.

Cesca, perdonami. Sto facendo quello che ho giurato di non fare mai. Sto diventando il mostro che ho sempre odiato. Ma non riesco a fermarmi. Non riesco a fermare questo dolore.

Le lacrime scendevano copiose sul mio viso, mescolandosi con il sudore e il sangue. Isadora era silenziosa, il suo corpo sottomesso alla mia furia. La stavo distruggendo, e non c'era nulla che potessi fare per fermarmi.

«Marcus, basta,» disse con un filo di voce. Ma non potevo. Non riuscivo. E in quel momento, realizzai quanto ero diventato come loro. Un mostro.

Devo fermarmi. Devo trovare un modo per fermarmi. Non posso continuare così. Non posso distruggere un'altra vita. Devo essere forte. Per Cesca, per nostro figlio. Devo trovare una via d'uscita.

Ma le parole di Isadora si perdevano nel vuoto, e io continuavo, perso nel mio stesso inferno.

Ogni spinta mi riportava indietro nel tempo, al momento della mia prima volta. Artur mi aveva costretto, mettendomi in una situazione che non avevo mai voluto. Diana era stata la mia prima. Il ricordo mi colpì come un pugno nello stomaco, riaprendo vecchie ferite.

Andai ancora più forte, il suono delle mie palle che sbattevano contro di lei. Isadora si strinse intorno a me, tirando la testa indietro in un misto di dolore e piacere. Suo padre ci guardavano, divertiti come se stesse assistendo a uno spettacolo.

È questo che sono diventato? Un giocattolo nelle mani di altri, costretto a fare ciò che non voglio? Sto ripetendo gli stessi errori, infliggendo lo stesso dolore che ho subito. Ma non riesco a fermarmi. Ogni spinta è una punizione, una condanna per ciò che sono diventato.

Isadora si strinse ancora di più intorno a me, i suoi gemiti si mescolavano con i miei respiri affannosi. Sentivo il calore del suo corpo, la tensione dei suoi muscoli. Lei venne, il suo corpo si contorse in un'estasi dolorosa. Ma io non ero ancora venuto.

Diedi una spinta più forte, cercando di trovare un qualche sollievo nel caos che mi circondava. Isadora mi abbracciò, il suo corpo tremava sotto di me. Sapevo che l'avevo ferita, e questo mi fece male più di qualsiasi altra cosa.

Sto diventando come loro. Sto diventando un mostro. Ma non posso fermarmi. Devo trovare un modo per uscire da questo inferno. Per Cesca, per nostro figlio. Devo trovare la forza di cambiare.

Mi fermai un attimo, guardando il viso di Isadora. Le sue lacrime si mescolavano con il sudore, e nei suoi occhi vidi il riflesso del mio stesso dolore. Mi sentii svuotato, un guscio vuoto di ciò che una volta ero.

«Mi dispiace,» mormorai, il suono della mia voce era un eco vuoto. Isadora non rispose, il suo corpo tremava ancora. Mi allontanai da lei, sentendo il peso delle mie azioni schiacciarmi.

Isadora si appoggiò la fronte sulla mia spalla. «Scusami,» mormorai, abbracciandola, ma non riuscivo a venire. Forse perché non era Cesca, la mia stellina. Isadora si alzò piano, senza guardarmi negli occhi. L'avevo ferita. Suo padre le disse: «Sei stata brava, figliola,» e la baciò sulla fronte. Mi tocco la spalla «Sei stato un vero uomo.»

Mi alzai, sistemandomi, e dissi: «Dov'è Cesca?»

Mio zio sorrise, un ghigno soddisfatto. «Devi sposare prima Isadora, e poi forse ti faremo vedere Cesca. So che è incinta,» disse.

Diventai padre. La notizia mi colpì come un pugno nello stomaco. «Sì,» risposi. «E non permetterò che cresca senza di me.»

