Capitolo 8: La voce della verità [R]

Sono passati alcuni giorni da quando ho messo piede in biblioteca ed è già diventato il mio regno. La adoro. Si trova in una via nascosta a destra della piazza, all'interno di un vecchio edificio in pietra. Insieme a Salvatore e ai suoi collaboratori abbiamo deciso di mantenere l'aspetto e il clima antico della struttura aggiungendo, però, oltre all'antica dotazione già in possesso, delle raccolte nuove e dei nostri tempi. Per i primi cinque giorni ho sistemato la mia stanza. La stanza della bibliotecaria si trova all'ultimo piano e offre un magnifico paesaggio del paese sia di giorno che di notte. Ho arredato la piccola stanza spoglia con le poche cose che mi sono portata, mentre alcuni manutentori cambiavano le finestre, la porta e le serrature e aggiustavano il piccolo terrazzino. Ho fatto il letto con una trapunta regalatami dalla nonna Elena e ho dipinto sui muri dei girasoli con l'aiuto di Concetta. Finito di arredare la mia stanza e di pulire il bagno, mi sono dedicata al mio lavoro: ho iniziato dal primo piano, dove la situazione era più critica. Ho cominciato a pulire gli scaffali e ho raccolto tutti i libri a terra, pieni di polvere. Finito con il primo piano, ho fatto lo stesso con il pianterreno. Poco più di mese dopo, la biblioteca aveva ripreso forma e colore.

<<Pensavo che ci volesse più tempo. Hai dormito almeno?>>, mi chiede Salvatore ridacchiando.

Mentre pulivo, leggevo qualche libro qua e là per imparare la lingua. Ora che è passato più di un mese, capisco la lingua quando mi parlano, ma ancora ho qualche difficoltà a esprimermi.

Annuisco.

Non ho dormito per nulla. Ero così emozionata che non riuscivo a prendere sonno, così leggevo o pulivo.

<<Sei stata brava. Sei emozionata, vero?>>.

Dire emozionata è un eufemismo. Sono sulla luna.

1° maggio.

Apertura della biblioteca.

La data è stata fissata.

Mancano due giorni alla grande apertura. Salvatore mi ha informato che questo paese non è molto attivo e che di solito tutti rimangono a casa, ma sostiene che la biblioteca avrà successo perché le nuove insegnanti delle scuole del paese preferiscono un modello educativo di vecchio stampo, perciò manderanno gli studenti in biblioteca. In più mi informa che la Le Blanc, la scuola che frequenterò, ha finanziato una parte dell'iniziativa poiché anch'essa sostiene il valore dell'antico.

In questi due giorni ho la possibilità di vedere e visitare per il meglio il paese e ammirare il magnifico paesaggio con Concetta, la mia guida personale. Preparo il mio zaino con la macchina fotografica, l'unica cosa che non ho venduto oltre ai libri, un cambio di vestiti e una bottiglietta d'acqua.

Mi dirigo verso casa di nonna Elena e vedo che c'è già Concetta ad aspettarmi. Concetta è una ragazza di 14 anni. È più alta di me, nonostante l'età ha già un corpo con curve abbondanti ma giuste, ha i capelli castani scuri e gli occhi neri. Frequenta la prima superiore di un indirizzo economico turistico in un paese nelle vicinanze.

Mi ha raccontato molto di come funziona l'istruzione italiana: ha i suoi pro e contro. I pregi sono il fatto di offrire agli studenti dei corsi specifici settoriali piuttosto che generali e che i giovani possono fare una scelta. D'altro canto, però, c'è anche un grande difetto: l'età in cui devono scegliere il loro percorso di studi. A mio parere, è difficile scegliere coscientemente il proprio percorso di studi a tredici o quattordici anni. 

Mi ha raccontato come procede la vita in un paese così piccolo, le sue tradizioni e la sua cultura. Mi ha detto persino che sua madre è morta di cancro quattro anni fa. Sinceramente non me lo aspettavo, vista l'accoglienza del primo giorno, ma la capisco, perché anch'io sarei stata restia nei confronti di una sconosciuta.

Camminiamo per le piccole vie di pietra del paese e lei mi spiega ogni piccolo particolare. È molto interessante sapere che dei piccoli pezzi di pietra possono racchiudere così tanti ricordi, tradizioni ed emozioni.

<<E questa è la scuola Le Blanc>>, commenta fermandosi davanti uno spiazzo.

Alzo lo sguardo verso il maestoso edificio che si erge davanti a me. Senza accorgermene, spalanco la bocca.

È un edificio gigantesco: sembra quasi un castello. La facciata è di un colore bianco marmo con ornamenti, probabilmente, placcati in oro; ci sono grosse finestre con quelle che paiono grosse e spesse tende rosse e in alto, al centro dell'edizione, c'è un grosso orologio in anticipo ancora funzionante.

Non e proprio come me la aspettavo: è molto meglio.

Non vedo l'ora di cominciare, me ne sono innamorata.

