2.Oliva
Confusa, aggrottai le sopracciglia, arrivando alla conclusione che quel Yoann aveva decisamente qualcosa di strano, a prescindere dalla sua lingua. Lo si poteva notare dal modo sciolto con cui i suoi occhi turchesi si guardavano intorno, la pura e sincera curiosità di chi sta studiando delle particolari specie di uccelli invece che altri ragazzi. Mi dava l'impressione che si percepisse e fosse consapevole di essere diverso da tutti gli altri, ma che non ne andasse proprio del tutto fiero e si sentisse per questo a disagio.
Senza rendermene conto, mi ritrovai a studiarlo, come per trovare una soluzione all'enigma, soffermandomi sulla carnagione rosata e sulle numerose lentiggini che costellavano naso e guance, le quali mi provocarono una lieve fitta di gelosia: avevo sempre desiderato avere le lentiggini, ma purtroppo mi comparivano solo dopo aver trascorso diverso tempo al sole, ed erano comunque sempre nascoste da quei brufoli fastidiosi.
Il naso leggermente inclinato verso l'alto con una rientranza a riga in mezzo alle narici e il mento con la fossetta gli conferivano un aspetto simpatico ma anche raffinato, accentuato dall'elegante camicia blu scuro abbottonata con nonchalance fino al penultimo bottone, che mal celava la sua corporatura snella e non eccessivamente muscolosa, e risaltava invece il collo lungo. Wala aveva ragione: gli stava proprio bene.
Accorgendosi di essere osservato, Yoann si voltò verso di me, ma io fui altrettanto rapida a distogliere lo sguardo per puntarlo sulla professoressa, la quale, ordinata la cattedra, stava per iniziare a spiegare.
«Allora, ragazzuoli, a che punto siete con i progetti?» disse invece, subito dopo, la Fimberti, portandomi improvvisamente sull'attenti. Quando ci chiamava ragazzuoli con quel tono mieloso, poteva significare solo due cose, entrambe negative: o aveva intenzione di interrogarci a sorpresa, oppure... le era appena venuta una nuova e astrusa idea per rovinare le nostre esistenze. Avevo già un sospetto di cosa potesse trattarsi questa volta. Soprattutto considerata la deliziosa giornata in cui sono inciampata stamattina. La mia malasorte si sarebbe espansa anche al resto della classe?
Iniziarono a udirsi diversi mormorii sommessi e preoccupati, segno che anche i miei compagni avevano riconosciuto un pericolo nelle parole della nostra perfida professoressa. Yoann, invece, guardò prima la classe, poi la Fimberti, con un sorrisino incuriosito e confuso che gli incuneava due fossette sulle guance. Sembrava proprio come se non riuscisse a comprendere quello che dicevano. Eppure non può essere così, è solo un attore talentuoso... sì, è sicuramente così. Ma perché?
«Dunque?» chiese di nuovo la professoressa, non avendo ricevuto alcuna risposta, mentre segnava le assenze nel registro. Qualcuno tra i presenti tentò di accampare delle scuse per non aver ancora iniziato, altri si beccarono un richiamo per non aver portato il materiale.
Quel giorno stava decisamente esagerando: era quasi impossibile essere già a buon punto di un progetto del genere. Soprattutto considerato che ci era stato assegnato da a malapena una settimana!
Inoltre eravamo agli inizi, e la progettazione vera e propria di edifici da programma si insegnava dal terzo anno, non dal secondo, solo che lei aveva preferito portarci avanti probabilmente per mettersi in vista rispetto agli altri professori.
«Altri?» La Fimberti, dopo aver segnato gli ultimi richiami, fece scorrere uno sguardo tagliente sulla classe.
In quel momento mi resi conto che somigliava proprio a un alieno, di quelli classici con la testa grossa e ovale che si assottiglia a punta sul mento, due occhi grandi e inquietanti e tante rughette su naso e sopracciglia, come se la pelle fosse tirata, nel suo caso, da uno stretto chignon sulla nuca che le raccoglieva tutti i capelli grigio scuro. Mentre pensavo che sarebbe stata perfetta per interpretare una parte in un film sugli alieni infiltrati nella Terra, tipo Men in Black, sentii Yoann ridacchiare, guardandomi di sottecchi.
