32.Oltre l'apparenza
Troppo, ma non abbastanza al tempo stesso.
Ero sempre nello stesso posto, a sinistra dell'immensa vetrata che dava sulla pista e a destra della folla in attesa di partire.
Eppure, nei miei occhi bruciava un viscerale grido di meraviglia, come se le mie palpebre si fossero schiuse per la prima volta solo in quel momento.
Ero una neonata che osservava il mondo dopo aver preso il primo sofferto respiro di vita.
Il flusso scorreva ovunque: oggetti inanimati, persone, me stessa, l'aria; permeava ogni minuscola particella, scomposto in migliaia di porzioni più piccole, e si divaricava in decine di migliaia di flussi minori. Gli esseri viventi, proprio come avevo visto focalizzandomi su Luna, non erano più solo corpi ma vere sorgenti di luce intensa, nugoli intrecciati ai flussi.
Anche gli umani erano luci, in quel momento.
Il mio stesso velo nero si era dissolto.
Motivo per cui, ogni cosa la percepivo più intensamente, non solo con gli occhi, ma in ogni sua componente prima invisibile. Tutti i meccanismi naturali erano all'improvviso chiari e definiti, le leggi implicite interpretate dalla scienza si dispiegavano come una magia – il percorso delle particelle di ossigeno che venivano ispirate dal mio corpo, il sangue che mi scorreva nelle vene, gli stessi neuroni che trasportavano le informazioni al mio cervello – e anche ciò di cui la scienza non parlava. I pensieri stessi, che uscivano dalla mia luce verde malachite, così come da quelle degli altri presenti, erano tinti dei colori delle rispettive iridi. Avvolgevano la realtà insieme a tutte le altre particelle, condizionandola, viaggiando dall'una all'altra forse trasmettendo empatia, o pensieri comuni che non si sapeva di avere. C'erano anche tanti di quei flussi che avevano dei significati sconosciuti che non riuscivo a interpretare e...
Gli occhi presero a bruciare con maggiore fervore, le lenti a contatto aride d'acqua. Non devo chiuderli.
Non appena avessi abbassato le palpebre tutto sarebbe scomparso e la vista sarebbe tornata cieca come prima, me lo sentivo. Non potevo permettere che accadesse, prima dovevo scoprire di più, vedere di più...
Mi voltai verso la pista, le cui luci variopinte mi investirono. Con intensità frenetica, potente, quasi spaventosa, spirali di flussi si avvolgevano attorno alla forma di un aereo intagliato nei mens che si stava distaccando da terra. Quando un'onda di quel qualcosa prese ad avanzare verso di me, d'istinto le mie ciglia superiori sentirono il bisogno di incontrare quelle inferiori.
I miei occhi si chiusero. Fu meno di un attimo impercettibile, eppure subito dopo tutto era... sparito.
O meglio, era tornato a essere come prima: un semplice aereo, una vetrata normalissima e persone in attesa della partenza.
Niente più mens.
Solo apparenza.
Una parte di me fu sollevata di tornare a qualcosa di più familiare, eppure... non era la stessa cosa. Il mondo di cui facciamo parte è molto più di quello che pensano tutti. È... bellissimo. Perché nessuno se ne accorge?
Troppo, ma non abbastanza. Era quello il modo migliore per descrivere il dono che mi aveva fatto Makya.
Michael!
Mi guardai intorno, confusa. Ero stata catturata così tanto da quella visione idilliaca che non avevo fatto caso al fatto che intanto lui si era allontanato. Lo individuai per un pelo, intento a consegnare il proprio biglietto innanzi al passaggio per l'aereo. Un improvviso magone mi strinse la gola con dita di rimpianto. Volevo esprimergli la mia gratitudine e la mia frustrazione, volevo... ma era tardi, ormai.
Eppure, all'ultimo secondo, proprio un attimo prima di sparire alla mia vista, si voltò parzialmente verso di me. Con garbo, si portò una mano alla tesa del borsalino nero e chinò il viso in un lieve cenno di saluto. Ricambiai piegando a mia volta il capo.
