Capitolo 15

Salgo in macchina, cercando di raccogliere tutta la mia calma. Non dovevo perdere le staffe un'altra volta e non dovevo dare a Tremble la possibilità di incazzarsi di nuovo con me. Ma alla terza volta in cui ha finto di non vedermi sono proprio saltato su da solo.

E stavolta neanche c'è Hugo... In teoria mi sarei dovuto incontrare con Adrien, in pratica mi ha scritto per messaggio che deve saltare perché gli è sbucato fuori un incontro con una squadra per un altro giocatore. E io che speravo che avesse finalmente una buona notizia da darmi.

Ormai è una settimana che Alizée porta i suoi averi da Vivienne e Nicole, e io speravo che almeno una delle trattative che ha intavolato il mio agente sarebbe andata in porto.

Ora sono da solo nel tragitto verso casa e devo far sbollire la calma da me, senza la voce pacata e tranquilla di Hugo ad aiutarmi.

Per fortuna, però, interviene proprio Adrien, che mi telefona. Gli rispondo impostando il vivavoce.

«Scusami, sono riuscito a liberarmi adesso. Non dirmi che hai discusso di nuovo con il coach.»

«E invece sì.»

Tira un sospiro, ma non capisco se di dispiacere o rassegnazione. «Comunque, ho una buona notizia per te. Ho una squadra che va bene e che sono sicuro che ti piacerà: la Vulnus.»

«Non è in Italia?» Non sono neanche sicuro di ricordarmi con precisione come si chiama la città... Aveva un nome strano ma piacevole, come quelli delle fiabe.

«Sì, è in Italia. Ti vogliono, gli serve un'altra ala piccola che possa giocare anche da guardia. E poi...»

«Non fanno l'Eurolega, giusto?» Ricordo di aver visto delle loro partite, quando ero piccolo... Forse in passato sono stati un club importante.

«No, l'Eurocup. Ma hanno un roster da Eurolega. C'è Milinkovic che è un gran giocatore, Andrea Fabbriani che è tornato in Europa dall'NBA e hanno degli italiani interessanti, Longo e Palanca fanno parte della nazionale. Oltre al figlio di Tomic, che sta seguendo le orme del padre...»

Altro tasto dolente: non sono più in nazionale, perché l'anno scorso quello stronzo di Tremble non mi ha lasciato andare quando c'erano le finestre che si sovrapponevano all'Eurolega. E non mi ha neanche fatto giocare.

Ancora non so come ho fatto a resistere per tutta la stagione senza mandarlo a fanculo.

«Pareggiano il contratto che hai all'Asvel, per quanto riguarda i soldi... E hanno un progetto ambizioso, vogliono vincere l'Eurocup entro due anni e poi iniziare l'assalto all'Eurolega. Che dici, fissiamo un incontro per parlare con loro?»

Mi fermo a un semaforo. Essere protagonista in una squadra che vuole fare il salto di categoria è un buon modo per rilanciarsi, e mi darebbe grosse opportunità. Ma ho dei dubbi.

«Sei sicuro che faccio al caso loro?» Voglio avere la certezza di essere la persona giusta per la squadra in cui andrò. Visto che Adrien sta facendo un discorso molto approfondito, credo che per lui potremmo già chiudere la trattativa in questo momento.

«Nando Colucci ha chiesto proprio di te per rinforzare la squadra

Ferdinando Colucci. Lo conosco solo di fama, è un allenatore serio, è stato assistente in un paio di squadre di NBA, prima di tornare in Europa, prima come coach del Bayern e poi in Italia, alla Vulnus. Si era fatto il suo nome per allenare la Francia... forse per questo mi conosceva.

Sapere di avere la stima di un allenatore del genere è gratificante. Non è come tornare a giocare in Eurolega, ma di certo non mi lascerà in panchina a guardare gli altri, né fingerà di non vedermi durante le sedute tattiche. O durante le partite

Arrivo al parcheggio sotto il mio condominio, sistemo la macchina al solito posto e scendo. «Sì, allora va bene, fissa...»

