News: DA LEGGERE ASSOLUTAMENTE - Capitolo in regalo.
Ciao amici!
Come state? Lo so, non mi faccio sentire da non molto e questo mio comportamento è imperdonabile. Sono dell'opinione che ognuno ha i suoi problemi e ognuno li gestisce a proprio modo. Io l'ho fatto con la scrittura e la revisione di molti romanzi, rendendoli in formato cartaceo (e Kindle) che potete trovare su Amazon semplicemente scrivendo Checca B.
By The way
Uno di questi famosi romanzi è questo qui sopra scritto, che a mio parere è imbarazzante, ma adesso nella nuova versione che a breve (spero fino aprile 2020) renderò online, la storia cambia, oltre al nome della protagonista, che da Francesca diventa Fedra.
Vi lascio in anteprima il primo capitolo della versione aggiornata.
CAPITOLO 1: L'inizio della fine
Osserviamo il nostro riflesso e pensiamo di sapere chi siamo: purtroppo, guardiamo solo quello che pensiamo di essere.
Una ragazza dai lunghi capelli castani, che fanno qualche onda qua e là, con grandi occhi color cioccolato e un corpo completamente diverso da quello alto e slanciato della propria madre.
Qual è il momento in cui capiamo chi essere?
Dobbiamo guardare il nostro aspetto? I nostri amici? I nostri familiari?
Non lo so. Proprio non riesco a trovare una risposta alle mie mille domande.
Nel chiasso dell'aeroporto di Londra Gatwick, accendo il telefono e scorro alcune foto di mia madre. Non mi ci vedo per niente in lei. Insomma, è una bella donna: ha delle gambe così lunghe e un corpo così snello che farebbe invidia a qualunque modella di Victoria Secret. Ma la parte che eccita ancora di più chiunque la guardi, è quel suo taglio lungo biondo di capelli, accompagnato da piccoli ma taglienti occhi azzurri.
Sospiro e inizio a guardarmi in giro: dov'è finita? È in ritardo.
Qual è il momento migliore per capire se stessi se non iniziare l'università in un nuovo Stato con la propria migliore amica?
Giro lo sguardo e la vedo: è come se tutto il caos, intorno a me, si fosse fermato. Tutte le persone si voltano verso di lei e spalancano la bocca, lasciando scendere la bava fino alla camicia, mentre le ragazze le lanciano sguardi d'invidia.
Come non farlo insomma? E, soprattutto, come non essere invidiosa di lei quando non si è nemmeno la metà?
«Oh, eccoti, tesoro», squittisce entusiasta mia madre Lilian. Sobbalzo nel sentire la voce di mia madre alle mie spalle.
Ovviamente non si riferisce a me.
«Ciao, Lilian», fa un sorriso timido Madison.
«Quante volte ti ho detto di non chiamarmi in questo modo?» sbuffa mia madre, alzando i gli occhi al cielo.
Io non intervengo: sono abituata a questo tipo di scena.
Conosco Madison da quando avevamo entrambe cinque anni. Si era appena trasferita con il padre nell'appartamento affianco al nostro, dopo che la madre era morta in un incidente d'auto e – ovviamente – mia madre si era subito buttata fra le braccia. Nonostante il grandissimo failnella relazione sentimentale tra i due, mia madre ha iniziato a prendersi cura di Madison come una figlia e da quel giorno io e quella dolce bambina dagli occhi verdi, diventammo migliori amiche.
«Non sapevo venissi qui», ridacchia Madison con voce dolce.
«Non potevo perdermi la partenza di mia figlia», afferma mia madre abbracciandola.
Sospiro e distolgo lo sguardo.
«Sono così orgogliosa di te, mia piccola Maddie», gioisce mia madre Lilian.
«Lilian, tutto questo è merito tuo», afferma felice Madison.
«Ma smettila. Sei la figlia che non ho mai avuto...» sussurra mia madre con le lacrime agli occhi.
Tossisco ed entrambe si voltano: mia madre mi lancia uno sguardo disgustato e Madison sorride.
«Madison, dobbiamo imbarcarci», mormoro a testa china.
Lei annuisce e stringe, di nuovo, mia madre tra le sue minute braccia.
«Ti voglio bene, tesoro», mugola mia madre.
«Anche io», sussurra la mia migliore amica.
Si staccano e mi porgo in avanti, ma vedo mia madre lanciarmi uno sguardo gelido all'istante.
Anche io, mamma, ti voglio bene...
«Ciao», mugugno.
«Dai, Evelyn. Andiamo! Sono così felice di iniziare una nuova vita», dice la mia migliore amica entusiasta.
Prendiamo le valigie e ci imbarchiamo con direzione Stati Uniti in una giornata assolata di inizio luglio per poter iniziare l'università Brown.
Un mese intero a organizzare le lezioni, le attività extra-scolastiche e a sistemare la camera che divido con Madison. Ogni sera mi costringe ad andare a qualche stupida festa di una qualunque confraternita e mi abbandona subito dopo dieci minuti.
Mi guardo allo specchio, pronta ad uscire vestita interamente in nero, e ancora una volta decido di non insistere con il mio aspetto, visto che assomiglio a Mercoledì Addamscon la speranza di apparire un unicorno che vomita arcobaleno.
«Sei pronta?» mi chiede la mia migliore amica aprendo la porta e mostrandosi con un vestitino rosso come i suoi capelli.
«Sì, lo sono...» sussurro.
