19.Non è tutto oro quel che luccica
Sprofondai nella morbida poltrona in velluto che arredava la camera di Yoann. Si trattava di uno spazio accogliente ma anonimo, che ancora non si era impregnato del suo sapore. Le pareti, seppur adornate e curate nel minimo dettaglio, parevano nude. Non che fosse un ambiente poco ospitale, anzi: l'ampia portafinestra che dava all'esterno irradiava la luce opalescente di quella giornata sull'ampia scrivania in legno, il cui taglio era irregolare ma sinuoso. Su di essa erano sparsi fogli di traduzioni che ne nascondevano altri più vecchi, ricoperti di calcoli incomprensibili.
Al termine della lezione non me l'ero sentita di andare direttamente a casa, ancora troppo immersa nei pensieri in cui quei discorsi mi avevano fatta sprofondare. Mi ero recata lì in cerca di risposte; ne avevo ricevute alcune, eppure altre centinaia ne erano germogliate fuori.
Per cui, avevo solo bisogno di distrarmi un po', e aiutare Yoann a studiare italiano mi era sembrata la soluzione migliore. In verità studiammo ben poco e il resto del tempo lo passammo a chiacchierare del più e del meno, seguendo il flusso dei pensieri.
«Yoann, posso farti una domanda?» chiesi, di punto in bianco, in un momento in cui il silenzio si era interposto tra di noi.
Lui annuì, in attesa che parlassi. Di domande ne avrei centinaia, in realtà. Morivo dalla voglia di chiedergli perché si fosse trasferito in Italia, perché la sua camera fosse spoglia come se non avesse avuto il tempo di preparare i bagagli, e perché non volesse mai parlare della sua famiglia.
Ma quelle erano tutte cose di cui ero certa avrebbe parlato lui solo quando fosse stato pronto.
«Per quale motivo non ti sei mai accorto che parlavamo in Ephiano invece che francese?»
Lui giocherellò con la matita che aveva tra le dita, ragionando sulla domanda.
«La verità?» sollevò infine lo sguardo. «Non lo so proprio.»
Si lasciò andare a una lieve risata che catturò anche la mia nella medesima musica, poi riprese: «Cioè, quello che non mi spiego è proprio come ho fatto a non accorgermi che tu sei un'Ephura!»
Annuii, ricordando quei giorni. «Anche perché i miei pensieri erano parecchio... ehm incasistrani.»
Quella parola era proprio perfetta per descriverli, dovevo riconoscerlo a Padma. Non mi venivano in mente termini più appropriati.
«Esatto. Però, come capirai meglio con il Secondo Livello, in realtà i pensieri non vengono percepiti sempre, se non si cerca di ascoltarli.»
«In che senso?»
Yoann posò due dita sulla tempia scoperta, nel lato in cui non ricadeva il morbido ciuffo di rame, e adagiò il mento sul pollice della stessa mano. Gli occhi sembravano invece persi in pensieri avvolti tra loro in un nodo inestricabile. «È difficile da spiegare. Diciamo che alcuni vengono proprio gettati fuori, all'esterno, come se si volesse gridare qualcosa che però non viene espresso a voce. Altri invece restano protetti, rintanati nel loro cantuccio, con una porta chiusa alle loro spalle. Credo dipenda dall'intimità dei pensieri o delle emozioni di cui sono pregni.»
Annuii. Aveva senso. Di solito tendevo a tenermi per me i dubbi più strani, come se stringendomeli al petto il più possibile avessero evitato di diventare realtà. Era avvenuto così per la morte di Barbara e i miei sospetti in merito alla mia presunta responsabilità per l'accaduto, e lo stesso si era verificato con le mie congetture in merito alle stranezze di Yoann.
«Per questo hai percepito solo i pensieri più stupidi, come quando paragonavo la Fimberti a un alieno o ragionavo sul taglio di capelli del bidello!» compresi, e lui annuì, ridendo al ricordo.
«Mi ero preoccupato tanto di essermi fatto scoprire che il giorno dopo mi sono sentito male e ho saltato scuola. Ne ho anche parlato con Ewan ed Elias, temendo ci fosse qualcosa di grave, e loro mi hanno detto che in questi casi gli Ephuri operano cancellando la memoria. Non volevo che accadesse, perché temevo che ti saresti dimenticata anche di me, e così ho detto loro di non farlo. Menomale, aggiungerei.»
Cercai di razionalizzare l'informazione. Quel giorno avevo temuto ci fosse qualcosa di grave in ballo, ma non pensavo così tanto.
«Però, oltre a questo» continuò ancora lui, seguendo con gli occhi l'ordine dei pensieri, «credo di non aver sentito ciò che non volevo sentire. Forse inconsciamente lo sapevo già, ma mi piaceva aggrapparmi all'idea che anche tra i Letargianti mi fosse possibile coltivare un'amicizia. Evidentemente mi sbagliavo.»