Un pugno sulla guancia mi fa volare il telefono a terra. Non mi ero neanche accorto che ci fosse qualcuno ma, a quanto pare, quel qualcuno c'è.

Mi volto appena, quanto basta per vedere cinque tizi con il viso coperto che si avvicinano a me, aiutati dal semibuio della sera e dall'assenza di luce del parcheggio per dei guasti.

«Qualche problema?» chiedo, pacato. Anche se ho appena ricevuto un bel gancio, non voglio fare a botte. Dovevo aspettarmelo, Alizée mi aveva detto che suo padre aveva fatto qualcosa di simile a un altro ragazzo... Anche se nessuno dei tipi sembra avere il suo fisico.

Nonostante questo, non ho intenzione di alzare le mani contro di loro, piuttosto mi lascio picchiare.

«Sei tu il problema, amico.»

Uno dei tizi mi dà un altro pugno, stavolta all'altezza dello stomaco. Un paio degli altri mi bloccano le braccia dietro la schiena per impedirmi di muovermi, facendomi sbattere le ginocchia contro il cemento duro. Provo a divincolarmi dalla presa, e mi arriva uno schiaffo in pieno viso. Uno dei figli di puttana porta degli anelli, credo che mi stia uscendo del sangue.

Il dolore è lancinante, ma non emetto un suono. Ci manca solo che questi imbecilli mi vedano soffrire. Che saranno mai un paio di pugni e le ginocchia sbucciate?

Poi, all'improvviso, mi arrivano dei calci. Da tutte le parti, sul petto, sulla schiena, sulle gambe.

Non pensavo che fossero così vigliacchi, ma Alizée mi aveva avvertito. Eppure, da quando siamo usciti insieme la prima volta è passata una settimana e non abbiamo avuto alcun problema. Se dopo avermi pestato osassero toccarla, le dirò di venire a stare da me fino a quando non saremo partiti.

Resisto stoicamente, fino a quando non arriva un'automobile, forse uno degli altri inquilini del palazzo, e quei dementi si mettono in fuga, facendomi sbattere il viso a terra. Così vedo che uno di loro calpesta il mio cellulare. Stronzo.

«Ehi, che succede?» Riconosco la voce. Hugo. «Jérémy, stai bene?»

Mi tiro su e allungo un braccio dolorante per raccogliere il telefono. Lo schermo è andato, ma sembra funzionare. La telefonata con Adrien si è chiusa da sé, chissà se ha sentito.

Mi rimetto in piedi, anche con il suo aiuto. Mi fa male tutto.

«Ce la fai ad accompagnarmi all'ospedale?»

«Certo, andiamo.»

Il bistrot è pieno come non l'avevo mai visto, più degli altri anni, più dello scorso compleanno del vecchio André Lefort, che ha sempre portato una fiumana di clienti. Tutti i tavoli sono occupati e, oltra ai soliti avventori, ci sono suoi conoscenti di ogni tipo che mangiano pastarelle, fanno aperitivo o prendono un caffè.

I Lefort conoscono davvero una marea di persone, in questo mio padre non sbaglia – ma è l'unico punto su cui potrei mai concordare con lui.

«Stasera viene a prendere i maglioni che mi hai portato ieri» sta sussurrando Vivienne, mentre siamo entrambe alla macchinetta del caffè. «Non ci posso credere, andrai via da qui e non lo sa nessuno tranne me e Nicole!»

«Sh!» Per un istante mi fermo dal guardare il caffè che ricade nelle tazzine, per guardarla con il sopracciglio alzato dando le spalle ai clienti. «Per me è già un rischio solo così. E se...» Lancio un'occhiata a Pierre, che se ne sta al biliardo con i suoi compari, approfittando dei vecchi seduti attorno a un tavolino. «Se lui lo scoprisse?»

«Sarebbe un problema suo, tu comunque saresti lontana da qui... E con un gran bel ragazzo, che sta facendo di tutto per te.»

