88.Livia

Ricordati che se ti nascondi dietro a tante maschere, alla fine scoprirai di non esistere.

-Milena Bergantin-

Quando le gocce di pioggia cominciarono a tintinnare sul ferro delle rotaie, bagnando i libri che riempivano gli alti scaffali del mio Clypeus, capii che il treno stava per arrivare. Lì dentro avevo il massimo controllo su ogni particolare, era un gioco da ragazzi capire come muoversi e cosa fare. Tutte le emozioni provate quando l'avevo testato erano sommerse dalla razionalità della consapevolezza di finzione, anche se lo stesso non poteva dirsi dei miei ospiti, che tuttavia sembravano rassicurati dalla mia calma, esattamente come era accaduto a me qualche giorno prima quando era stata Padma a invitarci nel suo Clypeus.

Appena iniziò a udirsi il fischio del treno in arrivo e il tremore che avrebbe provocato la caduta dei primi libri verso il disfacimento e sopra le nostre teste, capii che era arrivato il momento.

«Correte!» gridai per farmi sentire oltre il frastuono, per poi cominciare a dirigermi a passo spedito nella direzione del fischio.

«Verso il treno?» domandò incredulo Yoann. Non fu necessaria una risposta.

Solo quando percepii la loro presenza, uno alla mia destra e l'altra alla mia sinistra, cominciai a correre con maggiore intensità, anche quando il terrificante treno con la faccia tribale – di cui andavo particolarmente fiera – faceva la sua comparsa sfrecciando verso di noi.

Al momento del progetto del Clypeus avevo scelto come unica via di fuga quella di correre verso il treno. Non ne ero del tutto sicura, ma lo vedevo come un modo per affrontare la mia paura, per corrergli incontro, batterla in velocità tanto da riuscire a trapassarla con la mia sola determinazione.

In quel momento decisi che un giorno l'avrei fatto per davvero.

Il momento dell'impatto fu talmente rapido che nemmeno lo percepii. Semplicemente un attimo prima gli stavamo solo correndo incontro, e l'attimo dopo eravamo circondati da forme e luci indistinguibili che gridavano nelle nostre orecchie, semplici strisce colorate che però non potevano toccarci, perché noi eravamo più veloci.

Quando tutto finì, ci trovammo innanzi a una porta senza maniglia, immersa nell'improvviso silenzio in cui si udiva solo il suono dei nostri respiri affannati. "Ci siamo" pensai.

Ero davvero pronta? Mi voltai verso gli altri due Ephuri, che si tenevano a buona distanza l'uno dall'altro, i segni del litigio appena avvenuto riscontrabili anche solo negli occhi di quelle semplici proiezioni mentali di loro stessi.

Sì, dovevo esserlo. Per loro. Per me.

Aprii la porta, e non appena furono entrati, la chiusi dietro di me, trovandomi però all'improvviso fuori e allo stesso tempo dentro a ogni cosa che si trovava in quello spazio.

Ero estranea spettatrice onnisciente e intima anima che si celava in ogni piccola essenza presente. Ero il profumo di carta appena stampata, di inchiostro e di pioggia. Ero ognuna delle copertine rigide dei manoscritti, ero il legno scuro degli scaffali e quello caldo e rosso delle pareti. Spiravo dalle volute verdi malachite provenienti dalla finestra e accarezzavo sotto forma di venticello leggero i capelli voluminosi di Yoann e la guancia di Padma. Scorrevo, come liquido, nella fontana a forma di arco da cui zampillava il mio presente, il quale si posava sul libro in corso di scrittura. Con mille mani o con nessuna toccavo, sfioravo, accarezzavo ogni cosa, in particolare gli ospiti presenti, e allo stesso tempo erano loro a toccare qualcosa di me; la flebile luce azzurra e quella castana dei loro occhi, che ne contornava i corpi, sembrava sfiorare cautamente qualcosa di tanto fragile da rischiare di essere danneggiato per sempre con un solo passo falso.

Fu solo in quel momento, in un certo senso, che capii veramente l'entità della grande concessione che quella volta Padma ci aveva regalato, per insegnarci a visualizzare i nostri Jutnos. Solo provando quell'esperienza di persona riuscivo a percepire quanto una qualunque, minima violazione, volontaria o no, mi avrebbe potuto fare male. Era sufficiente la loro sola presenza a darmi l'impressione di trovarmi sul filo di un rasoio.

