Capitolo 1

Qualche mese dopo

Mi asciugo una goccia di sudore, dopo il secondo allenamento di giornata. Abbiamo fatto una partitella cinque contro cinque e ho messo a segno ben cinque triple, oltre a un paio di contropiedi che ho concluso schiacciando a canestro. Mi sento soddisfatto e so che mi sto allenando bene, anche se quello stronzo di Tremble non lo vede.

«Bravo, questa stessa cattiveria mi serve quando entri» mi incoraggia, con un ghigno falso, dandomi una pacca sulla spalla. Anzi, su una scapola, visto che non arriva alla mia spalla.

«In che senso "quando entro"?» gli chiedo. Abbiamo giocato con i quintetti misti, e pensavo che ormai, dopo tanto duro lavoro, fossi pronto per giocare titolare! Mi sto facendo il culo da mesi per poter partire in quintetto!

«Nel senso che ti ho detto, Arnaud.» Mi rivolge ancora quel sorrisetto fastidioso che mi fa venire voglia di prenderlo a pugni. Ed è tutto dire, considerando che sono contrario alla violenza.

«No, quello che mi ha detto mesi fa era che mi sarei dovuto impegnare di più» lo correggo. Dentro mi sento montare una rabbia che non riesco a provare con nessun altro. Mi ero lasciato convincere da lui e dalla possibilità concreta di giocare titolare in Eurolega. E invece? Invece le sue sono solo un mucchio di promesse non mantenute. «E mi sto impegnando, sto correndo per cinque, lotto su ogni maledetto pallone, quando entro sono quasi sempre decisivo e non basta?»

«Per partire in quintetto? No, devi fare di più.»

I compagni stanno rientrando negli spogliatoi, ma Hugo Fournier è rimasto a provare i tiri liberi, così come un altro paio di ragazzi. Il rimbombo dei palloni riempie la palestra, ma non è niente in confronto al mio battito forsennato che mi riscuote da dentro, tra la fatica dell'allenamento e il livore che solo quest'uomo riesce a suscitarmi.

«Più di così?» Alzo la voce, non mi importa – per quanto cerchi in ogni modo di non far trasparire tutta la mia rabbia. Vorrei un confronto sincero, almeno una volta.

«Sì, più di così!» grida Tremble. L'espressione del suo viso è mutata repentina, con delle rughe che gli solcano la fronte e quegli stupidi capelli tenuti insieme con il gel come se fosse uscito da Grease che sembrano spettinarsi dal nervoso. Lui è innervosito? Sapesse quanto lo sono io...

«Lei non mi sta rispettando» gli dico, cercando di mantenere il tono più calmo che posso. «Mi sto allenando duramente da un anno, anzi da più, se consideriamo la mezza stagione prima. Perché non vuole dirmi che cosa devo davvero fare per entrare nei titolari? O perché non vuole dirmi che sono uno che dà il meglio quando subentra?»

Lo accetterei quasi di buon grado se mi dicesse che il mio ruolo all'interno della squadra è quello. Mi starebbe bene, ma deve dirmelo. Quello che fa da un anno e mezzo è dirmi di impegnarmi per partire titolare: non sono io a inventarmi le cose, è lui.

Tremble si infiamma, il viso gli diventa paonazzo e potrei quasi vedere la vena del collo che si gonfia. Mi punta il dito contro, tutto distorto dal furore. «Perché io ti ho già risposto e non ti devi permettere di parlarmi così!»

«Io non mi devo permettere?» Torno ad alzare il tono, che ero riuscito a tenere a bada con una fatica immensa. Mi fa innervosire, pretende di avere ragione e non mi ascolta. Non ascolta nessuno... mi meraviglio che dia retta almeno ai suoi collaboratori, questo imbecille. «Cerco di stare calmo più che posso, ma lei non mi tratta come un giocatore di cui si fida. Che altro devo fare?»

«Devi smettere di mettere in dubbio le mie rotazioni, sono mesi che lo stai facendo? Vuoi allenare tu al posto mio? Vai, divertiti, in Eurolega ci stai tu a dirigere la squadra e io mi metto in tribuna con un sacchetto di patatine! Così puoi farti giocare quanto cazzo vuoi!»

«Io non voglio essere al suo posto, voglio migliorare e voglio capire come farlo!»

«Devi fare quello che ti dico io!»

«E che sto facendo?»

«Stai mettendo in dubbio la mia parola, davanti agli altri giocatori!»

Ma davvero? È serio? Vuole solo degli automi che vanno in campo e che non possano mai dire la loro opinione? Ecco perché mi detesta, perché non mi sono mai fatto alcun problema a parlare...

«Va bene, se l'andazzo è questo io me ne vado.» Mi volto e mi dirigo verso gli spogliatoi, da cui stanno uscendo alcuni dei ragazzi. Eric Pommer scuote la testa, come a dirmi che è inutile discutere con Tremble. Ma a lui che importa? È il centro titolare, non è mai stato messo in dubbio neanche nei periodi in cui è stato sottotono! Neanche quando l'anno scorso ha fatto un disastro dietro l'altro quando abbiamo giocato i playoff di Eurolega contro il Fenerbache. E abbiamo perso anche grazie a lui!