Sorrido, sognante. Siamo d'accordo nel trascorrere insieme la serata di domani, quando qui sarà tutto tranquillo, quando mio padre avrà allentato la pressione su di me dopo questa sera... E solo la prospettiva di ritrovarmi insieme a lui mi dà la forza per sopportare gli sguardi continui di Pierre.

«Poi voglio vedere i disegni, sono curiosa... Quello del tatuaggio non conta» mi anticipa lei.

Sistemo su un vassoio i bicchieri per gli aperitivi di quelle che credo siano le nipoti di André e lo porgo ad Axel, che fa sfoggio di tutte le sue abilità di equilibrista per portarli da loro integri e ancora colmi. Le ragazzine lo ringraziano ammaliate, senza capire che per lui è solo lavoro e che non sta flirtando con nessuna di loro.

«Andiamo lì a chiedergli come sta Marie?» ridacchia Vivienne, divertita. «Così quelle smettono di fare le galline.»

«Sarà di famiglia credere di avere il mondo ai propri piedi» commento invece io, spiando Pierre, che si sta muovendo intorno al biliardo. Scherza con un ragazzo, forse un parente o amico di vecchia data, e per un istante incrocia lo sguardo con il mio.

Gli rivolgo una smorfia disgustata, mentre Axel ripone il vassoio vuoto di fronte a me.

«Prima o poi la smetterà di fissarti come se fossi un bombolone alla crema» dice lui, infastidito quanto me. «Oppure lo minacciamo di farlo pestare da Luis se non la pianta.»

«Non credo che le minacce servirebbero» ammetto, con un filo di malinconia. Axel e Luis non sanno che è solo questione di giorni, prima che gli sguardi famelici di quel carciofo – come lo chiama Jérémy – diventino un flebile ricordo.

«Avete finito di chiacchierare, voi due?» chiede mio padre, sbucando dal laboratorio. «Tra poco è il momento della torta» bisbiglia, parlando con me. «Quindi quando la portano, tu approfitta delle luci basse e vai nel retro a recuperare una bottiglia di quel Petrus che comprato apposta, sai quanto ci tenga Pierre, mi ha detto di prenderlo mesi fa per oggi... Ed è una sorpresa, stai attenta a non farti notare quando sparisci!»

Annuisco, ubbidiente. Non vedo l'ora che Jérémy trovi una squadra, per non sentire più lui che parla di Pierre e per non dover più fare nulla che lo riguardi. Nel frattempo, può credere che sia diventata più docile e facile da controllare, visto che è così stupido da cascarci.

Ma il nipote del festeggiato, ora, sta guardando dritto verso di me, bevendo un po' del cocktail che gli ha portato Axel.

Vivienne lancia un'occhiata all'orologio sulla parete. «Sono quasi le sette, è ora.»

Le faccio un cenno di assenso e, appena si spengono le luci, filo nel laboratorio e arrivo nel retro del bistrot, a prendere quella stramaledetta bottiglia. La trovo nel ripostiglio del laboratorio, uno spazio angusto pieno di scaffali in ferro. È riposta in una custodia di legno scuro, come un cimelio antico.

Sono tentata di romperla e dire a mio padre che non c'è, ma non è fattibile. Dove potrei nascondere la bottiglia rotta senza che la trovi? Senza contare che questa bottiglia ci è costata quasi cinquemila euro... Sarei io in prima persona a dover ripagare il danno, anche se forse non posso ripagare un danno senza possedere i soldi.

A meno che mio padre non mi costringa a turni extra qui per compensare o che mi privi di una delle solite "serate film" con Nicole e Vivienne – e il pensiero che possa controllarmi ancora una volta mi fa desistere dalla ribellione.

E, poi, non potrei rompere tutte le cinque bottiglie che Pierre ha ordinato tramite mio padre: il fracasso attirerebbe gli altri e, nonostante la protezione di cui godo solo per essere la prediletta del nipote di André, rischierei che davvero mio padre alzi le mani su di me. Quasi ventimila euro di danno sarebbero un grosso colpo al suo autocontrollo.

Peccato, avrei rovinato la serata ai Lefort e a mio padre.