Tuttavia, di Padma e Yoann mi fidavo. Stavo sbagliando? Mi stavo condannando da sola? Non lo avrei mai saputo se prima non avrei avuto il coraggio di tentare.

Forse ero pazza, per essere disposta a rischiare ogni cosa. O forse ero solo disperata.

"Non ve l'ho mai detto, ma in un certo senso la mia vita è iniziata quando sono diventata Ephura" esordii, facendo riverberare la mia voce proveniente dalla fontana verde, in ogni anfratto dello Jutnos, cercando tuttavia di essere più delicata possibile. Allungai una mano per afferrare un libro, che venne invece colto da una voluta inconsistente come vento, separatasi dalle sue simili per penetrare nello Jutnos.

Non sapevo come, ma avevo la consapevolezza intrinseca che si trattasse del libro giusto, o almeno di quello da cui partire, gli altri sarebbero venuti giù uno dopo l'altro in conseguenza, direttamente richiamati dalla mia memoria. Al suo interno sentivo gridare e cantare i ricordi più soffusi, vaghi, e intrinsechi di tutti, resi consistenti solo dalle emozioni che invece erano rimaste nitide al suo interno, protette.

Padma posò una mano sulla copertina e quel solo gesto fu equivalente, e allo stesso tempo mille volte più intenso, di quanto sarebbe stata una pacca rassicurante sulla spalla. «Liv, sei sicura di volerlo fare?»

Risposi aprendo il libro e iniziando a sfogliarlo davanti ai loro occhi fino a individuare la pagina giusta. Padma e Yoann provarono a leggere quelle che sembravano scritte, ma la cui interpretazione era impossibile dal momento che queste avevano iniziato subito a vorticare e ad avvolgersi su loro stesse fino a risucchiare al loro interno alcuni dei mens dei due Ephuri, insieme a una parte di me stessa, per poi catapultarci in un luogo reso luminoso dai caldi raggi solari di un sole estivo.

Di ciò che mi – anzi, ci – circondava, si vedeva poco tuttavia, perché lo sguardo era puntato sull'asfalto calpestato dai miei piccoli piedi che calzavano dei vecchi sandali di cui non si distinguevano bene i contorni dal momento che la mia memoria del loro aspetto aveva risentito del tempo che era passato.

Non sapevo dire né come mai ero stata lì, né se mi ci avessero portato i miei genitori o se invece mi trovassi semplicemente nel cortile dell'asilo, però sentivo, e i miei ospiti insieme a me, una profonda e soffocante inadeguatezza e confusione, mentre le grida e le risate di bambini sfocati che giocavano con enormi costruzioni colorate altrettanto sfocate riempivano ogni cosa. Cercavo di acchiappare le loro risate, renderle mie, però quelle scivolavano via come acqua, sembravano su un'altra lunghezza d'onda, vicine eppure irraggiungibili.

Ogni volta era la stessa cosa. Le pagine del libro si sfogliavano rapide, mentre scene sempre uguali si ripetevano l'una dopo l'altra: tutti vicini, eppure lontani. A volte mi parlavano, o meglio tentavano di parlarmi e io tentavo di parlare con loro, eppure ogni volta mi sommergeva una paura irrazionale cui non sapevo dare il nome, che mi bloccava e mi faceva chiudere in me stessa. La mia stessa voce, le poche volte in cui usciva, aveva un suono diverso, cosa di cui però mi ero resa conto diverse pagine dopo, quando agli ambienti infantili e colorati, chiusi e aperti, si erano sostituiti i primi banchi di scuola.

Dal momento che lì non mi era permesso il lusso di non parlare, ero stata costretta a estrapolare a forza quello che chi era intorno a me necessitava di sentire. Peccato che allora ancora non ne fossi consapevole, e, confusa, mi fossi fatta trascinare da qualcosa che aveva preso il posto del mio viso e che controllava ogni mia azione quando mi trovavo in compagnia di altri umani. Persino quando ero con i miei amati mamma e papà, il volto da loro desiderato prendeva il posto del mio e mi obbligava a comportarmi come a loro avrebbe fatto maggiore piacere, come era lecito dalla mia persona, o meglio dall'idea che di quella persona loro si erano fatti. Idea che era nata proprio perché io l'avevo, inconsapevolmente costruita su di me, in una sorta di istinto di sopravvivenza, nato dalla sensazione di trovarmi in un ambiente pericoloso, costantemente circondata da nemici.