Era appena stato annunciato l'arrivo di un aereo da Houston, Texas. Intorno a me, mentre mi dirigevo a passo spedito verso l'uscita, era nuovamente esplosa la costante frenesia dell'aeroporto, ma non mi infastidiva né stordiva più come prima. Pur continuando a mal sopportare il sovraffollamento, ero così immersa nei pensieri da non farci quasi caso. Le parole di Michael erano moscerini imprigionati dentro un bicchiere chiuso: continuavano a sciamarmi dentro la testa senza scovare una logica e definita via per l'uscita. Sentivo che la risposta era lì, a solleticarmi la punta della lingua, eppure non riuscivo a liberarla.
Per non parlare dei mens... una piccola anticipazione l'aveva chiamata. Al momento non desideravo altro che avere la possibilità di distinguerli di nuovo. Era anche vero che c'erano sempre. Componevano fino al più piccolo millimetro dell'universo, dopotutto. Stava solo a me prestarci attenzione. E in effetti, se mi concentravo...
Mi scontrai contro un ragazzo. Avanzava a passo lesto dalla direzione opposta alla mia, anche lui lo sguardo fisso a terra, immerso nei pensieri.
«Mi scusi!» esclamai subito, affrettandomi a raccogliere da terra gli occhiali dalla montatura spessa che gli erano accidentalmente caduti. Mentre la parte meno imbarazzata di me pensava che sarebbe stato il cliché perfetto per l'inizio di un romanzetto rosa che non avevo intenzione di vivere, lo vidi indossare la montatura e battere un paio di volte gli occhi per rimettere a fuoco.
«Si figuri, grazie a lei» rispose sbrigativo, il volto incurvato da un sorriso che gli allungò gli occhi affilati, dalle iridi nere come la frangia a caschetto che gli copriva la fronte.
Mi schivò per proseguire per la sua strada. Una strana impressione, che sul momento non seppi spiegarmi, sigillò le mie gambe sul posto.
«Jiro, eccoti finalmente. Ti sei perso la spettacolare entrata di scena della nostra americana!»
Quella voce. Mi voltai. Il ragazzo contro cui mi ero scontrata aveva raggiunto un gruppo di amici, uno dei quali gli stava dando una pacca sulla schiena. Quest'ultimo aveva una corporatura spigolosa e una zazzera di capelli neri sparati da tutte le parti: Cosimo. L'avrei riconosciuto ovunque.
Una rapida occhiata mi fu sufficiente per notare i milleottocentonove millimetri di Isidoro e persino i boccoli castani di Kerkyra.
La mancata percezione della porta. Era quella la strana sensazione che mi aveva attanagliata quando avevo incontrato quel Jiro. Accadeva solo con coloro che l'avevano protetta con un Clypeus.
Mossi un passo indietro, il cuore a mille che suggeriva già alle mie gambe di schizzare via.
Che ci fanno gli Arkonanti nell'aeroporto? mi chiesi, tuttavia. Il terrore mi immobilizzò a osservarli – o forse fu la curiosità, così acuta da prevalere anche sulla paura. A separarmi da loro non più di tre metri e ottantasei centimetri di tensione.
Erano tutti di spalle, assiepati attorno a una donna dai capelli dorati raccolti in una coda alta sulla cima dei suoi millesettecentocinquantanove millimetri d'altezza. Gli occhi erano celati dietro occhiali da sole scuri che non nascondevano però la smorfia arrogante. Con fare annoiato, si appoggiava al suo trolley con un braccio, mentre masticava una gomma con sgraziato menefreghismo.
Un cenno distratto al nuovo arrivato: «Puoi chiamarmi Segugio, bambolotto».
Perché ho l'impressione che quella valigia contenga una vasta collezione di armi da fuoco micidiali?
Di sicuro nulla più che pregiudizi nei confronti degli standard statunitensi... C'era anche da dire che gli indumenti con cui sottolineava il proprio atteggiamento di certo non aiutava: un chiodo aperto su una canotta nera aderente al petto, cintura di cuoio, e gambe avvolte in pantaloni di pelle che si tuffavano dentro stivali borchiati, lunghi fino alle ginocchia. E soprattutto, è Arkonante.
Da come tutti erano venuti a incontrarla all'arrivo in Italia doveva trattarsi di un membro importante di quella combriccola di fanatici svitati affetti da manie di zombismo cerebrale. Ma perché era venuta a Torino e proprio in quel momento?