Accortosi della mia occhiata interrogativa, cambiò immediatamente espressione: il sorriso svanì mentre si passava una mano sulla tempia, distogliendo lo sguardo. Alzai un sopracciglio. Sembrava quasi che... no, era impossibile, di sicuro era solo un'impressione.
Intanto la professoressa ci stava scrutando uno ad uno, ma sapevo che era solo questione di tempo prima che scegliesse di chiamare me, come faceva sempre. Era una specie di fissazione.
Stava per aprire bocca, quando Barbara alzò la mano per attirare l'attenzione della professoressa. A un suo cenno disse, con il suo solito tono da brava alunna diligente – e leccapiedi –, di aver già la pianta pronta.
La professoressa, finalmente soddisfatta, fece venire la ragazza alla cattedra ma, diversamente da come questa si era aspettata, notò diversi errori e incongruenze abbastanza gravi. Barbara se ne tornò indignata al suo posto, convinta probabilmente che fosse stata la professoressa a sbagliare e non lei.
A quel punto, esasperata, la Fimberti mi chiamò per mostrare il mio lavoro, sicura di non rimanere delusa. Infatti non sbagliò. Ultimamente mi ero accorta di essere più rapida del solito, trovavo le soluzioni con enorme facilità e le linee che venivano tracciate dalla mia matita erano a dir poco perfette. In verità ero sempre stata tra i migliori della classe, eppure negli ultimi tempi qualcosa era cambiato, sentivo di avere una diversa percezione dello spazio intorno a me.
Oltre alla consapevolezza dimensionale che ormai distinguevo con naturalezza, quasi si trattasse di un colore qualunque che si vede tutti i giorni – l'aula, ad esempio, aveva una superficie di esattamente quarantacinque virgola ventisette metri quadri, un'altezza di tre metri e quindici centimetri –, si erano aggiunte anche altre visioni ben più preoccupanti.
Percepivo infatti che il muro nella parete adiacente al mio vicino di banco era portante; sapevo dire il suo peso specifico e, persino, semplicemente guardandolo attentamente da fuori, di cosa fosse costituito il suo interno: una fila di mattoni forati, uno strato di intonaco su entrambi i lati di esattamente un centimetro virgola ventitré millimetri. In certi punti sforava nei ventiquattro millimetri, dato che non era stato messo in modo precisissimo, essendo pur sempre un lavoro manuale.
Tutto ciò mi allertava e affascinava al tempo stesso. Era bellissimo e utile, scolasticamente parlando, e mi faceva sentire la mente più aperta, come se in qualche modo si fosse spalancata una finestra e prima avessi osservato il mondo solo da dietro un grande vetro appannato.
Però non era normale – qualunque fosse il significato di quella parola. Io mi ero sempre sentita diversa dagli altri, ma questo andava al di là di ogni impressione; se l'avessi detto a qualcuno mi avrebbero presa per pazza, o peggio, verificata la verosimiglianza delle mie visioni e consapevolezze, mi avrebbero rinchiusa in qualche laboratorio per fare esperimenti sulle mie capacità sovrannaturali e avevo visto film e letto libri a sufficienza da sapere che in ogni caso non erano belle esperienze. Per questo avevo fatto quel che sapevo fare meglio: starmene zitta in silenzio e tenere segreti i miei pensieri.
Tanto sono sicuramente ammattita ed è tutto dentro la mia testa, mi convincevo, perché, sanno tutti che la magia e il sovrannaturale non esistono. Non essere sciocca, Liv, e torna nel mondo reale. Mondo in cui la Fimberti, tavola dopo tavola che le veniva mostrata, si sgranocchiava nervosamente un'unghia all'assidua e disperata ricerca di errori che ovviamente non c'erano, siccome quella mia ottima percezione del mondo intorno a me mi permetteva di capire meglio anche lo spazio sul foglio e così ero riuscita a far combaciare magnificamente tutte le stanze richieste nel modo più efficiente possibile. La progettazione architettonica era una scienza talmente soggettiva per via dei gusti di chi commissionava l'opera e del progettista che ne realizzava la pianta, che era praticamente impossibile che non vi fossero errori; invece di errori non ce n'erano. Il fatto che la Fimberti soffrisse la mancanza di correzioni con cui poter scalfire la perfezione assoluta di quelle tavole non mi provocò la gioia maligna che mi sarei aspettata, ma anzi mi turbò.