Tutte queste consapevolezze erano cose che ovviamente negli anni si erano automaticamente formate quando mi capitava di considerare il mio passato e le mie azioni, e che adesso erano andate a farcire quei vecchi ricordi ammuffiti in fondo allo scaffale. Man mano che il tempo passava, infatti, la percezione che avevo del mio passato si modificava continuamente, adeguandosi al rispettivo contesto della mia vita. La memoria non era immutabile; variava a seconda di ciò con cui le mie esperienze nel tempo la arricchivano.

Allora sapevo solo che nonostante mi trovassi circondata dai miei simili, mi perseguitava la sensazione di essere l'estranea, l'irregolare e disturbante erbaccia che spezzava la splendida fila di rose che svettavano colorate e forti, oppure smunte e ammuffite, tutte diverse tra loro, eppure identiche al mio confronto. Avevo occhi, il mio corpo era ricoperto di pelle, e capelli mi crescevano sulla testa esattamente come a tutti gli altri, eppure in qualche modo qualcosa mi distingueva, sempre e comunque.

Solo che non sapevo cosa.

«Ciao», salutavo, con quella strana voce che mi usciva dalla bocca, delle bambine che vestivano esattamente come me, e che magari mi somigliavano anche. Forse quel ricordo era del primo giorno di scuola elementare, oppure del terzo, dell'ultimo, o di tutti mischiati insieme per via delle situazioni simili ripetute.

Tentavo di superare quel disagio che mi provocava la compagnia altrui, e ogni volta succedeva la stessa cosa. Le altre bambine, alcune sorridenti, altre no, mi restituivano lo sguardo, di loro vedevo i visi e percepivo le voci, che assumevano suoni indistinti, le parole incomprensibili o riformulate dalla mia memoria in qualcosa di altrettanto incomprensibile. E a un tratto mi rendevo conto che io non stavo capendo niente di quel che succedeva, di cosa dicevano e perché ridevano. Tutti capivano, e io invece no.

Cos'è che si fa quando non si sa fare qualcosa? Ci si guarda intorno e si imita. Si copia dagli altri e si inizia a interpretare una parte.

Così recitai. E recitai ancora, risi quando ridevano gli altri, finsi di comprendere quello che non capivo e tentai di tutto, ma ogni volta che in un luogo calava il silenzio e io ero costretta a espormi, oppure che mi trovavo a tu per tu con qualcuno, tutto si bloccava e io mi sentivo scoperta, come se mi avessero levato il velo con cui ero solita coprirmi, così venivo assalita dal panico.

A quel punto incominciarono a esserci le strane occhiate, i sussurri, le sensazioni di disagio degli altri provocate dalla mia sola presenza, le gelosie nei miei confronti, le antipatie. Le pareti delle aule che si facevano opprimenti, la luce del sole che si adombrava, le voci che rimbombavano convertendosi in versi terrificanti. Stavo trasformando quelli che non erano mai stati altro che nemici immaginari, in qualcosa di reale.

«Eh, Liv è sempre stata molto timida» ripeteva mia mamma allo sconosciuto amico con cui lei e papà stavano parlando, alcune pagine seguenti, scompigliandomi i capelli e ridendo, «ma con il tempo le passerà, deve solo crescere!»

E io confidavo in quelle parole, anche mentre mi rinchiudevo in camera mia e silenziosamente piangevo, temendo di svelare il mio vero stato d'animo a chiunque. In quelle lacrime riversavo tutto quel dolore che non sapevo come spiegarmi, e tutta la stanchezza. Perché era incredibilmente faticoso recitare, o meglio provare a farlo, dal momento che mi sembrava sempre più di non avere alcun controllo del mio stesso copione.

Ciò si rivelò essere ancor più evidente solo diverse pagine più tardi, o forse addirittura libri – non ne avevo idea da quanto si susseguivano rapidamente, come inseguendo i miei pensieri. Tuttavia, non mi importava se fossi anche arrivata a svuotare tutti i miei scaffali.

«Ciao, io sono Barbara! Tu sei Livia, vero? Lo sai che le nostre mamme sono grandi amiche?»

Così esordiva uno dei ricordi che iniziavano a essere gradualmente più nitidi. Il primo di una lunga serie di eventi che mi erano restati particolarmente impressi.