Lo osservai. Eravamo più simili di quanto pensassi, sotto quell'aspetto.
L'ombra di tristezza, velata da un appannato manto di memorie, scivolò via dal suo volto, lasciando il posto a un sorriso. «Ma il fatto che tu sia un'Ephura è ancora meglio! Potremo affrontare il percorso insieme.»
«Già... anche perché ho visto che questo posto non è proprio affollatissimo. C'è tanto spazio vuoto, venendo qui ho visto che nel primo piano le uniche stanze abitate sono questa e quella di Wala...»
Ripensai a quando avevo visto la ragazza accompagnarlo a scuola il suo primo giorno. Lui fece un'espressione stupita, forse visualizzando a sua volta l'immagine.
«Sì» confermò, senza commentare l'accaduto, «se ho capito bene, il dormitorio è gestito in modo tale che in questo piano abitino gli Ephuri appena sviluppati, mentre si sale di piano man mano che si accumula l'esperienza. A dir la verità, però, c'è talmente tanto spazio che ognuno si mette un po' dove gli pare...»
«Allora è vero che gli Ephuri sono in via di estinzione» commentai, ricordando un accenno fatto da Clara durante la spiegazione. E la causa siamo noi Metephri.
Yoann allungò il viso in un'espressione contrariata. «Non lo so. Credo che sia solo questa Ephia a essere poco affollata. Ho sentito descrivere l'Ephia di Parigi come una vera e propria piccola città.»
Rizzai l'orecchio. Dunque non l'aveva visitata, ma ne aveva sentito parlare.
«Ah, bizzarro» rimasi su un tono disinteressato, «sarà che a Torino ci sono meno Ephuri, allora. E quelli che ci sono sono anche parecchio strani.»
Ridemmo entrambi, poi riprendemmo a parlare d'altro, musica e film principalmente. Quelle semplici chiacchiere servirono a distrarmi dai pensieri attorcigliati sulla realtà con cui stavo venendo a contatto in quei giorni. Passare il tempo con Yoann era sempre rinfrancante come bere un bicchiere d'acqua fresca.
Trovare uno spazio nel suo cuore era stata una vera fortuna. Mi chiesi come avessi fatto a vivere prima senza un amico come lui. Anche i timori in merito agli Arkonanti e alle scelte che dovevo intraprendere diventavano solo un ricordo lontano, cancellato dalle risa con una passata di spugna. Il nodo che mi comprimeva lo stomaco si era sciolto, rendendomi più leggera di una folata di vento.
Ci stavamo spanciando dalle risate per la nostra pessima imitazione stonata di una canzone, quando mi cadde per caso lo sguardo sull'orologio. Sette e mezza.
«Santo cielo» esclamai, «sono quasi le otto! Se non torno in tempo per cena, i miei mi ammazzano!»
«Seriamente?» sbiancò Yoyo.
«No, cioè, non proprio letteralmente. Diciamo che potrebbero arrabbiarsi, se non invento una scusa sufficiente.»
Lui annuì, comprensivo, con una lieve risata che sembrava voler scacciare un brutto pensiero. Strano.
Lo salutai in fretta, mi infilai lo zaino in spalla, e filai via. Appena le mie scarpe calpestarono la moquette rossa che ricopriva il pavimento del dormitorio ebbi un attimo di panico, temendo di non ricordare la strada per uscire. Eserciti di porte scure con cartellini vuoti mi attorniarono. La luce proiettata dalle ampie finestre arcuate si era fatta buia per via dell'addensarsi di pesanti nuvole cineree. L'intero corridoio, prima luminoso, sembrava contagiato dalla loro oscurità.
Fu un motivo sufficiente per ripigliarmi subito. Non avevo assolutamente intenzione di ritrovarmi sotto la furia di un temporale. Così mi sforzai per ricordare e ripercorsi a ritroso la strada che avevamo preso io e Yoann per arrivare nella sua camera. In fondo, il dormitorio era grande e vuoto ma non così labirintico.
Trovate le scale, le scesi a passo rapido, raggiungendo in meno di un minuto l'ampio salone d'ingresso del dormitorio. Un enorme ed elaborato lampadario di cristallo, prima spento, schiariva con tanti piccoli lumi un androne dal soffitto a cupola, che culminava nel suo punto più alto nella bellezza di dodici metri e settantasette. Le scale infatti gli ruotavano intorno in un'ampia spirale che si diramava per condurre alle camere nei piani sovrastanti.
Se prima quel posto mi era sembrato affascinante, dovetti riconoscere in quel momento che era quasi magico. Le torce a muro creavano aloni di luce che definivano i disegni intarsiati nelle pareti, mentre piantane dalle aste ondulate e tortili avvolgevano tavolini e poltroncine morbide in abbracci di bagliori bronzei. Il mio naso fu automaticamente tirato all'insù per osservare il disegno sul soffitto che si avvolgeva intorno al lampadario principale, quando una voce mi distolse dalla mia contemplazione.