Tutto ciò non era umano. Presto o tardi mi avrebbero scoperta, se ne sarebbero accorti, e allora sarei stata più sola di quanto già non fossi, e magari anche detestata, perseguitata. Decisi che la volta seguente avrei sbagliato appositamente qualcosa.
«Bene, la vostra compagna è abbastanza avanti, anche se le manca ancora tutto il lavoro su AutoCAD. Quanto a voi, vi consiglio di darvi da fare, cari ragazzuoli, considerato che ho deciso di anticipare la consegna a domani.»
Diciannove bocche si spalancarono simultaneamente, calando un silenzio atterrito nell'aula. Dietro si sentì un tonfo, un portapenne – forse quello di Mattia – che cadeva a terra.
Dopodiché il caos esplose nell'aula, in un frastuono di voci di dissenso, grida di lamentela, e qualche pianto isterico. Io rimasi semplicemente pietrificata, mentre la sensazione di disagio per il caos circostante si sommava alla mia voglia di vivere che si accasciava nel pavimento dell'aula al solo pensiero di dover passare il pomeriggio a litigare con il PC per correre a concludere un progetto che di norma avrebbe dovuto prevedere almeno un mese di tempo.
Notai che Yoann si premeva le dita sulle tempie, come se fosse afflitto da un terribile mal di testa. Era piuttosto sensibile, per soffrire tanto solo per un minimo di baccano. Proprio come me. Scacciai il pensiero, dicendomi che molto probabilmente era perché pensava che noi italiani, a confronto della classe perfetta che magari aveva a Parigi, fossimo rozzi e rumorosi... sì, era sicuramente così. Lo sanno tutti che i francesi sono snob e detestano gli italiani, mi dissi.
Tuttavia, non potei fare a meno di percepire un vago sentore di condivisione nel vederlo versare in quello stato. Per qualche strano motivo sentivo che la sua sofferenza era uguale alla mia, e che, per quanto potessimo apparire diversi, in realtà avevamo in comune più di quanto fossi disposta ad ammettere. Mi sentivo quasi... meno sola. Altro pensiero sciocco, dal momento che lo conoscevo da meno di un'ora e che aveva già dimostrato che non ci si poteva fidare di lui.
Il baccano ebbe fine solo quando la professoressa reagì a suon di grida e minacce. Spiegò che l'anticipazione della consegna era dovuta a un richiamo urgente di lavoro la settimana seguente per un tempo indeterminato che avrebbe potuto tenerla impegnata anche fino alla fine della scuola e che le serviva quel voto entro giugno per completare gli scrutini della materia.
Neanche un attimo dopo, la prima ora si concluse e così la donna uscì, sbattendosi alle spalle la porta e la poca sanità mentale rimasta nei suoi studenti esasperati.
Quando suonò la campanella che segnava la fine della giornata, Yoann schizzò via in un attimo, i passi rapidi e la camminata aggraziata, vanificando ogni speranza di scoprire di più sul suo conto.
Chissà dove correva così di fretta!
Non appena scesi l'ultimo gradino dell'ingresso, feci un sospiro di sollievo, mentre venivo investita da una ventata d'aria fresca; le narici e i pori della mia pelle vennero solleticati da quella sensazione piacevole: l'aria della libertà. Aria che in realtà odorava di smog e benzina delle macchine. Qualunque atmosfera però, sarebbe risultata un paradiso rispetto a quella chiusa e opprimente respirata per sei ore consecutive tra le mura scolastiche.
Altro che libertà! ricordai però subito dopo. Quel pomeriggio l'avrei trascorso interamente al computer nel vano tentativo di finire il progetto in tempo.
Stavo ancora tentando districarmi dalla matassa di studenti che si riversavano fuori dall'edificio, quando un ragazzo corpulento mi sfrecciò davanti, investendomi con una spallata che quasi mi fece rovesciare all'indietro. Lo zaino pesante rendeva precario il mio equilibrio. Proseguì per la sua strada senza nemmeno voltarsi o chiedere scusa, a testa bassa.
Fai attenzione, razza di rinoceronte! La mia ira svanì, tuttavia, appena riconobbi le spalle larghe e i lisci capelli neri e lunghi raccolti in un codino basso, del ragazzo che spariva nella calca; si trattava di Elias de la Cruz, di terza B, il migliore amico di Ewan. Nessuno aveva mai capito il motivo del loro legame, dal momento che se il primo era il più popolare della scuola, il secondo era scontroso e burbero con tutti meno che, appunto, con l'altro. Insomma, non avevano nulla in comune e si vociferava che fossero tanto vicini solo perché erano cresciuti insieme come fratelli, pur non avendo legami di sangue. In ogni caso, Elias non mi aveva mai suscitato antipatia, forse per la mia propensione a mettermi dalla parte di chi era escluso e odiato dagli altri.