Non posso credere che mi stiano costringendo a questo. Cesca è incinta e io sono qui, obbligato a sposare qualcun'altra. Devo fare qualcosa. Devo trovare un modo per salvare lei e nostro figlio. Non posso lasciarli in mano a questi mostri. Mi fanno schifo. Hanno rovinato la mia vita, e adesso stanno cercando di rovinare anche quella di Cesca. Ma non glielo permetterò. Non posso permetterglielo.

«Perché?» gridai, la mia voce colma di disperazione. «Perché devo sposarmi?»

Mio zio rise, la sua voce era fredda e priva di compassione. «Ti rinchiuderanno di nuovo in quella stanza sulla nave,» disse, il tono gelido. «E poi, quando nascerà il tuo bambino, ti sposerai perché non lascerei che l'imperatore sposi l'ex imperatrice bastarda.»

La mia rabbia cresceva, un fuoco che bruciava dentro di me. Non potevo credere a quello che stava succedendo. Stavo per diventare padre e mi stavano costringendo a sposare una donna che non amavo. Non potevo permetterlo. Non avrei permesso a nessuno di separarmi da Cesca e dal nostro bambino.

Guardai mio zio, il mio sguardo era pieno di odio.«Non posso fare questo,» dissi, la mia voce tremava di rabbia e disperazione. «Amo Cesca. Non posso sposare qualcun'altra. Non posso.»

Lui rise ancora, un suono freddo e senza cuore. «Non hai scelta, Marcus,» disse. «O sposi Isadora, o ti rinchiuderanno di nuovo. E questa volta, non uscirai mai più.»

La mia mente era in tumulto. Dovevo trovare un modo per salvarmi, per salvare Cesca e il nostro bambino. Ma come? Ero solo contro un mondo intero che sembrava volermi distruggere.

Non posso arrendermi. Devo trovare un modo per uscire da questa situazione. Devo essere forte per Cesca, per il nostro bambino. Non posso lasciare che vincano. Non posso.

Capire cosa significava essere l'imperatore mi colpì come un pugno nello stomaco. Ero diventato l'imperatore, ma Cesca non era più niente, solo l'ex imperatrice. Lo zio mi guardò con un sorriso freddo. «Quando nascerà il bambino, lo porteremo da te,» disse. «Però, se nasce malato, lo butteremo dalla montagna. Hai capito, vostra maestà?» Fece un inchino beffardo.

Diventare l'imperatore significava avere il potere di fare giustizia. Potevo uccidere mio zio e la sua famiglia, ma dovevo proteggere Isadora, una povera creatura intrappolata in questo incubo come me. Dovevo giocare bene le mie carte. Dovevo essere furbo, strategico. Dovevo essere paziente.

«Sì, ho capito zio,» dissi, la mia voce era fredda e calcolatrice.

Lui annuì, soddisfatto. «Prendetelo,» ordinò.

I soldati mi afferrarono e mi portarono di nuovo nella stanza buia. Sentivo il peso delle catene, il freddo del metallo contro la pelle. Il buio era opprimente, ma la mia mente lavorava freneticamente.

Dovevo trovare un modo per uscirne. Per salvare Cesca e il nostro bambino. Per vendicarmi di mio zio e di tutto ciò che mi aveva fatto. Ero solo, ma non ero sconfitto. Non ancora.

La porta si chiuse dietro di me con un suono sordo. Mi sedetti nell'oscurità, le mani legate, il cuore pesante. Ma dentro di me, una fiamma continuava a bruciare. Una fiamma di speranza, di determinazione. Una fiamma che nessuno poteva spegnere.

Non mi arrenderò mai. Troverò un modo per uscirne. Troverò un modo per salvare la mia famiglia. E quando lo farò, mio zio pagherà per tutto questo. Lui e tutti quelli che mi hanno fatto del male.

Il silenzio della stanza era rotto solo dal suono del mio respiro. Ogni respiro era un promemoria che ero ancora vivo, che avevo ancora una possibilità.

