3.La soluzione

Il gioioso canto degli uccellini per l'arrivo della primavera; il fruscio del vento che faceva vibrare le fronde degli alberi del parco; il verde vivace della vegetazione; il profumo di fiori; e lo sciabordare continuo dell'acqua del Po. Tutto ciò era alla portata dei miei sensi, e mi chiamava, sussurrava nel mio orecchio e faceva fremere i pori della mia pelle.

Eppure, non sentivo nulla. Tutto era lì ma al tempo stesso non c'era, era distante. O forse ero io a essere distante, e vedevo, sentivo e percepivo ogni cosa da dietro quella cappa buia e atrofizzante che impegnava i miei pensieri all'interno della gabbia scura in cui mi ero rinchiusa, disegnata da linee troppo dritte per essere naturali e forme grigie che graffiavano il bianco con precisione millimetrica e oppressiva.

E quella consapevolezza, quell'angosciosa consapevolezza di tutto ciò che c'era fuori, fuori da quelle squadrette e da quei calcoli digitati dalle mie dita rapide sulla calcolatrice che contava il tempo della morte dell'anima... quella consapevolezza rendeva ancora più difficile tenere ferme le mani e garantire la precisione e fermezza richieste.

Recarmi al Parco Colletta, come ero solita fare per studiare e disegnare le tavole, si era rivelata una pessima idea. Avevo ingenuamente pensato che la freschezza dell'esterno mi avrebbe permesso di affrontare con maggiore lucidità quella situazione rispetto alle quattro pareti della mia camera dove il richiamo dei libri dagli scaffali sarebbe stato troppo forte. Ero pure stata tanto fortunata – la prima fortuna di quella giornata catastrofica, evviva! – da trovare libera la mia panca preferita: né troppo vicina alla strada animata da passanti ficcanaso, né troppo immersa nella vegetazione da essere sommersa da quelle orribili bestie altrimenti note come insetti.

All'ennesima riga sfuggita alla guida della squadretta, emisi un verso sofferente e arraffai distrattamente la gomma dal caos che si era accavallato sul tavolo. Cancellando con foga, si spiegazzò il foglio, deturpandone la candida purezza. Come se non bastasse, una goccia dispettosa cadde esattamente su quello stesso punto, sfumando quel che restava della grafite. Neanche un attimo dopo, l'intero foglio si era crepato, e poi il mondo intero, perché quella goccia era caduta dal mio occhio.

All'improvviso stavo piangendo. Stavo letteralmente piangendo per una linea storta. Che mi prendeva? Un incontrollabile e radicale desiderio di distruggere qualcosa per sfogare la mia rabbia portò le mie mani ad accanirsi su quello stesso inestimabile foglio A3 in carta rigida, che in un attimo fu strappato e accartocciato.

Vista da fuori probabilmente sarei stata presa per pazza. Per fortuna non c'era nessuno. Non che mi importasse. Se non fossi riuscita a finire quel pietoso progetto per tempo, la vita mia e dei miei genitori sarebbe stata stravolta.

Mi sfuggì un solo singhiozzo. Poi deglutii le lacrime restanti e presi un nuovo foglio, ricominciando daccapo la pianta del progetto di Barbara.

Le mie capacità amplificate mi consentirono di ricavare gli spazi più idonei e di tracciare le misure in modo precisissimo senza nemmeno stare a contare i centimetri, e una parte mezza morta nascosta in qualche cantuccio dentro di me percepì la familiare libertà dell'arte e della creazione che mi aveva portata ad appassionarmi all'architettura; proprio come per lo sciabordio dell'acqua e le carezze del vento primaverile, anche questa era ormai stata sotterrata sotto stratificazioni solidificate di ansia e scadenze e norme restrittive. Il modo in cui la progettazione veniva "insegnata" non faceva che sortire l'effetto opposto, distruggeva tutto ciò che c'era di bello nell'idea di pensare e modellare con le proprie mani le idee confuse per trasformarle in uno spazio da vivere e ammirare, e lo compattava in una formalità omologata e prefabbricata, che ingabbiava il cuore. La creatività veniva uccisa.

Ognuna di quelle linee era una catena che si aggiungeva alla libertà e che si avvinghiava attorno al mio collo, soffocandomi sempre di più. Che razza di sistema scolastico era quello che spingeva le persone a ricattarsi in maniera così meschina pur di acquisire un voto decente? Sapevo che la madre di Barbara era sempre stata molto severa e che lei era ossessionata dall'idea di non deluderla. Già in passato aveva finto di essermi amica solo per sfruttarmi a suo piacimento, perché per qualche motivo non era in grado di risolversi le cose da sé – probabilmente neanche ci provava – e per questo delegava agli altri i suoi stessi doveri.