Così, come se nulla fosse, mi rincamminai subito dopo. Quel giorno, tuttavia, sembrava che tutti si fossero accordati contro di me per farmi ritardare il più possibile il mio ritorno a casa, perché la voce petulante di Barbara mi chiamò da dietro: «Oliva! Dove vai così di fretta!?»
Oliva. Mi morsi il labbro e strinsi con forza le mani sulle bretelle dello zaino. Odiavo quando mi chiamava così – cioè sempre. Era partito tutto alle medie, quando era saltato fuori che detestassi le olive. L'aveva fatta sbellicare dalle risate il fatto che "A Livia non piacessero le olive" e quindi da allora mi chiamava sempre Oliva per stuzzicarmi.
Alla sua domanda mi venne da risponderle: "A casa mia, magari? Lontano da tutti gli esseri viscidi senza cervello che mi rompono le scatole?"
«Sì?» chiesi invece con tono placido, voltandomi per guardarla.
«Cara amica mia!» evidenziò quella falsità con uno dei suoi classici sorrisi-stampini che la facevano somigliare a una bambola vivente.
Barbara non era bionda naturale, i suoi capelli erano di un bel castano chiaro che avevo sempre trovato delizioso, ma dalla terza media se li era tinti e arricciati, mentre aveva iniziato già da un po' a perfezionarsi il viso con chili di mascara, cipria, fondotinta, lucidalabbra e di tutto e di più, vestendosi in modo sempre più provocante, trasformandosi così da "innocente ragazzina" quale era prima a una specie di modella ancora troppo giovane per la sfilata della prossima "Miss Italia".
«Smettila, tanto lo sappiamo entrambe che non siamo amiche e non lo siamo mai state» risposi secca e perentoria. Barbara era una delle poche persone con le quali mi riusciva di comunicare esprimendo le mie reali emozioni, tuttavia era solo a causa di quello che era successo in passato, e non perché mi stesse simpatica.
Non più almeno.
Mi aveva fermato su una delle strade che conducevano alla fermata del bus, diventata già più percorribile per via della folla di studenti che si stava disperdendo come molecole di gas nocivi rilasciati nell'atmosfera. Peccato che tre di quelle molecole fastidiose mi si fossero incastrate addosso. Insieme a Barbara, infatti, c'erano anche le sue due schiavette che aveva addirittura l'ardire di chiamare amiche.
Le mie parole avevano infatti suscitato la rumorosa risata di sdegno di Rosa. Più che una risata somigliava all'immondo versaccio di un gabbiano; per fortuna le nostre orecchie furono subito risparmiate quando Barbara la fermò con uno sguardo intimidatorio.
Dopodiché la mia vecchia amica tornò a volgersi verso di me, con le labbra arricciate in un'espressione di superiorità insopportabile. «Mi sa che hai proprio ragione, Oliva. Ma questo non mi impedisce di chiamarti così. Questo ti dà qualche problema?»
Mi osservò con le sopracciglia alzate, in attesa di una risposta offesa che non le sarebbe mai arrivata; era evidente che per qualche motivo avesse voglia di litigare. Tuttavia, per quanto poco la sopportassi, non sarei più scesa così in basso. Inoltre, non avevo tempo da perdere.
«Senti, ora dovrei andare a casa, perciò se non ti dispiace...» feci per superarla, quando l'altra sua amica mi si piazzò davanti, a braccia incrociate.
«Non così in fretta, sfigata.» In quel momento avrei tanto voluto saper fare una di quelle mosse di parkour, saltare semplicemente sopra la sua testa e proseguire oltre, senza fastidiosi impicci. Peccato che Martina fosse la più alta del gruppo, non c'erano possibilità di scavalcarla.
Sospirai, tornando a rivolgermi a Barbara: «Che cosa vuoi?» Arriva dritta al punto che non ne posso più. La sua sola presenza era in grado di farmi stare male quasi fisicamente. L'imbarazzo che provavo per come le avevo permesso di trattarmi fin da quando eravamo piccole e per come mi aveva sfruttata senza il minimo riserbo rendevano ancora più opprimente la consapevolezza di doverci avere a che fare ancora per altri tre interi anni, probabilmente fino all'esame di maturità.