All'improvviso quella dolce ragazzina dai deliziosi capelli castani chiari e lisci e un sorriso smagliante si rivolgeva proprio a me, rendendomi l'epicentro del suo sguardo. Non cercava nessuna di tutte quelle altre ragazzine uguali a lei che riempivano l'aula della mia classe il primo giorno di prima media, ma solo ed esclusivamente me.

Scioccamente mi trovai a sorridere alla nuova opportunità che ero convinta la vita mi stesse offrendo. Prima di entrare lì dentro mi ero decisa a superare quella timidezza di cui mamma e papà parlavano sempre, convinta che dal momento che ero più grande e che mi ero lasciata alle spalle buona parte delle mie vecchie conoscenze, avrei potuto cominciare da capo e diventare finalmente come tutti gli altri.

I primi tempi si rivelò alquanto facile. In passato avevo, in un certo senso, assorbito i comportamenti e i modi di fare delle persone intorno a me, senza tuttavia riuscire mai ad applicarli perché le circostanze mi si erano rivolte contro, o forse per codardia. Mentre mi presentavo a mia volta a Barbara e iniziavamo a chiacchierare, sfruttai così i trucchetti che speravo mi avrebbero resa come tutti gli altri, e quindi simpatica ai suoi occhi. Sapevo perfettamente quando ridere e le cose da dire al momento opportuno, ed era un'incredibile soddisfazione vedere le sue reazioni alle mie parole e il suo sguardo che dipendeva da me, come fossi una sua simile.

Eppure, c'era ancora qualcosa che non andava: i momenti in cui eravamo sole noi due, venivo presa da una sorta di ansia da prestazione che mi impanicava, costringendomi a lunghi silenzi, o, al contrario, a inutili tentativi di riempirli. In particolare, tutte le volte che svolgevamo qualche attività a coppie, in cui sentivo gli altri parlare e ridacchiare a raffica; durante la discesa delle scale verso l'uscita; quando ci incontravamo in giro. I numerosi ricordi, diversi eppure uguali, scorrevano rapidi intorno a me, inafferrabili.

Il problema, avevo compreso in seguito, si era semplicemente creato perché le mie esperienze non mi avevano preparata ad alcun tipo di contatto ravvicinato. Più volte mi guardavo intorno alla disperata ricerca di comportamenti da copiare, ma sentivo che l'effetto in un certo senso si perdeva, oltre al fatto che si trasformava in vera e propria fatica, che toglieva tutto il piacere da quella parvenza di amicizia, rendendola quasi una sorta di dovere verso un'idea che mi ero fatta di me stessa. Il punto era che per creare un vero legame non era sufficiente recitare; ancora più grave era che non avevo idea di come fare altrimenti.

Ciò che ora rendeva cupi e tristi quei ricordi all'apparenza allegri, era la mia amara consapevolezza del fatto che a quei tempi ne ero del tutto inconsapevole, convinta di aver finalmente trovato un'amica e, soprattutto, una mia personalità, inseguita da tutta la vita.

Nonostante ciò, sentivo, e Padma e Yoann insieme a me, ognuna di quelle vane speranze che avevano reso tanto roseo quel periodo della mia vita, come le stessi provando per la prima volta: lo sguardo sorridente di Barbara che ricambiava il mio nella promessa di un'amicizia infinita; il modo in cui collaboravamo in tutto, diventando man mano sempre più affini e simili tra noi; io che l'aiutavo nello studio, spiegandole ciò che non capiva, e la soddisfazione che provavo nel vederla migliorare; la felicità delle nostre rispettive madri nel vedersi ripetere davanti ai loro occhi la storia di come era nato il profondo e vecchissimo legame che le univa.

Tutto spazzato al vento quel giorno di cui ricordavo perfettamente ogni particolare, dagli scarabocchi grotteschi o volgari che generazioni di studenti si erano prodigati a tracciare sulle pareti del bagno, all'intensa e calda luce primaverile che penetrava dalla piccola finestrella, che si sommavano al solito chiasso generale che si creava durante gli intervalli.

Il suono di passi che entravano nell'area servizi, accompagnati dalle voci di alcune mie compagne di classe, tra cui Barbara, si fece largo in quella pagina di libro che avrei tanto voluto strappare via per non doverla riguardare mai più.