Io però, glielo avevo reso possibile. Era solo colpa mia se mi trovavo in quella situazione, era inutile accusare il sistema scolastico o Barbara. Certo, Barbara era senz'altro la causa, ma io avrei potuto oppormi, combattere di più o semplicemente aprire gli occhi prima che fosse troppo tardi, prima di permetterle di condannarmi a quell'esistenza.

Io potevo... trovare una soluzione.

Una soluzione.

Una parte recondita di me aveva una soluzione, ma non avevo il coraggio di interrogarla. Io ero la creatura passiva che permetteva che tutto accadesse, non potevo farmi distrarre da quei pensieri strani a cui, per giunta, non sapevo dare alcuna spiegazione. Avevo sempre pensato prima di agire, anzi pensavo sempre e di continuo, ero estremamente metodica e mansueta, eppure in quelle situazioni disperate c'era sempre quella voce dentro di me che usciva fuori e...

No, non sarebbe accaduto niente questa volta. Avrei finito il progetto di Barbara e tutto sarebbe andato bene. Come aveva detto lei, tutti noi proseguiremo con le nostre bellissime vite.

Questa fu l'autoconvinzione che mi diede la forza di velocizzarmi tanto che, all'imbrunire, avevo già completato gran parte degli elaborati progettuali da eseguire su carta.

Tuttavia, dentro di me sapevo benissimo che non sarebbe finita lì. Barbara aveva in mano quell'informazione sulla mia famiglia e finché l'avesse avuta avrebbe potuto usarla quante volte voleva. Sarei diventata la sua schiava.

Eppure, una soluzione c'era.

A cena con i miei finsi che fosse tutto a posto, come al solito. Erano convinti, perché io avevo così fatto credere loro, che Barbara e io fossimo ancora migliori amiche, fin dalla prima media.

Non volevo assolutamente farli preoccupare e sapevo bene che se fossero venuti a conoscenza della mia profonda solitudine e incomprensione del mondo e delle persone che lo popolavano, non mi avrebbero più vista con gli stessi occhi. Avevano già i loro problemi, era inutile assillarli con le assurde diatribe mentali che mi facevo tutti i giorni.

Soprattutto... sentivo che non potevo essere del tutto sincera con loro, perché anche la figlia diligente e gioiosa che conoscevano, in fin dei conti non era altro che l'ennesima facciata che indossavo per adeguarmi al mondo.

«E allora io gli ho detto "sono la co-Dirigente, questo ti disturba?"» A quella frase di mia madre, esclamata tra una boccata e l'altra della pasta al pesto che stavamo mangiando, papà scoppiò a ridere. Feci lo stesso, più debolmente, rendendomi conto che ero stata sommersa talmente tanto dai pensieri da non avere idea di che accidenti si stesse discutendo a tavola.

I ricordi di quella serata da cui tutto era cominciato si sovrapponevano al presente, evocati dalla luce calda del lampadario sul soffitto e richiamati dal profumo di cibo e amore casalingo.

In effetti era una giornata molto simile, con lo stesso clima primaverile quasi estivo, privo di pioggia, piacevole se non fosse stato per le tensioni che a quei tempi opprimevano invece la mia famiglia. Non i ricatti di una compagna di classe, quanto le minacce di uno studio di architettura rivale. Dopo tante fatiche e sacrifici, i miei genitori erano finalmente riusciti a dare vita al loro sogno: fondare un loro personale studio di architettura co-gestito da entrambi, così che potessero stare insieme anche sul luogo di lavoro e dare libero sfogo alla passione comune che li aveva portati a conoscersi e innamorarsi l'uno dell'altra. Peccato che il panorama edilizio locale avesse già un suo studio che agiva nello stesso settore, la Piedmont Architeture, il quale non appena cominciò a percepire un'avvisaglia concorrenziale nel Milo&Rachele Costruzioni reagì con una serie di minacce, atti di vandalismo e danni di vario tipo per costringerli a chiudere. Le controversie si erano protratte per diverse settimane, fino a quando i miei genitori avevano ben pensato di invitare a cena i dirigenti della Piedmont per appianare le divergenze e individuare un punto di incontro.