«Ancora così?» sbuffa guardandomi dall'alto verso il basso.
«Che cosa?» esorto.
«Devi imparare a vestirti!» esclama sistemandosi il trucco.
Saliamo sull'auto di qualcuno che non conosco e partiamo in direzione della festa per festeggiare la fine di luglio.
Arrivati, scendiamo dalla macchina e la prima cosa che faccio in modo involontario è alzare gli occhi al cielo, mentre Madison con i suoi amici scompare all'interno della casa in cui viene festeggiato il trentuno luglio.
Non so nemmeno il motivo per cui ho deciso di venire a questa festa. Non sono il tipo da feste scatenate della confraternita. Perché continuo a venirci?
Sì, mi piace ballare, ma se penso al significato che ormai assume la parola "ballare" vicino a "festa", lo detesto pienamente: andare in un posto sconosciuto, con gente sconosciuta per strusciarsi addosso agli altri non mi attira particolarmente. Preferisco di gran lunga un bel divano, un libro e una sanissima cioccolata calda.
In ogni angolo vedo persone ubriache, che ballano l'una attaccata all'altra. Mi guardo intorno alla ricerca di Madison, ma non c'è traccia di lei.
Mi avvicino ad una ragazza e chiedo: «Scusa, hai visto Madison?»
«Madison Jonhson?» ribatte lei.
«Sì».
«Non lo so, ma è troppo forte quella ragazza. Vorrei fosse mia amica...» sbava lei, sorseggiando qualcosa da un bicchiere rosso.
Conosco Madison da circa tutta la vita e sono abituata a questo tipo di affermazioni. Fin dai tempi delle superiori la mia migliore amica ha avuto molto successo, soprattutto grazie al suo aspetto, e ha sempre cercato di farmi integrare in qualche modo, portandomi in giro come se fossi il suo cagnolino, ma io non mi sentivo mai partecipe. Ogni tanto mi capitava di guardarla insieme ad altri ragazzi nei corridoi e notavo come lei cambiava il suo atteggiamento nei miei confronti quando mi vedeva. Sembrava diversa quando era con me e io mi sentivo in colpa perché nessuno si avvicinava a lei se ero in sua compagnia.
Non mi considero una ragazza dalle grandi esigenze: mi piace leggere, ascoltare la musica e tutte quelle cose che piacciono a una persona normale, ma non mi piace sbandierarlo ai quattro venti. Ecco perché mi sento diversa da lei e da tutti quelli che adesso mi circondano.
Mentre tutte le persone intorno a me ballano e si strusciano come non ci fosse un domani, faccio un giro per la casa, cercando qualcuno di interessante che mi tenesse compagnia, ma non trovo nessuno.
Decido, così, di uscire per prendere una boccata di aria fresca e nel parcheggio, vicino alla macchina con cui siamo arrivati, scorgo Madison e un ragazzo sconosciuto dai capelli corvini impegnati a limonare. Così le concedo un po' di privacy, aspettando che si stacchino almeno per respirare. Passata mezz'ora però, mi decido di avvicinarmi. «Madison».
Lei si stacca dal ragazzo e si volta. Lungo la mia schiena uno strano brivido mi fa raggelare la pelle e il suo sguardo, il modo in cui pone i suoi occhi su di me, mi fa trattenere il respiro. Infine, con una voce che non avevo mai sentito uscire dalla sua bocca, lei mi risponde: «Che vuoi, guastafeste?»
Che vuoi, guastafeste?
C'erano delle volte in cui Madison era veramente adirata con il mondo che se la prendeva con me, ma in questo caso? Perché rivolgersi così in questo momento? Perché le ho interrotto i preliminari?
Con mio grande stupore, noto che è ubriaca fradicia, ma ciò non le dà il diritto di parlarmi con quel tono.
«Possiamo andare via?» insisto. «Non mi sento a mio agio, oggi».
«A tuo agio, come?»
«Non mi sento bene, Madison. Andiamo via!» esclamo.
«Dove vuoi andare, scusa?» domanda con voce squillante, prendendomi in giro.
«Domani iniziano le attività extra-scolastiche e... vorrei riposarmi. Forza, andiamo. Ti prego».
Lui inclina la testa, chiude gli occhi per qualche secondo e serra la bocca. Improvvisamente spalanca gli occhi e li stringe fino a farli diventare delle piccole fessure. Si stacca dal ragazzo, che guarda la scena con divertimento, e mi si avvicina.
«Ora... mi... hai... proprio stancato, piccola santarellina», biascica. Sì, è proprio ubriaca. Non riesce nemmeno a parlare.
«Ascoltami, sei... ubriaca. Andiamo...» mormoro.
«No, ascoltami tu. Per tutta la mia vita mi è stato imposto di essere tua amica nonostante fossi una grandissima palla al piede. Quando ho preso coscienza di ciò che eri realmente per me, ho messo le carte in tavola ai nostri genitori: non volevo più essere tua amica e sai cosa ha fatto tua madre? Mi ha pagata! Sì, mi ha pagata per essere tua amica, ma adesso i soldi non mi interessano più, perciò tornatene in dormitorio da sola e domani non farti trovare lì. Ho già trovato una compagna di stanza nuova».
«Ma cosa stai dicendo, scusa? Non capisco! Non farti trovare lì? Pagato?» balbetto.
Il mio cervello ha un sovraccarico: troppe informazioni. Troppe parole. Le parole fanno male. Le parole feriscono.
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