«Oh, ma voi non immaginate che strazio è doverla sopportare ogni santo giorno!» fu la frase che per prima attirò la mia attenzione, impedendomi di tirare lo sciacquone.

«È rassicurante Ba', certe volte ho quasi pensato che fossi sincera con lei e mi chiedevo proprio che diamine ci trovassi!»

«Ma ti pare? E come potrei essere amica di un'imbecille che non fa altro che imitarmi e starmi addosso convinta di essere alla mia altezza? Per non parlare del modo inquietante con cui mi fissa alle volte, o della sua voce strana e bassa!»

Nuovamente il mondo mi crollò addosso, esattamente come la prima volta che avevo sentito quelle parole, mentre l'iniziale incredulità mi bloccava il respiro e ogni movimento.

«E allora perché la assecondi Ba'?»

«Semplice, perché mi fa comodo: piace ai miei, mi aiuta con i voti, e poi il fatto che tutti i professori la adorano mette in luce anche me, facendomi apparire quasi ai suoi livelli ai loro occhi! È più conveniente dei Saldi dell'OVS!»

Mentre le altre ragazze ridevano, esilarate dalla battuta, al dolore del tradimento si sostituì la rabbia che si impadronì di me spingendomi a tirare lo sciacquone e aprire la porta con foga, per fiondarmi su una Barbara alquanto stupita. Di nuovo, sentii la frustrazione nell'incapacità di mostrare i miei reali sentimenti, che mi aveva portata a scoppiare in lacrime. Ricordai nitidamente il desiderio che provavo di gridarle contro ogni tipo di impropero esistente, o anche solo di disintegrarla con lo sguardo per trasmetterle il mio odio. Ogni mio tentativo, tuttavia, così come allora, si era rivelato inutile di fronte al terrore che ogni tipo di confronto aveva sempre sollevato in me.

Forse una minuscola parte del mio essere sperava ancora che tutto si sarebbe rivelato un enorme malinteso, come spesso succedeva nei film o nei libri, ma quegli occhi freddi e apatici che avevano pure il coraggio di restituire il mio sguardo, avevano smontato ogni illusione.

«Oh, Cristo, adesso non metterti pure a piangere! Senti, sei tu la scema a non essertene accorta, adesso non provare a farmi passare per la cattiva! Non mi fai pena.»

Il resto dei ricordi si fecero nuovamente confusi, sfumando dalle occhiate divertite delle sue amiche, a me che, di fronte ai miei genitori che chiedevano spiegazioni sul mio stato d'animo rispondevo che ero triste per i bambini in Africa che morivano di fame di cui ci avevano parlato quel giorno. Si succedette poi la consapevolezza che finalmente dopo quella secchiata d'acqua in testa avevo raggiunto: compresi di essere diventata schiava del mondo che mi circondava e del desiderio di farne parte, tanto da diventare qualcosa che non ero e che nemmeno mi piaceva, e infine la decisione di rinchiudermi definitivamente dentro di me e ai miei libri, accettando la non-vita a cui ero condannata.

Passarono i libri, e con loro gli anni, ed ecco che compariva Yoann, all'improvviso, e che qualcosa in me cambiava, mi risollevava dal turbine nebbioso nel quale vagavo, e mi restituiva una vita che era sempre stata a portata di mano, eppure irraggiungibile.

«...Vuoi continuare a vivere una vita incompleta e sofferente, circondata da qualcuno che non potrà mai capirti sul serio, oppure vuoi scoprire la verità su te stessa e chi sei veramente?» la proposta di Yaonn, quel fatidico giorno davanti a scuola la mattina in cui avevo conosciuto Padma – la stessa di quando avevo saltato le lezioni e li avevo seguiti per la prima volta all'Ephia –, aveva definitivamente cambiato tutto.

Lo shock iniziale nell'assistere alla crudezza della morte e alla spietatezza degli Arkonanti equivaleva alle prime grida di vita della neonata appena fuoriuscita dal ventre dell'oscurità; la scoperta degli Ephuri e di ciò che rappresentavano erano i suoi iniziali respiri affannati e incerti; l'acquisizione dei diversi cebrim e lo splendore dei mens, non rappresentavano altro che i primi colori che i suoi occhietti curiosi osservavano con innocente curiosità.