Apro la custodia, e mi soffermo a guardare il liquido scuro all'interno della bottiglia. Chissà che sapore deve avere, chissà perché una semplice bevanda può arrivare a costare così tanto... Ma come si fa a spendere così tanto per un litro di vino?

«Eccoti qui, allora.» La voce glaciale di Pierre mi richiama alla realtà. Si richiude la porta alle spalle scalciandola con il piede. Sulle labbra ha un sorriso perfido. «Ti piace il Petrus?»

Cerco di non ridergli in faccia. Quando avrei potuto assaggiarlo? «E che ne so. Spostati, devo portarlo a tuo nonno.»

Sfila la custodia dalle mie mani e la ripone su uno scaffale. «Non c'è fretta, sta tagliando la torta. Si è intestardito nel volerlo fare lui... e ci metterà un po'.» Gli occhi azzurri saettano in direzione dei miei. «Così abbiamo un po' di tempo per noi.»

«Tempo per noi?» gli chiedo, sarcastica. «Temo di non essere stata abbastanza chiara. Non c'è nessun "noi". Io non starei mai con te.»

Prima che possa rendermene conto, mi blocca i polsi dietro la schiena e avvicina pericolosamente il suo viso al mio, il suo corpo al mio. «Vuoi scommettere?» Mi lega le mani con qualcosa e in un secondo momento mi rendo conto che non indossa più la cravatta.

Provo a scostarmi da lui, ma l'unico risultato è quello di finire contro il muro, braccata e legata. Si struscia su di me, portandomi a sentire l'indurimento nei suoi pantaloni.

«Che stai facendo?» gli chiedo, alzando la voce.

«Grida quanto vuoi, ma non ti sentiranno. Ho alzato il volume della musica e c'è anche il laboratorio di mezzo.» Mi copre la bocca con la mano, mentre con l'altra mi solleva la maglia e inizia a baciarmi lungo la scollatura del reggiseno.

Sono disgustata, ma impotente. Cerco di scostarmi come posso, ma Pierre mi è addosso e non sembra avere la minima intenzione di allontanarsi da me. Provo a mordergli la mano che mi impedisce di parlare, inutilmente. Non riesco ad aprire le labbra, e lui si scalda ancora di più.

«Alizée!» chiama una voce femminile. Nicole.

Pochi istanti dopo la porta del ripostiglio si apre e lei e Luis irrompono. Il pasticcere si avventa su Pierre e lo scaraventa a terra, mentre mia cugina mi libera i polsi.

«Non capite niente, a lei stava piacendo!» protesta il Lefort. Ora sembra così piccolo, sotto l'ombra di Luis che incombe su di lui, eppure è ancora pregno di quell'atteggiamento tronfio e sicuro di sé che lo rende tanto odioso.

Mi ricompongo subito, abbassando la maglia. Non gli era bastato provare a baciarmi e toccarmi contro la mia volontà, voleva anche prendermi con la forza?

No, sono io a decidere con chi voglio stare.

«Vorrei tanto che tu non fossi un riccone schifoso» gli dico, raccogliendo tutto il mio coraggio. Il coraggio con cui decido di essere libera. «Solo allora capiresti che non sei niente. Senza il tuo conto in banca non sei niente.»

Mi guarda e una luce sinistra gli illumina il viso. «Ti renderei felice. Nessuno a parte me può farlo, nessuno potrà più.»

All'improvviso, mi sento mancare il pavimento sotto i piedi. Jérémy... che gli abbia fatto qualcosa?

Luis gli assesta un pugno sul viso talmente forte che Pierre rimane a terra, svenuto.

«E ora che facciamo?» chiede Nicole. «Zio sta aspettando che portiamo il Petrus!»

Non bado a cosa dicono lei e Luis, perché prendo il telefono dalla tasca. Apro la chat con Jérémy, scoprendo che non accede da un paio d'ore. Forse è all'allenamento? O forse, peggio, gli è successo qualcosa?

"Dimmi che stai bene" digito in fretta e poi unisco le mani davanti al viso, come se stessi pregando. «Ti prego, ti prego, ti prego...» mormoro, non rivolta a nessuno in particolare. Non potrei mai sopportare se gli avessero fatto del male.

