4.Strani sensi di colpa
Mi svegliai di soprassalto, la gola bruciante per un grido silenzioso. Mi sembrava quasi di udire il mio tormento squillarmi nelle orecchie come un trapano. Levai gli occhiali, la cui montatura storta dalle pose assunte durante la notte mi distorceva la vista. Stropicciai gli occhi nel tentativo di riprendermi, anche se quel chiasso non cessava.
Che sta succedendo? Questo frastuono è così fastidioso da ricordare quasi il suono di una... Oh, ecco cos'è! La sveglia!
Allungai un braccio e misi fine a quel tormento con un colpo secco, poi sospirai di sollievo per l'amato silenzio finalmente recuperato. Per qualche motivo mi venne da ridere, risata che mi morì in gola non appena notai i timidi raggi mattutini infiltrarsi tra le tende per illuminare il pc, abbandonato sulla scrivania, con il progetto di Barbara incompleto.
La memoria tornò in me, schiaffeggiandomi il viso e cacciando un'imprecazione fuori dalle mie labbra.
Mi misi le mani nei capelli. Perché non ho reimpostato la sveglia? Posso essere stata davvero così tanto stupida?!
Restai immobile per qualche attimo, rendendomi all'improvviso conto che non mi sentivo preoccupata come avrei dovuto. Ero impazzita per cercare di terminare tutto in tempo, terrorizzata all'idea di cosa sarebbe potuto succedere... e avevo fallito miseramente. Eppure... una parte di me, la stessa che aveva trovato una soluzione, si sentiva in un certo senso soddisfatta e rassicurata.
Un terribile presentimento sopraggiunse. Non era la prima volta che mi succedeva una cosa del genere.
Mi alzai di scatto dal letto, tuttavia per la fretta inciampai nelle pantofole e finii a terra. Mugugnai per il dolore alle ginocchia e raggiunsi impacciata il bagno, per poi appoggiarmi con le mani sul lavandino e restituire lo sguardo dalle iridi verdi sfumate in forme che ricordavano molto quelle della pietra di malachite, di due occhi cerchiati da pesanti e opprimenti borse scure.
La ragazza dai capelli neri, ricci e scompigliati, che si rifletteva nello specchio, distorse il viso in un'espressione sconvolta, riconoscendo i segni del sonno disturbato di cui ero stata vittima quella notte.
Un gusto amaro mi riempì il palato, mentre cercavo di ricordare cosa avessi sognato. Di certo non si trattava della solita dolce musica di violino. Quest'ultima, infatti, in quell'occasione sembrava aver preferito lasciare il posto a qualcosa di ben più terrificante, qualcosa che non ne voleva proprio sapere di palesarsi nella mia memoria.
Ricordavo solo di aver provato delle sensazioni: odio, rabbia, soddisfazione e... le mie labbra screpolate che si schiudevano appena per sussurrare un nome nell'oscurità: Barbara Rossi.
No, mi dissi, troverò Barbara a scuola, in attesa del progetto che non sono riuscita a portare a termine. Sicuramente sta bene.
Mi lavai la faccia e presi a prepararmi. Per quanto tentassi di reprimerlo in fondo alla mia anima, tuttavia, un opprimente e inspiegabile senso di colpa non sembrava volermi abbandonare.
Il mio piede destro ticchettava nervosamente sulla gamba della sedia, lo sguardo fisso sul banco vuoto di Barbara. La lezione era cominciata già da dieci minuti e lei, che non faceva mai ritardi, non si era ancora fatta viva. Né lì, né fuori dalla scuola.
Di sicuro non sarà niente di cui preoccuparsi, tra poco quella porta si aprirà e Barbara verrà a deliziarci con la sua piacevolissima presenza, è tutto nella norma...
Come in risposta alle mie silenziose preghiere, la porta si aprì davvero, tuttavia a entrare non fu Barbara, bensì il ragazzo nuovo, quel Yoann. Raggiante nella sua t-shirt da cui ammiccava un Elvis Presley stilizzato, presentò al professore di matematica la giustifica per il ritardo, comunicando a gesti.
Il suo sguardo sembrava davvero spaesato quando l'insegnante tentò di rassicurarlo di non preoccuparsi. Cominciai a credere che davvero non conoscesse la lingua. Quell'assurdo dilemma fu l'unica distrazione che quel mattino riuscì a distogliermi per poco dalla mia inquietudine.
Non appena si fu seduto nel posto di fianco al mio, mi rivolse un ampio sorriso radioso: «Comment vas-tu?»
«Bene, cioè, bien», risposi sbrigativa, con un appena accennato sorriso di circostanza, il mio sguardo già tornato a fissare il banco vuoto davanti a me.
Il ragazzo però non demorse e continuò a fissarmi.