Mi ricordai del viso di Cesca, della sua forza, della sua determinazione. Sapevo che dovevo essere forte per lei, per il nostro bambino. Dovevo resistere. Dovevo lottare.

Sei mesi dopo, mi comunicarono che il mio bambino stava per nascere. Avrei dovuto essere felice, ma invece provavo un'angoscia profonda. Se il bambino fosse stato disabile o con qualche difetto, lo avrebbero buttato giù dalla montagna. Non riuscivo a sopportare il pensiero che il mio piccoletto potesse essere condannato per qualcosa di così crudele. E poi c'era Cesca. E se la mia stellina non fosse sopravvissuta al parto? La preoccupazione mi divorava dall'interno.

Ma non avevo tempo per lasciarmi sopraffare dai miei pensieri. Oggi era il giorno del mio matrimonio con Isadora. Non la vedevo da quando eravamo stati costretti a stuprarci a vicenda. Quei momenti orribili mi tormentavano ancora. Da allora, ero stato rinchiuso in questa stanza buia, alimentato solo una volta al giorno. Ero diventato più magro, più debole. Tutto quello che avevo, tutta la mia forza, sembrava essere svanito.

Non avevo scelta. Dovevo affrontare tutto questo per il mio bambino, per Cesca. Dovevo resistere.

La porta si aprì con un cigolio. Due soldati entrarono, mi sollevarono senza tante cerimonie e mi condussero fuori. La luce del giorno mi accecò per un momento, e dovetti socchiudere gli occhi per abituarmi. Il mondo esterno sembrava quasi irreale dopo tutto quel tempo passato nell'oscurità.

Il mio zio Armando mi stava aspettando, con il suo solito sorriso beffardo. Eccoti qui, nipote mio,» disse, battendomi una mano sulla spalla. «Oggi è un grande giorno per te.»

Non risposi. Il disgusto che provavo per lui mi impediva di parlare. Mi condussero verso una grande sala, dove si sarebbe svolta la cerimonia. Isadora era già lì, vestita in abiti nuziali, ma con un'espressione di tristezza e rassegnazione sul volto. La sua sofferenza era evidente, ma non potevo fare nulla per alleviarla.

«Sì» risposi con un filo di voce.

Mi avvicinai a Isadora, che stava in piedi accanto a suo padre. Indossava una lunga tunica bianca, decorata con fili d'oro che scintillavano alla luce del sole. I suoi capelli erano intrecciati con fiori e nastri, e un velo sottile le copriva il volto. «Ciao,» le dissi, ma lei non rispose, guardando ostinatamente il pavimento.

La cerimonia si svolse secondo le tradizioni antiche. Il sacerdote ci fece avvicinare all'altare, dove un braciere ardeva con un fuoco sacro. Intorno a noi, gli ospiti indossavano tuniche colorate e portavano ghirlande di fiori come simbolo di benedizione. Le pareti della sala erano decorate con arazzi raffiguranti scene di battaglie e trionfi, un richiamo alla grandezza del nostro lignaggio.

Il sacerdote iniziò a recitare le preghiere in una lingua antica, invocando la protezione degli dei sul nostro matrimonio. Le sue parole erano lente e solenni, cariche di significato e storia. Isadora e io ci inginocchiammo davanti a lui, e con un pugnale cerimoniale, egli tagliò leggermente il palmo delle nostre mani. Il sangue colò sul pugnale, unendo simbolicamente le nostre vite.

Poi, il sacerdote prese una corda di seta rossa e legò le nostre mani insieme, simboleggiando l'unione indissolubile del nostro matrimonio. Intorno a noi, i presenti alzarono le mani in segno di benedizione e intonarono canti di buon auspicio.

Il mio cuore era pesante. Pensavo a Cesca, a quello che stava passando, e al nostro bambino che stava per nascere. Non volevo questo matrimonio, non volevo unire la mia vita a quella di Isadora, ma non avevo scelta. Dovevo resistere, dovevo sopportare per il bene del mio bambino.