Io, invece, grazie a quel gran coglione che risponde al nome di Roland Tremble, sono rimasto in panchina a guardare per tutti i quaranta minuti.

«Se te ne andassi, faresti un favore a tutti quanti!» sbraita lui, che mi ha raggiunto nello spogliatoio.

«Non si preoccupi, non dovrà sopportarmi a lungo» replico, atono. Finisco di cambiarmi, recupero il mio zaino e lascio il centro di allenamento.

Vado alla mia macchina, ma poi rimango dentro per aspettare Hugo. Abita allo stesso palazzo dove abito io, quindi per noi è stato normale venire insieme agli allenamenti sin dal primo giorno.

Quello stronzo mi sta facendo imbestialire, riesce a tirare fuori il peggio di me. Detesto alzare la voce e litigare, ma con lui è inevitabile. Doveva essere chiaro mesi fa che dovevo andarmene... Non so perché mi sia trattenuto qui per tutto questo tempo, né perché lui non mi abbia cacciato prima.

Forse solo perché è una delle squadre migliori di Francia e lui mi aveva promesso di aumentare il mio minutaggio in Eurolega. Si è visto come l'ha aumentato... Quel bastardo me l'ha addirittura diminuito.

«Fanculo» commento tra me e me. Ci mancava solo un'altra discussione, con il rischio che se lo stronzo lo dice in giro, mi mette in cattiva luce con altri allenatori o altre società. Se lo facesse, perderei la poca lucidità che ancora mi impedisce di non fare stupidaggini colossali. Anche solo urlargli contro per me lo è.

Hugo mi raggiunge e prende posto accanto a me. «Dovresti stare più calmo. Lo sai che detesta quando qualcuno gli dà contro.»

«Non sono un soldatino ai suoi ordini, sono un giocatore di basket che vuole arrivare ad alti livelli. E lui mi aveva promesso che li avrei raggiunti» puntualizzo, partendo. So già dove andrà a parare il suo discorso, cioè al fatto che non devo farmi prendere dalla smania di giocare, che devo stare tranquillo, che se proprio mi rode il culo a stare accanto a quell'imbecille, devo andare nella prima squadra che mi fa un'offerta decente. «E poi perdo la calma solo con lui. Non sono un matto che si incazza senza motivo, è lui che mi fa passare per uno squilibrato con il suo atteggiamento.»

Hugo tira un profondo sospiro, come se capisse che non c'è nulla da fare e che la scintilla tra me e Tremble non è mai scoccata. E che questo anno e mezzo insieme è stato come una coabitazione forzata per entrambi.

«Mi ha convinto lui a venire all'Asvel» continuo a dire, visto che lui non sembra affatto persuaso. «Avevo un altro paio di offerte, ma mi ha detto che sarei stato sempre più centrale nel progetto. Come no. Mi danno fastidio le persone che promettono senza mantenere... Non solo non ha mantenuto, ma ha fatto marcia indietro, togliendomi sempre più dal fulcro del gioco.»

«Senti, non è uno stupido, ci sarà un motivo se lo fa.»

«Lo fa perché è stronzo, non per altro.»

«Jérémy, stai attento, perché rischi di farti una cattiva fama.»

«Cattiva fama? Ho mai litigato con qualche altro allenatore?»

Arrivo al parcheggio sotto il nostro palazzo e parcheggio l'auto al solito posto.

Hugo picchetta con le nocche sul finestrino. «Che io sappia no, sei un tipo tranquillo. Ma a farsi una nomea sbagliata ci vuole pochissimo... Lo dico per te, chiama il tuo agente e chiedigli di trovarti una squadra il prima possibile.»

«Ieri ho avuto un primo incontro conoscitivo con Ulm» ammetto, prima di aprire la portiera e scendere dal mio lato, mentre lui fa lo stesso dall'altro. «Ma non è andato molto bene, non mi hanno convinto. E dire che voglio andarmene, ma non riesco a trovare una squadra per cui mi viene da dire "è quella giusta".»

«Guarda che è solo una squadra, non la donna della tua vita!» ride Hugo, ora più leggero, mentre ci avviamo all'ascensore.

Scendo al mio piano e mi rendo conto di una cosa. Finora non sono stato razionale nel rifiutare le squadre, perché il mio criterio era la sensazione che provavo durante le videochiamate o nei contatti telefonici con allenatori o dirigenti. Ma, nella parte più profonda di me, ora sento che non si trattava di questo. Forse a frenarmi davvero è il pensiero di non vedere più Alizée.

«Allora?» Pierre picchetta le dita sul bancone, infastidendomi. Ma la sua voce mi infastidisce ancora di più. Per non parlare della sua domanda.

«Allora cosa?» gli chiedo, fingendo di essere stata distratta e di non averlo ascoltato con attenzione.

«Che fai stasera?»

Ah, ora l'ha presa più alla lontana...