«Et les lunettes?» chiese poco dopo.
Sospirai. Proprio io dovevo beccarmi un francese chiacchierone come vicino di banco? Mi spremetti le meningi nel tentativo di ricordare quel poco che avevo studiato alle medie di francese, però solo quando si indicò gli occhi riuscii finalmente a capire.
«Ah, gli occhiali! No, oggi ho le len-ti a con-tat-to» scandii lentamente per farmi comprendere. Yoann inizialmente aggrottò le sopracciglia, poi sorrise e annuì, forse notando l'appena percettibile linea trasparente che circondava le mie iridi.
«Ah, oui, lenti à contatò, non ochialì!» L'italiano con cui parlò era distorto da un marcatissimo accento francese, completamente diverso da quello che gli avevo sentito parlare con Wala. Mi sono proprio immaginata tutto, allora.
Sospirai. In fondo desiderava solo imparare la lingua. Ripetei la sua frase, nel tentativo di fargli apprendere la pronuncia corretta. Lui fece diversi tentativi, tutti inconcludenti, anche se si vedeva che c'era reale impegno dietro. Prima o poi ci sarebbe riuscito, ne ero certa; l'italiano non era così difficile in fin dei conti.
Mi ero ormai arresa all'idea di aver sentito male il giorno precedente, quando il ragazzo rinunciò, concludendo: «Accidenti, certo che è proprio difficile l'italiano! Grazie lo stesso, il tuo aiuto è stato prezioso».
Battei più volte le palpebre. Fissai basita Yoann che tornava a volgere la sua attenzione alla lezione in corso. Disinvolto, come niente fosse. Dopo aver parlato con un italiano esemplare.
Un brivido mi corse lungo la schiena, e non seppi più cosa pensare. Mi stava prendendo in giro? Oppure aveva qualche problema mentale? O magari... che cosa? Dopotutto che si poteva pensare di qualcuno che diceva in italiano di non riuscire a imparare l'italiano?
Tutta quella storia era un'assurdità, resa ancora più inspiegabile dal fatto che sembravo essere l'unica ad accorgermi di quella sua stravaganza, anche se ciò poteva essere causato semplicemente dalla sua riservatezza.
Le mie ipotesi a riguardo per il momento erano tre: stava solo prendendo in giro tutti per un motivo a me oscuro, ma ne dubitavo sempre di più perché in tal caso sarebbe stato un attore anche troppo bravo; era affetto da un qualche tipo di disturbo mentale ancora sconosciuto che gli impediva di distinguere una lingua dall'altra; oppure, Yoann era un normalissimo ragazzo straniero ed ero io, uscita di senno in definitiva, a essermi immaginata ogni cosa. Quest'ultima teoria era quella che temevo di più, anche se riconoscevo che era del tutto verosimile. C'era infine un ultimo vago sospetto, che però continuavo ad arginare quasi inconsciamente...
Le congetture e gli astrusi ragionamenti sul mio nuovo compagno di classe, però, per quanto fossero riusciti a distogliermi per breve tempo dal mio malessere, furono presto schiacciati dal peso che gravava sempre più nel mio petto ogni attimo in cui l'assenza di Barbara si concretizzava davanti ai miei occhi, nelle due ore seguenti.
Lo squillo della campanella che segnava l'inizio dell'intervallo mi fece scattare in piedi. Solitamente non uscivo dall'aula, preferendo la quiete della solitudine al chiassoso corridoio, ma l'urgenza di appianare quei dubbi era tale da indurmi addirittura a contrastare i miei stessi princìpi.
«Posso parlarvi?»
Martina e Rosa mi guardarono dall'alto in basso con espressioni sbalordite e denigranti.
«Tu? Tu che vuoi parlare con noi?» esplose poi Martina con una risata sguaiata, subito seguita da quella orribile da gabbiano dell'amica.
Roteai gli occhi, poi mi scansai di un passo per far passare un ragazzo che correva da una parte all'altra del corridoio. Quel luogo era un vero inferno, detestavo quel soffitto troppo alto, quelle pareti troppo grigie e soprattutto il continuo baccano che predominava su ogni altra cosa durante i momenti di pausa. Quel giorno, in particolare, sembravano tutti ancora più rumorosi del solito.
Chiusi per un attimo gli occhi e presi un respiro profondo per cercare di riportare la mia concentrazione su ciò che dovevo chiedere. Avevo sempre avuto un'enorme difficoltà a esprimere a parole qualunque cosa avessi in mente di dire; con l'aggiunta del caos circostante, però, rischiavo davvero di andare in tilt. La mia testa aveva l'impressione di essere rinchiusa dentro una scatola di vetro opaco che veniva agitata, sballottandomi su me stessa.