«Isadora,» sussurrai mentre il sacerdote continuava la cerimonia. «Mi dispiace per tutto questo.»

Lei mi guardò per un istante, i suoi occhi pieni di tristezza e rassegnazione, poi abbassò lo sguardo. Le sue labbra si mossero appena, sussurrando un «lo so» che fu quasi impercettibile.

La  cerimonia proseguiva, ma il mio cuore e la mia mente erano altrove. Improvvisamente, alcuni soldati si avvicinarono, interrompendo le parole del sacerdote. Uno di loro, con un'espressione grave, si fece avanti e disse: «Vostra Altezza, il vostro bambino.»

Un altro soldato teneva un fagotto tra le braccia. Mi avvicinai, il cuore in gola. Il soldato disse: «L'imperatrice Cesca... è morta durante il parto.» Il mondo sembrò crollarmi addosso. Guardai il bambino e notai la sua malformazione. Il mio cuore si spezzò ancora di più.

«Il mio bambino,» sussurrai, mentre il dolore e l'angoscia mi travolgevano. Mi allontanai un po' per raccogliere i pensieri. Mio zio Armando si avvicinò e disse: «Mi dispiace, Marcus. Ma dobbiamo buttare il bambino nella montagna. È disabile, come avevamo detto.»

«No!» gridai, sentendo una rabbia e una disperazione montare dentro di me. «Non lo faremo.»

Lui scosse la testa, impassibile. «Sì, Marcus. È la legge.»

Il soldato che teneva il bambino salì sul suo cavallo, pronto a partire verso la montagna. La mia mente era in tumulto. Non potevo lasciare che mio figlio venisse condannato a una morte così crudele. Pensavo a Cesca, a tutto quello che avevamo sacrificato. Non potevo permettere che il nostro bambino subisse lo stesso destino.

Non potevo perdere anche mio figlio. Avevo già perso troppo. Cesca era morta, e il nostro bambino era tutto ciò che mi restava di lei. Dovevo proteggerlo, a qualunque costo. La disperazione si trasformò in una determinazione feroce. Non avrei permesso che Armando e i suoi soldati distruggessero anche questo ultimo frammento della mia famiglia.

Il  soldato cavalcava sempre più lontano, portando via il mio bambino. Ogni galoppo del cavallo era come un colpo al mio cuore. Mio figlio aveva solo una malformazione, niente di così grave da giustificare una condanna a morte. Sapevo che era forte, come sua madre.

Le lacrime iniziarono a scendere, una dopo l'altra, e in un istante crollai. Mi gettai in ginocchio, sentendo tutta la disperazione e l'impotenza travolgermi. Non avevo mai pianto in tutta la mia vita, non così. Ma ora, tutto ciò che avevo perso mi travolgeva come un'onda inarrestabile.

Urlai, un urlo che sembrava non avere fine. Era un urlo di dolore, di rabbia, di perdita. Un urlo che sembrava risuonare attraverso il tempo e lo spazio. Il mio mondo era crollato, e non sapevo come ricostruirlo.

Perché doveva succedere tutto questo? Perché Cesca? Perché nostro figlio? Mi sentivo tradito dal destino, abbandonato dagli Dei. Avevo cercato di fare la cosa giusta, di proteggere la mia famiglia, ma tutto ciò che avevo ottenuto era sofferenza.

Mentre gridavo, il dolore nel mio cuore si mescolava alla consapevolezza che dovevo fare qualcosa. Non potevo lasciare che finisse così. Dovevo lottare, per Cesca, per nostro figlio, per tutto ciò che avevamo sacrificato.

Mi alzai lentamente, sentendo il peso del mondo sulle spalle. Non sapevo come, ma dovevo trovare un modo per riprendermi mio figlio. Non potevo permettere che la nostra storia finisse in questo modo.

Guardai l'orizzonte, il sole che tramontava e tingeva il cielo di un rosso sanguigno. Era un segno, forse, della battaglia che dovevo ancora combattere e vincerla.

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