Ma tutto ciò era nulla, al confronto delle bellissime emozioni che mi provocava ogni giorno la presenza di altre persone con cui condividere la mia nuova vita, o con cui condividere semplicemente qualunque cosa. Mostrai loro quanto per me contasse ogni singolo momento da quando ci eravamo conosciuti, quanto sollievo provavo nell'avere ogni giorno la possibilità di smettere di recitare una parte, e di quanta spontaneità guidava ogni mio movimento, azione o parola quando mi trovavo in loro presenza.

Mostrai come mi avevano permesso di trovare me stessa.

Infine, svoltai l'ultima pagina di uno dei libri più recenti, risalente a poche ore prima, per fargli comprendere quanto quella situazione contasse per me e tutto il terrore che avevo provato alla sola idea di perderli.

Il libro si chiuse di scatto di fronte ai visi stravolti di Yoann e Padma. Dopodiché, nuovamente onnisciente sotto forma di Jutnos, con un soffio leggero, sospinsi delicatamente i due ospiti fuori dalla porta che si richiuse subito dopo.

Ma che in realtà, per loro, non sarebbe mai stata del tutto chiusa.

«Livvina... io non ho parole» disse Yoann, di nuovo in carne e ossa davanti a me, nella flebile luce della luna, vicino a Padma. La strada del lungomare percorreva la spiaggia dietro di loro, e il ritmico suono del mare che ondeggiava sulla sabbia aveva un effetto rasserenante, segno che almeno parte della tensione prima presente si era attutita.

«Non c'è bisogno di alcuna parola infatti» dissi stringendogli forte la mano. Vidi i suoi occhi farsi lucidi e sorrise intenerito.

Mi sentivo immensamente libera, o meglio leggera, come sollevata dal peso di dover custodire tutto ciò che avevo sempre provato, temendo di non essere capita. Ma loro capivano, mi era sufficiente leggerne gli sguardi per esserne sicura.

«Perciò vi prego, se per voi questa amicizia conta almeno quanto conta per me... cercate di chiarirvi»

Passarono alcuni interminabili minuti di silenzio, in cui spostai lentamente lo sguardo da Yoann a Padma e viceversa. Entrambi immersi nei propri pensieri, immobili, lo sguardo basso.

Fu Padma la prima a spezzarlo.

Con un sospiro si accomodò nella sabbia assumendo la posizione del loto, e ispirò noi a fare altrettanto, però con semplici gambe incrociate.

«Va bene» disse, «vi racconterò perché odio tanto gli Ophliri».


Lo so, magari vi aspettavate spiegazioni o rivelazioni particolari e invece vi siete dovuti subire una Liv depressa che si lamenta per tutto il capitolo di un'infanzia che, ve lo posso garantire, non è niente di che a confronto di quello che invece hanno passato Padma e Yoann (😈), e inoltre non è stato rivelato nulla che ancora non sapevate, se non un piccolo approfondimento sul perché Liv nei primi capitoli dice di essersi sempre sentita diversa prima di entrare a far parte degli Ephuri, tanto che inizialmente avevo una mezza idea di mettere questa spiegazione all'inizio della storia (magari dopo la morte di Barbara o giù di lì, per permettere ai lettori di empatizzare meglio con la protagonista e capire il suo entusiasmo per la sua cosiddetta "nuova vita"), ma poi ho pensato che ci sarebbe stato meglio qui perché distoglieva troppo l'attenzione dalla trama principale e mi piaceva l'idea che tutti e tre si confidassero insieme con gli altri due.

Come avrete intuito dal finale, infatti, nel prossimo capitolo verrà finalmente rivelata tutta la verità sulla storia di Padma (va bene, non tutta tutta perché alcune informazioni sono stata costretta a nasconderle 🙄).

Il capitolo, tra l'altro, mi è venuto di una lunghezza superiore alla media (supera le 7000 parole 😅), ma vi avverto in anticipo così sapete come organizzarvi per leggerlo in una volta sola (è consigliabile, ma fate pure come vi trovate meglio ovviamente ❤️).

E comunque spero che questo capitolo e i prossimi due vi piacciano perché sono molto importanti (oltre che i miei preferiti) dato che vi daranno modo di conoscere veramente Liv, Yoyo e Pad. (Anche se la trama si blocca per ben 5 capitoli, ma dettagli 😅)

꧁ꟻAᴎTAꙅilɘᴎA꧂

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