«Avete... notizie di Barbara?» emisi con un filo di voce. Le ragazze sembrarono non capire, così chiesi loro quand'era stata l'ultima volta che l'avevano incontrata.
Deglutii quando confermarono i miei sospetti: non la vedevano dal giorno precedente e quella mattina non aveva risposto ai loro sms. Rosa decise allora di chiamarla al telefono; non era raggiungibile. «Che strano... lei risponde sempre...»
Non questa volta. Il senso di colpa sempre più greve e meno insensato si condensò con il caos circostante, stordendomi al punto che percepii una purtroppo familiare nausea alla testa. Mi facevano sempre quell'effetto i luoghi affollati, per cui in genere cercavo di evitarli.
Stavo ancora tentando di metabolizzare la notizia appena appresa, quando intorno a me esplose il caos: la campanella squillò poco sopra la mia testa, un gruppo di ragazzi non molto lontani scoppiarono improvvisamente a ridere tutti insieme, e mi sentii urtare la spalla da qualcuno che correva verso la nostra aula.
Tutto si affastellò e la vista si fece sfocata, poi tornò nitida e si appannò di nuovo. Per qualche strano motivo, ogni cosa vorticava e mi chiesi se invece non fossi proprio io a girare su me stessa. E anche il pavimento, perché si avvicinava sempre di più?
Neanche mi accorsi di cadere. Di aver ceduto al richiamo suadente della forza di gravità, arresa all'inevitabile. La superficie rigida del pavimento, che graffiava come terreno asfaltato, mi percorreva per intero; era una culla arida in cui convergere il mio sconforto e il disperato bisogno di aggrapparmi a qualcosa, per trovare un motivo per non piangere. Il frastuono circostante si affievolì... e venne sovrastato dal nitido e ritmico ticchettio della pioggia su asfalto.
Le gocce d'acqua mi bagnavano la fronte, le guance, le orecchie, mi penetravano nel naso e nella bocca affamata di vita. Era troppa, e continuava ad aumentare e aumentare; annegavo. Stille di pura agonia, lacrime rovesciate addosso a me da un cielo furioso e spietato.
Un terrificante fischio avvertì l'arrivo di qualcosa di enorme che sfrecciava a una velocità inaudita fin troppo vicino a me, riverberando di sinistri rumori metallici. Quel suono mi penetrò nelle ossa e rese ancora meno sopportabile la presenza di tutta quell'acqua.
Panico. Senso di smarrimento. Solitudine. Abbandono.
Mi germogliò nel cuore la consapevolezza che la vita era fatta così e che non esistesse altro.
L'inaspettato calore di due braccia mi smentì. Mi avvolsero.
Riparo. Salvezza. Rifugio. Al sicuro.
Mentre venivo portata via, tutto si dissolse.
Infine sprofondai, precipitata nell'oblio nero della mia memoria.
«Ferri, mi sente? Mi sente?»
«Sta riaprendo gli occhi!»
«Liv, stai bene, vero? È tutto a posto?»
Diverse voci si fecero spazio nel nulla prima silenzioso, subito seguite da colori sfocati che poi si concretizzarono nei volti preoccupati di alcuni miei compagni e della mia professoressa di italiano.
«Fate spazio, lasciatela respirare!» trillò quest'ultima, allontanando con un gesto della mano alcuni dei più vicini. Sentivo un lieve dolore pulsante dietro la testa, come se avessi sbattuto da qualche parte.
«Che... che è successo?» chiesi, mettendomi seduta. Quel semplice movimento rimescolò qualcosa nella mia testa, spaesandomi. Battei un paio di volte le ciglia, accorgendomi della folla che si era radunata intorno a me. Non solo miei compagni, ma anche persone che conoscevo appena. All'improvviso mi sentii osservata da decine di occhi giudicanti e troppo attenti, che bisbigliavano tra loro, sussurravano frasi incomprensibili e mi facevano sentire esposta, fragile. Detesto trovarmi al centro dell'attenzione.
L'insegnante mi carezzò come avrebbe fatto con un tenero cucciolo di cane abbandonato: «Sei svenuta cara, per quasi un intero minuto!»
Oh no... ci risiamo. Avvampai per la figura imbarazzante; non doveva essere stato un bello spettacolo. Purtroppo, non era la prima volta che mi succedeva di perdere i sensi in situazioni simili, senza alcun motivo apparente; avevo fatto diverse visite ed era stato appurato da più dottori che non si trattava né di pressione bassa, né di alcun tipo di problema di salute. L'unica costante in tutti i casi era stata quella di trovarmi in luoghi affollati, rumorosi, o accecanti, che quindi preferivo evitare a prescindere.