È tutto nuovo per me. Questa emozione... è allegria? È felicità? Perché non l'ho mai provata? Cosa mi ha spinto a non provarla? Anzi chi? Penso di sapere già la risposta...

Mi incupisco velocemente.

Madison.

<<Cosa c'è?>>.

<<Niente>>.

Lei mi scruta  per qualche secondo e poi continua: <<Sai, il giardino della scuola è aperto a tutti oggi. Vuoi fare un giro?>> Annuisco in segno di risposta.

Mentre camminiamo, osservo il magnifico giardino della scuola. Scatto diverse foto alla natura e ai singoli fiori. Mi mancava fare foto per passione. Mi sento in colpa per ciò che sto facendo. Mentre Concetta inizia ad andare avanti senza di me, io mi inginocchio per fare una foto a un piccolo fiore nascosto vicino al sentiero che stiamo percorrendo.

<<Francesca!>>.

<<Huh?>> Mi alzo e la raggiungo.

<<Ho notato che io non so quasi nulla di te. Sì, insomma... tu non parli mai di te stessa>>.

Merda.

<<Non parlo mai di me stessa, ma perché non saprei cosa dire. Non c'è molto da dire su di me>>.

Il suo passo si fa sempre più accelerato e ci stiamo spingendo sempre più dentro al giardino. È possibile avere un giardino così grande in un paese così piccolo?

<<Beh... io penso che sia importante dire che in realtà ti chiami Evelyn, che sei nata a Londra, che stavi facendo uno scambio alla pari negli Stati Uniti e che...>>

Mi blocco. Sbianco.

Come ha fatto?

<<Come...?>>, sussurro.

<<Come lo so? Mio padre, la sera che ti ha lasciato dormire da noi, ha fatto dei controlli>>.

Merda.

Merda.

Merda!

Certo che hanno fatto dei controlli. Non sono arrabbiata perché lo capisco, ma questo rovina tutto quanto.

Cosa succederà adesso?

Mi cacceranno?

Probabilmente Concetta legge il panico nei miei occhi e perciò si avvicina a me. Dentro di me inizia a crescere il timore della violenza: e se mi volesse picchiare perché adesso sa la verità?

Mi siedo su una panchina trovata durante il percorso, in attesa di una frase scontata per cacciarmi via o per offendermi.

Ma mi abbraccia.

A quel punto iniziano le lacrime. Non so da dove siano uscite ma non smettono più. Decido di sputare il rospo e confidarmi con qualcuno per la prima volta.

<<Il mio vero nome è Evelyn Francesca Brooke. Sono originaria di Londra e sì, come hai detto tu ero negli Stati Uniti come ragazza alla pari frequentando la Brown University. Ero lì con la mia migliore amica... cioè ex migliore amica... o forse no. Lei si chiama Madison. Siamo praticamente cresciute insieme perché le nostre mamme sono migliori amiche. Una sera lei è riuscita a portarmi a una di quelle feste delle confraternite ed era ubriaca. Come si dice in latino: "in vino veritas". Effettivamente per me è stato così>>. Le racconto per filo e per segno cosa accadde quella notte e in quelle successive con James e mia madre.

<<Scusa se te lo chiedo, ma tuo padre dov'è?>>

<<Mia madre mi ha sempre detto che era un italiano ubriacone e che se ne è andato quando avevo tre anni. Di lui ricordo solo che adorava chiamarmi Francesca>>. 

<<Ma non avevi altre amiche a parte lei? Altre persone? Anche solo conoscenti>>.

Non so esattamente perché, ma le parlo del mio passato: di come ho sempre e solo avuto Madison intorno. Da piccola mi allontanavano tutti perché mi reputavano brutta. Non che con la crescita sia migliorata, però... alle medie sono arrivati i nomignoli più assurdi e offensivi che io avessi mai sentito. Alle superiori venivo definita 'strana'. Le spiego, però, che la maggior parte delle volte quell'aggettivo mi piaceva, mi faceva sentire un po' speciale. Tralascio tutto ciò accadeva quando Madison non era con me. Lei mi ascolta rapita e in silenzio per tutto il tempo. È la prima volta che parlo di me con qualcuno e perciò mi trema anche la voce. Parlare con lei mi fa sentire meglio e alla fine della mia lunga Divina Commedia mi dice: <<Ora siamo noi la tua famiglia. Lo sai che papà è anche avvocato?>>, ride.

Ci alziamo e continuiamo a camminare ancora un po' in silenzio, ascoltando il solo rumore della natura. A un certo punto, sentiamo grandi tonfi e davanti a noi si intravede un ragazzo che si sta allenando. Sarà della mia scuola? È a petto nudo: il sudore incornicia perfettamente il fisico da Dio greco. Indossa solo un paio di pantaloni neri che gli cadono perfettamente sui fianchi. Mentre continuo a salire, mi blocco.

Merda.

È il ragazzo con il cappotto dell'aeroporto. Mi nascondo imbarazzata, facendo più casino di quanto avessi immaginato. <<Grazie al tuo passo leggiadro, ci hai fatto beccare>>, commenta Concetta.

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