Ricordavo benissimo quella serata, nonostante fossero passati ben tre anni. Tutto il giorno l'avevo trascorso ad aiutare i miei in cucina a preparare delle pizze per la cena, e a contemplare l'ansia che rendeva isterica la mia mamma sempre frizzante e nervoso il mio papà generalmente calmo e mansueto. Tenevano davvero a fare una bella impressione, così si erano impegnati al massimo per far sentire a loro agio gli ospiti. Si trattava di persone altolocate, che infatti guardarono con sufficienza il nostro piccolo trilocale di sessantadue virgola cinquantasei metri quadri e l'arredamento alla mano, un po' piegato dal peso degli anni ma con quell'impronta accogliente e casalinga che, associata alle pareti color porpora, creava un'atmosfera in grado di far sentire a proprio agio chiunque.

L'ingresso dava direttamente sull'open space comprensivo di sala da pranzo e soggiorno, arieggiato da ampie finestre. Quella sera erano state lasciate aperte per far serpeggiare all'interno aliti di ossigeno, così da stemperare i primi climi afosi di quell'anno, e rendere l'aria più respirabile e adatta a "trattati di pace interaziendali".

Ovviamente, era andato tutto male. I tre dirigenti erano due fratelli – il primo così magro e alto da meritarsi il nomignolo "Sigaretta", il secondo con una faccia talmente squadrata che per me era diventato "Signor Poligono" – e una sorella con una voce più gracchiante di una cornacchia – per cui "Cornacchia". Solo dopo essersi riempiti gli stomaci con la nostra pizza gustosa, e senza nemmeno complimentarsi con noi, avevano preso a insultare i progetti fino a quel momento realizzati dallo studio dei miei. La situazione si era fatta tesa.

Papà mi aveva suggerito di andare in camera e provare a dormire perché non voleva che rimanessi coinvolta. Io avevo ubbidito, non potendo impedirmi tuttavia di sentire, da oltre la porta, quelle che ben presto si erano trasformate in grida. La tensione era andata alle stelle chiuse dietro gli infissi sigillati per non disturbare il vicinato, che avevano reso opprimente e angoscioso anche respirare.

Quasi mi venne l'affanno anche in quel momento nel ricordare la mancanza di aria di quella sera e le mie crisi di pianto per l'impotenza a cui ero costretta. In alcuni momenti ero tentata di aprire quella porta e dirgliene quattro per come stavano trattando i miei nonostante l'impegno a trovare un compromesso, in altri non facevo che tirare calci al letto e soffocare grida nei cuscini perché ero troppo terrorizzata per espormi.

Avevo provato un profondo desiderio di fare qualcosa, senza sapere bene cosa. Mi ero assopita con quel radicale disagio e quell'urgenza inspiegabile di intervenire, dopodiché i miei ricordi della nottata erano confusi e disconnessi, sapevo solo che era stato un sonno irrequieto e disturbato.

Il mattino seguente, a scuola, avevo raccontato l'accaduto a Barbara, che a quel tempo consideravo come un'amica.

Poi, quel pomeriggio stesso, era giunta la notizia.

I tre dirigenti della Piedmont erano stati trovati quella mattina in condizioni... inconsuete. Sigaretta abbracciava le colonne e leccava i muri, quando cercavano di avvicinarlo prendeva a girare in tondo senza fermarsi, strascicando parole prive di senso; Signor Poligono si era pitturato tutta la faccia e gli abiti costosi e aveva preso a saltellare per l'azienda come un bambino, fermandosi solo a baciare ogni persona che incrociava; infine Cornacchia, con estremo supplizio generale, si era improvvisata cantante operistica con tanto di interpretazione ed esibizione teatrale.

Si era tentato di far loro riacquisire... lucidità, ma purtroppo non c'era stato rimedio. Erano stati eseguiti dei test per verificare che non avessero assunto sostanze improprie, e ancora non si era capito cosa fosse accaduto. Tutti e tre avevano manifestato, nel giro di una notte, dei problemi al cervello talmente gravi da averli fatti ammattire perennemente. Dopodiché, erano stati internati in adeguate strutture di cura e non se ne era più sentito parlare.

Quando la polizia era venuta a verificare tra tutti i loro conoscenti, i miei genitori avevano sorvolato sul fatto che proprio la sera precedente erano stati a cena da noi e che inoltre c'erano state delle liti. Mamma aveva ricontrollato decine di volte l'impasto della pizza e gli altri ingredienti, senza riscontrare nulla di strano – anche perché se così fosse stato ne saremmo stati affetti anche noi, avendo mangiato le stesse identiche cose. Nessuno dei due sapeva darsi una spiegazione, e il dubbio di aver fatto loro inavvertitamente del male li aveva assillati.