«Tutto bene?» sentii chiedere dal timbro fermo di Isidoro al ragazzo contro cui mi ero scontrata accidentalmente. Non aveva ancora risposto a quella Segugio e supposi che avesse corrucciato il viso per aver attirato l'attenzione dell'altro.
Piegò un braccio, forse per tirarsi su il ponte degli occhiali con un dito, un gesto che facevo spesso anche io, quando li indossavo. Fu lì che compresi.
Come io avevo percepito la mancanza di una porta in lui, Jiro doveva aver sentito la stessa cosa in me.
Lo vidi voltarsi lentamente indietro. Isidoro fece lo stesso, con un movimento più fluido e istantaneo. Quando incontrarono il mio viso terrorizzato, le sfere abissali che aveva al posto degli occhi si accesero con il guizzo di un mezzo sorriso.
Non aspettai che aprisse bocca. Né che Segugio sfilasse chissà quale mitra da quella valigia mastodontica, né che Cosimo se ne uscisse con qualche commento idiota.
Questa volta non avrei permesso alla paura di prendere il sopravvento su di me. Rimasi lucida, anche mentre le mie gambe si risvegliavano all'improvviso e mi voltavo per correre via.
Sono stata una stupida, mi rimproverai, avrei dovuto allontanarmi appena avvistato Cosimo...
In ogni caso, non aveva importanza, tutto ciò che contava era uscire di lì prima che gli Arkonanti mi raggiungessero. Dovevo sopravvivere, perché avevo promesso ai miei genitori che sarei tornata a casa. Dovevo sopravvivere, perché avevo visto solo uno scorcio del mondo.
"Padma!" chiamai, inviando insieme a quella parola il mio desiderio d'aiuto e il pericolo in cui mi ero invischiata.
«Guarda dove metti i piedi!» mi gridò dietro un uomo che spintonai per sbaglio nella foga della corsa. Improperi poco gentili seguirono ad altri scontri accidentali per i quali non ebbi modo di scusarmi, e più volte inciampai su alcuni gradini rischiando di ruzzolare giù, mentre trolley e borse ingombranti mi tagliavano la strada di continuo.
Non mi voltai nemmeno indietro perché sapevo che scorgere gli inseguitori alle mie spalle mi avrebbe solo agitata, ma cercai invece di rendere il mio inseguimento meno facile possibile, virando più volte per sfruttare l'ambiente circostante contro di loro.
«Di là!» Un attempato addetto alle pulizie mi indicò, con un frettoloso gesto del braccio, un corridoio intagliato dentro la parete che stavo costeggiando. «Sono Padma!» continuò, con voce gracidante, «Muoviti!»
Sgranai gli occhi, ma eseguii subito. Padma sta... possedendo quel tizio? Nascosta dietro lo spigolo, mi appiattii alla parete. Un attimo dopo vidi Kerkyra spuntare dalla direzione in cui mi trovavo e proseguire dritta per la stessa strada, ignorandomi.
Feci per ringraziare l'uomo, ma notai che aveva ripreso a spazzare il pavimento come non fosse accaduto nulla. Non attesi oltre e ripresi a correre, inforcando un corridoio nella speranza che mi conducesse all'uscita, dato che il mio senso dell'orientamento era andato in vacanza insieme a una di quelle valigie.
«Hai sbagliato strada» mi avvertì la vocina di bimbetta che passava di lì, tenendo per mano la sua mamma. Subito dopo riprese a canticchiare una canzoncina snervante.
Una donna intenta a parlare al telefono si voltò verso di me: «Levati il prima possibile da questa zona, qui sei troppo in vista.» Poi la sua espressione si aggrottò e, senza guardarmi, aggiunse: «Ma di che parli, Francesco, non ho detto niente!»
Deglutii l'inquietudine e seguii il consiglio, infilandomi nella prima uscita da quell'ampia sala e schizzando verso un'area più affollata. Con la coda dell'occhio intravidi Cosimo guardarsi intorno, la confusione dipinta in volto. Seminato un altro!