Quello che invece non ero mai riuscita a spiegarmi erano le altre sensazioni che provavo ogni volta durante gli ultimi attimi di coscienza, sempre le stesse: prima la pioggia, poi il fischio di un treno, e infine la sensazione di calore, pace e sicurezza. Non avevo idea di cosa significassero e perché si ripresentassero tanto spesso, sennonché sospettavo si trattasse di qualche ricordo perduto della mia infanzia. I miei genitori mi avevano rassicurata più volte del fatto che da piccola non mi ero mai trovata vicino a un treno, tantomeno da sola sotto la pioggia, eppure dentro di me ero sicura che qualcosa era accaduto. O almeno così mi piaceva pensare per darmi delle spiegazioni...
Che tutto ciò fosse reale o meno, non appena le prime gocce d'acqua mi precipitavano addosso dal cielo, tutti quei ricordi terrificanti riemergevano, ingabbiandomi in una bolla di paura; sensazioni simili anche tutte le volte che avevo a che fare con i treni.
Con il tempo quella paura irrazionale si era un po' affievolita, o meglio avevo imparato a controllarla – grazie al cielo – tanto che ormai riuscivo tranquillamente a camminare sotto la pioggia con l'ombrello senza strillare come una svitata a ogni millimetro di acqua che osava bagnarmi, e qualche volta avevo persino viaggiato in treno senza problemi; tuttavia, una sensazione di malessere e inquietudine accompagnava sempre questi momenti, ricordandomi che la paura era superata, ma non del tutto.
Non c'era modo di cancellare le tracce di quello che sospettavo essere un trauma mai superato.
La giornata passò rapida e leggera, il senso di colpa che mi portavo dietro fin dal mattino continuava però a seguirmi sotto forma di ombra che diventava sempre più pesante. Neanche l'otto che la Fimberti assegnò al mio progetto nonostante la mancanza della parte su AutoCAD fu in grado di rallegrare il mio umore uggioso.
Si era ormai albergata in me la consapevolezza che fosse accaduto qualcosa di terribile, e che a causarlo ero stata io. Tutto questo era inspiegabile e privo di ogni minimo senso logico, eppure ero certa che fosse così.
Ulteriore conferma dei miei sospetti fu quando, tornata a casa, ad accogliermi fu lo sguardo sconvolto di mia madre, la mano destra portata all'orecchio per parlare al telefono con qualcuno che dopo poco scoprii essere Laura, la mamma di Barbara. Le due erano state amiche di infanzia e avevano mantenuto i rapporti anche dopo, dunque ogni tanto si sentivano ancora in occasioni speciali, come compleanni o feste; quel giorno non ricorreva nessuno di questi eventi, e i suoi occhi spaventati non lasciavano intuire nulla di buono.
È successo qualcosa. Quella frase si ripeteva di continuo nei pensieri, martellandomi quella consapevolezza nel cervello. È accaduto qualcosa di terribile.
Era inutile mentirsi, ingannarsi, cercare altre soluzioni dove non ve n'erano.
«...va bene, chiamami quando la trovi. Vedrai che andrà tutto bene. A dopo.» Mia madre chiuse la chiamata, l'espressione grave a adombrarle il viso.
«Che succede?» non potei fare a meno di chiedere, bloccata sulla porta con ancora lo zaino a pesarmi sulle spalle. Sentivo che ogni passo che muovevo era un passo in più verso la verità. Verità che non ero più certa di voler conoscere.
Mamma mi raccontò cosa si era detta con l'amica, confermando ancora una volta quella realtà. Non c'erano tracce di Barbara da quella mattina, quando era uscita per andare a scuola. Non aveva risposto ad alcuna chiamata, né di Laura né dei suoi amici. Inutile dire quanto fosse preoccupata.
Eppure, fu ciò che accadde poco dopo, la vera brutta notizia. Avevamo già pranzato, quando papà richiamò la nostra attenzione sul televisore; stava venendo annunciato il ritrovamento del corpo di una ragazza uccisa, proprio nei nostri dintorni.
Il cuore accelerò il battito scuotendomi il petto, eserciti di gocce di sudore disertarono sparpagliandosi sulla fronte, il respiro si fece corto e ansante come dopo una corsa.
La giornalista che stava riferendo la notizia descrisse la vittima.
Mi bloccai. Tutto sembrò fermarsi insieme a me, mentre venivo pietrificata dalla realtà che sembrava aver concretizzato tutto ciò che avevo tentato di ignorare fin da quel mattino. Dunque, era accaduto. Di nuovo. Non avrei creduto che quella mia inspiegabile fortuna si sarebbe spinta tanto oltre. Che la cosiddetta soluzione si sarebbe verificata davvero.
Non era questo che volevo, non lo avevo mai desiderato.
La giornalista rivelò il nome della ragazza. Il terreno sotto i miei piedi parve infrangersi.
Sprofondai. Che cosa ho fatto?
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top