Non erano stati loro. Ne ero certa e non solo perché a tarda sera avevo sentito uscire i tre fratelli in perfetta salute e stabilità mentale. Era impossibile che fossero coinvolti in quella bizzarra faccenda al limite del razionale! E poi... quel mattino mi ero svegliata con una sorta di soddisfazione, svuotamento ma anche... calma. Come se avessi fatto qualcosa.

Ovviamente avevo riferito tutto a Barbara. E aveva ragione. Anche se io mi sentivo per qualche motivo responsabile dell'accaduto, se la polizia fosse venuta a conoscenza della verità in merito a quella sera, i miei genitori sarebbero saliti immediatamente in cima alla lista dei sospettati. Soprattutto perché a seguito della segregazione dei tre dirigenti, la Piedmont aveva chiuso i battenti e il Milo&Rachele Costruzioni aveva potuto farsi largo nel panorama locale.

Erano passati degli anni, certo... tuttavia era stato un caso talmente strano e mai visto prima che la polizia o degli investigatori privati non avrebbero esitato a ritirarlo fuori dall'archivio per far luce sul mistero. E se c'era una cosa che le persone sapevano fare bene era incolpare qualcuno quando non sapevano spiegarsi ciò che le spaventava. Che fossero colpevoli o meno non aveva importanza.

Quell'informazione non doveva uscire fuori, punto e basta.

Conclusa la cena, me la svignai in camera con la scusa che ero sfinita e desideravo solo dormire. Appena dopo essermi chiusa la porta alle spalle, tuttavia, tirai fuori il pc e le mie dita presero a calpestare di fretta e furia la tastiera, così da azionare i vari comandi di AutoCAD per dare forma digitale al progetto disegnato a mano quel pomeriggio. Ignorai totalmente il fatto che ci fosse da fare pure il mio; ero disposta anche a prendermi un brutto voto per evitare problemi alla mia famiglia.

Harry, ti prego, non fare storie...

Il pc ovviamente non mi diede ascolto e proseguì nella sua esasperante lentezza, bloccandosi quasi a ogni comando per caricarsi con quella maledetta rotellina che girava e girava e girava... Era quasi più stupido del personaggio da cui gli avevo appioppato quel nome per via delle iniziali della marca "hp". Harry Potter almeno avrebbe compiuto qualche piccola magia risolvendo la situazione.

Eppure una soluzione c'è.

No, non c'era. Erano solo le fantasie di una mente disturbata. Non c'era nessuna soluzione e non ero coinvolta negli strani fatti accaduti nel corso della mia vita, compreso quello relativo alla Piedmont Architecture. Dovevo solo concludere quell'orribile progetto e tutto sarebbe andato per il meglio.

Ben presto, anche solo muovere il dito e il polso iniziò a farsi complicato e il bruciore dei miei occhi stanchi di rimanere aperti si fece via via più insostenibile. Il pc inoltre non collaborava e sembrava sabotare in ogni modo possibile il mio progetto, rallentandomi.

Non ce l'avrei mai fatta, non con quel ritmo. Harry era troppo vecchio e io troppo stanca, inoltre l'intensificarsi dell'oscurità intorno a me non aiutava di certo. Diverse volte mi appisolai ciondolando il capo in avanti, le linee colorate di AutoCAD a formare disegni annodati nella mia testa anche nel sonno. Ogni volta mi risvegliavo, scuotevo la testa come un gatto, e riprendevo. Ogni mia resistenza al richiamo definitivo del mondo onirico si faceva però più fievole.

Guardai l'ora: due e mezza.

Ho ancora tempo, mi dissi. Tuttavia, sapevo bene che non avrei resistito ancora a lungo. Fu a quel punto che, nonostante il cervello già mezzo spento, fui invasa all'improvviso da un'idea geniale: avrei impostato la sveglia a due ore dopo, le quattro e mezza, in modo tale da ricaricarmi a dovere e poi riprendere fino alle sette.

Chissà come ho fatto a non pensarci prima! Sollevata, raggiunsi il letto lanciandomici direttamente contro, dal momento che la seduta della scrivania gli era quasi attaccata. Abbracciai il cuscino, immergendovi anche il viso e sprofondando nella sua suadente morbidezza. La soffice lana della coperta, che non mi scomodai nemmeno a stropicciare, mi avvolse in un calore accogliente.

Tutto il resto, tra cui la sveglia che mi ero totalmente dimenticata di impostare, si dissolse sfumando in un'oscurità senza dimensione che mi calò sugli occhi, per poi farmi sprofondare in un sonno irrequieto e angosciante.

Privo, questa volta, di note di violino.

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