Grazie ad altre dritte di gente posseduta da Padma, non ci volle molto prima che riconoscessi le travi a vista grigie che sormontavano l'ingresso. Non mi trovavo ancora al livello del terreno, ma, oltre un parapetto in vetro a dieci metri di distanza, già vedevo le porte dell'uscita.
Ce l'ho fatta, commisi l'errore di pensare. Devo solo trovare un passaggio per scendere e...
Dei fragori e delle grida dietro di me. Mi voltai, sconvolta, per scoprire che un gruppo di persone era stato spintonato bruscamente da una forza immane.
Dietro, Isidoro.
«Vai da qualche parte?» Nonostante i quattordici metri e trentaquattro centimetri che ci separavano, la sua voce mi soffiò nei timpani come mi fosse stata sussurrata all'orecchio.
Prese a correre lesto verso di me, i palmi aperti che tagliavano l'aria con il movimento.
Non c'è tempo, mi resi conto, mentre schizzavo verso il parapetto. Non doveva assolutamente raggiungermi, avrei fatto qualunque cosa per impedirglielo, anche... saltare.
Quell'idea si catapultò inaspettata nei miei movimenti, man mano che la ringhiera si faceva più vicina. Sarebbe una mossa priva di senso, mi suggeriva la razionalità, forse non morirei da questi quattro metri d'altezza, però conoscendomi mi spaccherei di sicuro qualche osso...
Eppure, era la mia unica chance per non farmi raggiungere. Non era un'opzione, quanto una necessità. Ignorai i miei pensieri traditori e lasciai libertà al mio corpo.
Si mosse da solo: arcuandomi la schiena, le braccia si distesero in avanti ad afferrare la barra metallica del parapetto, su cui per un attimo poggiai il mio peso per chinarmi in avanti con il capo e spingere le anche indietro. Le gambe raccolte al petto mi ridussero a una sfera che rotolò nell'aria. Il mondo si ribaltò, mentre sotto e sopra di me l'aeroporto e il viavai continuo che lo animavano venivano inghiottiti dal vuoto di una giravolta che poggiava sul nulla.
Uno schiocco sonoro mi rimbombò nelle orecchie.
Nel mio cuore, nacque la certezza che sarei atterrata in piedi.
E così si conclude la seconda parte, Apparenza. Direi che questo ultimo capitolo, e in particolare la "visione nei mens" ne sintetizza bene l'essenza. E voi direte "e cioè"? Vabè, spero che in futuro si capisca meglio ahahah.
Comunque, come sapete questa che state leggendo è una riscrittura di una prima bozza degna di un oscar in sgrammaticità sistematica, piattezza ancestrale dei personaggi, invisibilità totale di descrizioni e trama randomica senza capo né coda. Tuttavia, c'è solo un pezzo che mi è dispiaciuto davvero cancellare in questo capitolo. O meglio una parola, un termine specifico e indubbiamente "dotto", ma che ahimè, non è alla portata di tutti. Al tempo non lo sapevo e l'avevo ingenuamente inserito nella narrazione come nulla fosse... povera illusa.
La parola in questione è "cicles", che in taurinese significa gomma da masticare. 😔 È stato uno dei miei più grandi traumi scoprire che nel resto d'Italia non viene chiamato così. Nella vostra regione come lo chiamate? Anche voi avete termini specifici a cui siete abituati/affezionati ma che non ritrovate uscendo dalla vostra zona?
Nella speranza di avervi distratti abbastanza con queste chiacchiere, vi informo che nonostante il piccolo cliffhanger gli aggiornamenti si fermeranno per una settimana perché devo sistemare il divisorio per la terza parte e perché mi rimangono solo 11 capitoli da parte e tra blocchi e impegni ho paura di finire la scorta e rimanere a mani vuote. Per sicurezza meglio prendere tempo ora che ho la scusa del"cambio arc", no? 😝
Nella prossima parte si infittiscono i misteri, si ottengono risposte, si creano altre domande, si inizia a parlare di una certa SPIA che ha fatto sclerare qualche lettore nella prima versione, si entra in azione vera e propria, E SI DANZA 🎻🎶🎼
Pronti? Attenti solo a non inciampare in qualche piccola illusione dispettosa ✨
꧁ꟻAᴎTAꙅilɘᴎA꧂
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