«Zézé, andiamo» mi richiama Nicole.

Seguo lei e il pasticcere prima nel laboratorio, poi nei locali pubblici della Marée, con il pensiero fisso a Jérémy. Luis ha portato Pierre in braccio e lo sento dire agli astanti che era venuto con noi per prendere una sorpresa per il nonno e che era svenuto perdendo i sensi, cosa che Nicole conferma.

Qualcuno chiede anche a me, ma io sono scossa.

«Guarda com'è turbata» commenta mio padre. «Lei e Pierre sono molto legati...»

Cerco di non tremare raggiungendo di nuovo il laboratorio. Stavolta non ho paura nel rimanere da sola, perché quello stronzo ora è privo di sensi ed è sotto le attenzioni di tutti. A fatica, riesco a estrarre il cellulare dalla tasca e a cliccare sulla rubrica e sul numero di Jérémy.

Gli squilli vanno a vuoto, non mi risponde.

Non mi risponde.

Non mi risponde e io mi sto detestando per non avere neanche un contatto tra le sue conoscenze. Come faccio a sapere che è tutto a posto, che sta bene, se non riesco a contattarlo?

«Stai bene?» Vivienne è comparsa sulla soglia, il viso corrucciato.

Scuoto la testa, senza riuscire a emettere un suono. Mi stava violentando, quel bastardo mi stava prendendo con la forza, e se non fossero intervenuti Luis e Nicole...

Faccio partire un'altra chiamata, l'ennesima. «Controlla» le dico, indicando la porta.

Lei si volta alle spalle e fa cenno a qualcuno di raggiungerci. Axel si unisce a noi, chiudendo l'uscio a chiave. Se mio padre o Pierre provassero a entrare, dall'esterno non ci riuscirebbero.

Il mio tentativo di sentire la voce di Jérémy fallisce come i precedenti.

«Non... non mi risponde» dico, in un soffio.

Vivienne si siede su uno sgabello accanto a me, mentre Axel si appoggia al tavolo di lavoro di lato, con le braccia incrociate al petto.

«Jérémy?» mi chiede lei.

Annuisco, con una lacrima che mi riga la guancia. Sono preoccupata, ora mi sento più braccata di quanto lo sia stata nel retro alla mercé di quel viscido.

Axel prende il telefono e cerca qualcosa. Deve averlo trovato, perché mi mostra lo schermo: delle storie di Instagram, dalla pagina ufficiale dell'Asvel, in cui si vede la squadra che si sta allenando.

«Eccolo qui.» Mi indica un punto in cui si vede chiaramente Jérémy. Riconosco i tatuaggi sul braccio su cui spiccano le tre J intrecciate, e solo questo mi fa tirare un sospiro di sollievo. «Il video è di mezz'ora fa, Pierre non può avergli fatto niente perché era qui. Non ti risponde perché si starà facendo la doccia o cambiando» ipotizza.

«Sì, è possibile» concordo. Mi sento più alleggerita, anche se questo non significa che non starò in ansia fino a quando non avrà risposto almeno al mio messaggio.

Circa un'ora dopo i festeggiamenti del vecchio Lefort si concludono – con Pierre che viene portato via dai genitori perché si riposi un po' – e così anche noi torniamo a casa.

Mio padre continua a parlare del "povero Pierre", senza rendersi conto di quanto io sia preoccupata. Continuo a guardare febbrilmente il telefono, in attesa di un messaggio, un segno divino che mi dica che Jérémy sta bene e che domattina lo rivedrò al bistrot. Come sempre.

Spazio autrice

Non vedevo l'ora di arrivare a questo capitolo, visto che le cose si fanno più movimentate.  Vi chiedo tantissimo scusa, avrei dovuto pubblicare ieri il capitolo ma tra una cosa e l'altra non ho avuto il tempo di farlo.

Spero che anche questa volta mi perdoniate e che, soprattutto, vi piaccia!

Baci a tutti,
Snowtulip.

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