«Ambiente incantevole, non trovi?»
Una ragazza mi osservava, una tempia adagiata con grazia su una mano e il gomito sprofondato sullo schienale di una poltroncina, nella penombra. Riconobbi subito quegli occhi delineati da un perfetto eyeliner alla Cleopatra. Wala.
Un lampo di comprensione le attraversò il viso, serpeggiandovi un sorriso malizioso. Si alzò in tutta la sua considerevole statura, elegante nel top che le lasciava scoperta una spalla magra e l'ombelico. Mi squadrò con cura, dalla testa ai piedi. La penombra le disegnava oscuri misteri sotto gli zigomi.
«E così... tu e Yoann...» Mi lanciò uno sguardo significativo.
Sgranai gli occhi, presa in contropiede da quell'inaspettata allusione. «No! Cioè, è solo mio amico...»
«Certo, certo» ridacchiò, ilare, «però ha fatto davvero centro, non sei affatto male.»
Un occhiolino e mi sorpassò, camminando altera, diretta alle scale. Ma perché un ragazzo e una ragazza non possono essere amici senza che tutti facciano allusioni di continuo?
Scossi la testa, ricordandomi che dovevo andarmene prima che si mettesse a piovere. «Ah, comunque» riprese però, imperiosa, la voce di Wala, ben udibile nonostante avesse già valicato i primi gradini, «non fidarti di quel che vedi.»
Fece un cenno al lampadario, alle piantane e a tutto il resto, osservando lo stupendo androne con ripugno. Appariva come un'imperatrice altera, insoddisfatta del suo stesso regno.
Ebbi un fremito. «Perché?»
«Perché non è tutto oro quel che luccica.»
La voce amara di Wala, intrisa d'acido, mi riecheggiava ancora in un angolino delle orecchie. Tremavo, attraversata da brividi zampettanti, attendendo il bus alla fermata.
Da circa mezz'ora.
Che cosa intendeva? A chi o a che cosa si riferiva?
Guardai di nuovo l'orologio. Le nuvole incombevano su di me, minacciose e responsabili di quell'abbassamento di temperatura che aveva calciato via il sole. Le mie gambe, però, bruciavano per l'impellenza di schizzare via. Conoscevo benissimo la strada per tornare a casa, avrei fatto anche prima a piedi che aspettando il bus.
Però, l'avvertimento di Yoann ancora mi tormentava. Devo evitare di girare da sola e stare alla larga dalle strade isolate. Gli Arkonanti sapevano il mio aspetto, potevano seguirmi e attaccarmi in qualunque momento.
Tuttavia... standomene qui ferma non sono mica più al sicuro che camminando. A meno che quel barbone che sonnecchia qui accanto non sia un Ephuro Umanente sotto copertura, pronto a proteggermi...
Sporsi l'ennesima occhiata al display della fermata per vedere se compariva il numero del mio bus. Non vedendolo, presi lo zaino, lanciai una monetina al senzatetto, e mi incamminai. Al diavolo.
Il movimento rapido delle gambe mi fece riaffiorare una vena di calore, di cui fui grata. Superai a passo spedito Corso Novara, incontrando poca gente per strada e tenendo lo sguardo basso, incollato al pavimento.
Poi, sentii il primo tuono.
Il mio cuore ebbe un capogiro. Compresi che, forse, non era stata un'idea così geniale decidere di andare a piedi. Presi a correre, mentre le prime stille d'acqua mi bagnavano i capelli, le spalle e lo zaino, pugnalandomi con lacrime di ghiaccio. Mi sforzai di mantenere una respirazione controllata, per evitare di farmi prendere dal panico che venire toccata dalla pioggia provocava in me.
Devo trovare un riparo. Non riuscivo a pensare ad altro, certa solo che dovevo impedire alle gocce di raggiungermi il viso perché altrimenti mi avrebbero affogata. Sentivo già i capelli bagnarsi, e aghi di gelo pizzicarmi la pelle in punti casuali. Cercai di non pensare alla condizione in cui dovevano trovarsi i miei libri nello zaino...
Un balcone. Non appena ne vidi uno, schizzai a ripararmici di sotto, osservando la strada trafficata che si faceva grigia, attraversata dai fruscii scroscianti delle auto e dalle corse rapide degli altri poveri sfortunati che si erano trovati sotto quello che poteva trasformarsi anche in un temporale.
Intravidi, con la coda dell'occhio, uno di quei malcapitati venire a ripararsi sotto il mio stesso balcone.
Non ebbi neanche il tempo di voltarmi verso di lui, che sentii la sua voce serena chiedermi: «Desidera un ombrello?»
Sgranai gli occhi. Conosco questa voce.
Seguii con lo sguardo l'ombrello nero che mi veniva porto, fino alla mano guantata che lo impugnava e al braccio di cui faceva parte.
Sollevai gli occhi sul viso.
Isidoro. Deglutii il mio stesso fiato.
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