Finalmente la mia ex-amica sembrò perdere ogni artificiosità, e quando parlò di nuovo sembrava avere due ferri roventi al posto degli occhi. «Ho visto che sei molto avanti con il progetto della Fimberti.»
Eccola, come non detto.
«Leccapiedi» mi insultò Rosa, guardandomi con sdegno. La ignorai.
«Senti,» riprese Barbara, «non è giusto che tu sia sempre la migliore e la più brava. Lo so che hai qualche segreto che ti rende così perfetta, e che in qualche modo stai barando. Quindi ora basta.»
«Quello che dici... non ha il minimo senso...»
La mia titubanza sembrò servire su un piatto d'argento una nuova risata da gabbiano a Rosa.
«Basta!» la sgridarono sia Barbara che Martina.
«A confronto tuo sembriamo tutti degli incapaci, ci arrivi?» continuò Barbara schioccandomi le dita vicino alla fronte come per comunicarmi di darmi una svegliata. Uno strano istinto di sferrarle un bel calcio nello stomaco portò le mie dita a stringersi ancora di più sulle bretelle dello zaino.
«Tanto lo sappiamo tutti che ti fai aiutare dai tuoi, nei progetti!» – Questa sì che è bella – «Quindi per te non sarà un problema farne uno in più, non pensi?»
Sollevai le sopracciglia, incredula, mentre quella continuava: «Oggi pomeriggio farai il mio progetto, correggerai gli errori che mi ha segnato la Fimberti e cercherai di disegnarlo il più possibile alla mia maniera in modo che non si capisca che l'hai fatto tu.»
«Già che ci sono vuoi che faccia i progetti anche di Martina e Rosa? O magari anche di tutta la classe?» Il mio tentativo di risultare sarcastica non sortì gli effetti sperati, ma non mi importava. Questa volta Barbara aveva davvero esagerato.
Mi rivolsi a Martina, con uno sbuffo: «Con permesso, ora dovrei proprio andare a casa».
«Non provare a sfidarmi, Oliva» il sussurro di Barbara era praticamente attaccato alla mia nuca. Quando mi voltai di scatto verso di lei, il suo sguardo di ghiaccio mi strinse i polmoni in una morsa che mi impedì di respirare.
Sei tu che non devi sfidarmi, pensò una parte incontrollata di me. In qualche modo inspiegabile sentivo che potevo distruggerla. Potevo farle qualunque cosa. Lei non era niente al mio confronto.
Feci un passo indietro, sconvolta dai miei pensieri. Cosa mi era saltato in testa? Io non ero niente, niente più di lei, almeno. Da dove veniva quella strana consapevolezza di essere assai superiore non solo nei suoi confronti, ma rispetto a tutti coloro che mi circondavano? L'ultima volta che era accaduto...
«Vedo che hai capito» continuò lei, mal interpretando la mia reazione.
«Capito... che cosa?» Quel giorno sentivo proprio di non riuscire a connettere i neuroni. Forse ero ancora stordita dal violino mentale di quella notte.
«Che se non le fai il progetto ti schiaccia fino a farti diventare olio!» ipotizzò Martina, con tono derisorio. Rosa ci impiegò un attimo a capire la pessima battuta, poi scoppiò di nuovo a ridere.
«Piantatela, voi due!» disse infatti Barbara.
Emise uno sbuffo infastidito, poi mi afferrò per un braccio e mi tirò da parte, facendo segno alle altre due ragazze di rimanere in disparte per non sentire quel che aveva da dirmi.
«Ehi!» mi lamentai, svincolandomi dalla sua presa.
Mi aveva trascinata fino alla fine della via e ci eravamo fermate appena svoltato l'angolo. Da quell'angolazione, la fermata del bus era ancora più vicina, così come il richiamo alla libertà. Proprio in quel momento, infatti, lo vidi arrivare alla fermata.
Perfetto, come non detto. Mi toccherà aspettare almeno quaranta minuti per il prossimo.
«Guardami quando ti parlo!» strillò la ragazza, richiamando la mia attenzione su di lei. Sembrava proprio una pazza isterica.
Debole.
«Sappiamo tutte e due che stai barando. Ti conosco. È una caratteristica di famiglia, no?»
