6.Confessione

«Mamma, papà, devo dirvi una cosa.»

Così esordii, frantumando il silenzio che ci aveva accompagnati durante tutto il tragitto dal funerale a casa.

Eravamo appena entrati, i miei genitori indossavano ancora sobri abiti di lutto. I capelli biondi di mamma raccolti in un'intrecciata capigliatura, che le valorizzava il portamento elegante, e la chioma scura di papà fin troppo ordinata rispetto al solito codino scompigliato. Tutti chiari segni che, nonostante fossimo a casa e non più al cimitero, non si trattava di un giorno come tutti gli altri.

Il mio tono serio e lievemente tremante attirò più del previsto la loro attenzione: ora le direzioni dei loro sguardi erano entrambe dirette su di me, e questo mi spaventò tanto da farmi quasi fare marcia indietro; tuttavia, resistetti all'impulso di scappare come facevo sempre.

Era finito il tempo delle bugie. Non potevo più tenermi tutto dentro, dopo quel che era accaduto. Ormai era inutile mentirsi. Loro forse erano le uniche due persone che avrebbero potuto capire, le uniche a cui tenevo più di ogni altra cosa al mondo.

Quel passo in avanti andava fatto.

Tutto nel salotto d'ingresso pareva fissarmi, giudicandomi, muto: la mela posata sul tavolo da pranzo, lievemente ammaccata e inclinata di lato, instabile, incerta; le mattonelle bianche del pavimento, su cui si rifletteva lieve la luce che filtrava dalle tende azzurrine delle finestre socchiuse, facendo assumere all'ambiente uno stato di penombra, inquieto; i cuscini adagiati scomposti sul divano poco distante, oltre il mobile della cucina, stropicciati, schiacciati, abbattuti. E persino le foto incorniciate appese alle pareti, da cui si intravedevano i nostri visi sorridenti, eppure inspiegabilmente melanconici, o meglio, stanchi.

Stanchi di mentire.

I miei genitori sedettero davanti a me, pronti a sentire ciò che avevo da dire. I loro sguardi erano affettuosi e disposti ad ascoltare, consapevoli del fatto che si trattava di qualcosa di importante. Il loro amore spinse il tempo a riprendere a scorrere come prima. Mi sentii finalmente pronta.

Basta bugie.

Cominciai a parlare quasi senza accorgermene, priva di inibizioni, riversando fuori di me le parole che per troppo tempo mi ero tenuta dentro.

Avevano di me l'immagine di una ragazza normale, comune a centinaia di altre. Ma io non mi ero mai sentita tale, anche prima di quelle stranezze. Era giusto che sapessero tutto, fin dall'inizio.

E dall'inizio cominciai. Parlai loro della mia infanzia e del mio sentimento di estraniazione e incomprensione del mondo. Parlai dell'effimera amicizia che credevo di aver instaurato con Barbara, per poi passare al dolore e alla delusione provati nel rendermi conto delle illusioni nelle quali mi ero ingabbiata. Raccontai poi della solitudine di cui ero e continuavo a sentirmi vittima, mettendo a nudo insicurezze e paure, tra cui quella di temere di deluderli con la mia vera natura.

Già, la mia natura. Una natura che nemmeno io riuscivo a comprendere. Chi ero? O meglio, cos'ero? Perché trovarmi a contatto con quelli che in teoria avrebbero dovuto essere i miei simili, era in realtà un supplizio continuo, tale da mantenermi in uno stato di tensione e insicurezza continue nei confronti di tutto ciò che mi circondava?

Dare alla mia voce la forza di pronunciare anche solo una parola era facile quanto scalare una montagna; esprimere un'emozione, o esternare ciò che realmente provavo dentro di me appariva ancora più complesso. Ero sempre un muro, costituito da mattoni di inadeguatezza che andavano ad aggiungersi ai precedenti ogni qualvolta mi trovavo in compagnia di altre persone, come se non fossi affatto una di loro. Le loro risate mi parevano incomprensibili, così come i loro sguardi e i loro movimenti, su cui ogni volta quindi indagavo, analizzando ogni particolare come se lo vedessi per la prima volta e ancora non me ne capacitassi; le loro stesse parole, pur essendo in apparenza nella mia lingua, sembravano un linguaggio alieno, che non sarei mai riuscita a comprendere pienamente perché troppo finto, lontano, superfluo.

Parlai loro della sensazione costante di mancanza, nella mia vita, di qualcosa di fondamentale, un piccolo tassello, un particolare magari anche minuscolo, che però mi bloccava e limitava in ogni modo possibile, impedendomi così di smascherarmi. Come se tutta la mia esistenza fosse in realtà una continua e assidua attesa di un risvolto, una rivelazione, qualcosa che finalmente mostrasse la verità sul mio conto.

Non sentivo la necessità di chissà quali grandi cose, a dir la verità, ma solo di trovare qualcuno come me, che mi dicesse che non ero sola al mondo. Qualcuno con cui poter finalmente essere me stessa, qualunque cosa ciò significasse, e che mi facesse sentire normale.

Qualcuno che però non avevo mai trovato, e che probabilmente non esisteva.

Le parole fluirono come un fiume, a tratti impetuoso e concitato, a tratti come un ruscello di montagna appena venuto al mondo e ancora incerto sulla direzione da prendere. Dissi tutto quello che c'era da dire ma, allo stesso tempo, non riuscii a esprimere interamente ciò che provavo. Perché, ancora una volta, le parole rappresentavano un ostacolo al linguaggio della mia anima.

Persino con le due persone che più amavo al mondo, quella barriera permaneva e non si scalfiva.

Eppure, percuoterla quel poco che riuscii a concedermi fu già sufficiente a farmi sentire libera da un peso che avevo sopportato troppo a lungo.

Probabilmente era proprio da quei miei strani pensieri che erano scaturiti i dubbi sulle mie possibili azioni inconsapevoli, tra cui la morte di Barbara. Magari ero solo in cerca di una spiegazione sensata alla mia diversità. In fin dei conti, non posso sapere se sia vero o solo una mia suggestione. È meglio evitare di parlargliene.

«È tutto» conclusi, la voce leggermente incrinata per la moltitudine di emozioni. «Scusate che vi ho mentito per tutto questo tempo.»

E sto continuando a farlo.

Un nuovo silenzio, questa volta non teso, ma quieto come un sospiro di sollievo troppo a lungo trattenuto, tornò a colmare l'appartamento, portandomi a sollevare finalmente lo sguardo che durante il monologo era rimasto puntato sul tavolo.

Quando i miei occhi si rifletterono in quelli azzurri cristallini di mamma, lucidi dalla commozione, e in quelli neri di papà, socchiusi per la tristezza, mi spezzai definitivamente anch'io, cedendo all'abbraccio da cui fui doppiamente avvolta l'attimo subito seguente.

«Non c'è niente di cui scusarsi, chiaro?» mi rassicurò mamma con tono quasi di rimprovero, cedendo al pianto fino a quel momento trattenuto.

Stretta a loro, con il cuore che era sul punto di esplodere per la gioia, la dolcezza e l'amore, mi chiesi per quale motivo avessi aspettato tanto a parlare. Erano i miei genitori, avevano tutto il diritto di sapere come mi ero sempre sentita in realtà.

I pensieri più intimi e pericolosi, tuttavia, era meglio tenerli per me. Sentivo che c'era qualcosa in gioco di ben più grande di tutti noi.

...O forse sono semplicemente affetta da seri disturbi mentali.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top