A quel riferimento, sbiancai. «Sai bene che non c'entriamo niente!»
Non poteva star davvero ritirando in ballo quella vecchia storia, proprio quel giorno. Non oserebbe mai.
«I tuoi non c'entrano niente, forse» proseguì invece lei, un sorrisetto furbo sulle labbra e il veleno negli occhi, «ma tu?»
Deglutii. Non può osare. Non può.
«Nessuno ti crederebbe mai... lo sai benissimo anche tu che questa storia è priva di senso...»
«Questo è quello che sappiamo noi. Ma cosa ne penserebbe... che so, la polizia, se venisse casualmente a conoscenza di tutti i fatti avvenuti quella sera?»
«I miei non hanno fatto nulla di male, era solo-»
«Oh no-no» mi fermò lei, posandomi un dito sulle labbra. «Io ti credo, ma non è me che devi convincere. Risparmia le tue assurde scuse per gli organi di competenza.»
Mi venne voglia di prenderle quel dito e spezzarlo. Per sua fortuna lo ritirò subito e lo sostituì con un sorriso sadico che non arrivava agli occhi.
Non avrei mai creduto che si sarebbe potuta spingere tanto oltre. Possibile che mi detestasse a tal punto? Pur sapendo che non eravamo colpevoli, era disposta a rovinarci la vita. Forse la polizia non avrebbe creduto a una ragazzina, ma se avesse convinto suo padre, che era avvocato? E se fosse saltata fuori qualche prova?
Quei pensieri intrusivi e pericolosi ormai mi incendiavano il petto e cominciai a temere che fosse solo questione di tempo prima che la aggredissi – peccato solo che non avrei nemmeno saputo da dove cominciare, non essendomi mai immischiata in alcun tipo di rissa.
«Perché vuoi farmi questo?» non potei fare a meno di chiederle, tornando in me.
Ero svuotata di ogni forza, ridotta a un guscio di ribrezzo e immobilizzata dal terrore che quella minaccia faceva sorgere in me.
«Oliva, ma per chi mi hai presa?» Barbara si lasciò andare a una risata leggera, poi i suoi occhi tornarono di ghiaccio. «Completa il mio progetto e non accadrà nulla del genere. Tutti noi proseguiremo con le nostre bellissime vite. Nessuno si farà male. È molto semplice, non credi?»
«M-ma è tantissima roba da fare, non so nemmeno se sono in grado di finire già solo il mio per tempo, potrei non riuscire a-»
«Lo voglio pronto domattina, mi sono spiegata? Usa i tuoi trucchetti magici per qualcun altro, per una buona volta, ti costa tanto?»
Sì. pensò la parte razionale di me.
Ma mai quanto costerà a te. pensò invece quella misteriosa e incontrollabile parte irrazionale. Che significava?
«Non conosco nessun trucchetto magico» mentii. Avrei dovuto stare più attenta. Ora i miei genitori rischiavano di finirci in mezzo, e la colpa era tutta mia.
«Certo, certo» roteò gli occhi lei. «Però ti conviene fare il mio progetto come ti ho detto, se non vuoi che accada quel che sai. Sono stata chiara?»
Mi scagliò la cartellina contenente i suoi fogli sul petto, con un gesto scortese e così brusco da farmi indietreggiare di alcuni passi per l'urto.
«Chiarissima» emisi infine, con un filo di voce. Sollevai lo sguardo su di lei, nella disperata ricerca di un briciolo di umanità. Sapevo che era egoista e insensibile, ma a tal punto? Non trovai nulla. Solo vacua spietatezza.
Sta esagerando. Questa volta non la passerà liscia. Uh?
Neanche un attimo dopo, Barbara era già stata raggiunta da Martina e Rosa. Tutte e tre mi sorpassarono senza dire una parola, chiacchierando tra loro con loquacità, l'orribile risata da gabbiano in sottofondo. E mi chiesi, mio malgrado, come potesse tornare a ridere e scherzare subito dopo avermi ricattata in modo così infimo. Non riuscivo proprio a concepire come vedesse il mondo, sensazione che si traduceva in una sconfortata confusione.
«Che dite, raga, andiamo in centro questo pomeriggio?» fu l'ultima cosa che sentii dire da Barbara alle sue amiche, prima di svoltare l'angolo della strada e sparire alla mia vista.
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