«Niente, ceno, vado a letto presto e dormo, visto che domattina devo aprire alle sei.» Spero che la mia risposta seccata l'abbia messo a tacere, ma ne dubito. Passo un panno umido sul bancone per togliere alcune briciole, ignorandolo quanto più possibile.

«Avevo intenzione di passare una bella serata in un bel ristorante con una bella ragazza» ammicca.

«Chiedi a Vivienne» replico. Incrocio lo sguardo di mio padre, che sta scaricando alcune paste nella vetrina, e lui inarca il sopracciglio in disapprovazione. Non mi interessa cosa ne pensa, io non vado a cena con Pierre e non ci andrò mai in tutta la mia vita. Mi sta appiccicato come un mollusco di cui vorrei liberarmi, ma più ci provo più lui invece lo trattiene e lo invita a tornare presto – oltre al servirlo e riverirlo come se fosse il sovrano e signore della Marée du Jour.

Non ne posso più.

«Non era proprio a lei che pensavo» commenta Pierre, con un sorriso sfacciato.

Lo ignoro e vado a servire gli aperitivi a due ragazze che stanno chiacchierando e ridendo tra loro. Per poco non rovescio tutto, nervosa come sono: mi sento i suoi occhi addosso, sento che mi sta fissando e non posso fare niente per impedirglielo.

Infatti mi volto e lui è appoggiato al bancone e finge di avere lo sguardo perso nel vuoto. Ma io so che l'aveva puntato su di me. Ma non si vergogna a fissarmi come un maniaco?

Cerco di ignorarlo per tutta la serata, nonostante la sua presenza sia addirittura più ingombrante di quella del biliardo.

Appena arrivo a casa, filo in camera a cambiarmi e mi butto sul letto. Vorrei abitare da sola, invece che ancora con i miei. Se da un lato mi mancherebbe il profumo della cucina di mia madre, dall'altro continuo a sentirmi in prigione... E il fatto che mio padre trattenga la paga per darmela tutta insieme come dote per quando mi sposerò non aiuta affatto.

Non mi sento neanche incentivata a sposarmi, visto che lo farei solo per utilità e senza provare dei veri sentimenti. In ogni caso, non avrei tempo di coltivarli, visto che mi viene impedito di vedere qualsiasi ragazzo nonostante sia abbastanza grande da poter prendere da me le decisioni che mi riguardano.

Ventiquattro anni ed essere trattata come una che ne ha quattordici.

E mia madre, che non prende mai le mie difese... Nemmeno l'odorino invitante che si insinua sotto la porta ed entra in camera riesce a far sì che la perdoni per ogni singola parola che ha taciuto. Per ogni volta in cui ho cercato il suo sguardo, la sua comprensione, senza ricevere niente.

Mi rigiro nel letto cercando di prendere sonno, inutilmente, quando qualcuno bussa alla porta chiusa. La chiudo sempre, mi fa sentire al sicuro, come se tutto quello che c'è fuori restasse lì e non avesse modo di entrare e di invadere la mia piccola tana.

«Alizée, sei sveglia?» Mio padre dev'essere tornato dal bistrot.

Non rispondo, sperando che pensi che sono addormentata, ma lui verifica di persona, così apre e mi trova con gli occhi spalancati. Non posso neanche chiuderli di corsa e fingere di dormire.

«Cosa ti è saltato in mente?» mi chiede, con tono minaccioso. «Se Pierre ti invita a cena fuori, tu accetti, capito?»

«No, se lui non mi interessa» rispondo, pacata.

«Invece sì, lui sarebbe ottimo per gli affari, ci porterebbe tanti clienti e aiuterebbe la Marée ad avere una clientela più alta...»

«Se ci tieni tanto, puoi chiedergli di farlo ora, no?» lo interrompo, ma non mi interessa sentire per l'ennesima volta che Pierre è di famiglia facoltosa, che ha conoscenze influenti e blablablà. Non cambia l'opinione infima che ho di lui.

«Non ti permettere di interrompermi!» La vena inizia a pulsargli lungo il collo. «Avevamo un debito gigantesco, e la sua famiglia ci ha fatto un prestito generoso, quindi non puoi permetterti di trattarlo a quel modo!»

«Quale modo? Ho solo detto che non voglio andare a cena con lui!»

«Non devi rifiutarlo!» Il suo volto è livido per la rabbia. Per un secondo, un lunghissimo secondo, ho il terrore che mi prenda a schiaffi. Ma, se lo facesse, non potrei nascondere il segno, visto che con la fede mi lascerebbe una traccia sulla guancia. E il mio viso è una delle ragioni che attirano i clienti.

Non sono ipocrita, so che specula sulla mia bellezza per gli affari. E ho il vago sospetto che abbia un accordo con la famiglia di Pierre – se non direttamente con lui in persona – che prevede il mio matrimonio con il rampollo Lefort a patto che loro risanino tutti i buchi di bilancio e gli permettano di portare avanti il bistrot.

«Io non voglio sposare Pierre, né voglio uscire con lui. Non mi interessa.» Lo specifico, provo a essere calma e pacata, perché l'ultima cosa che voglio è che dia in escandescenze. Posso tenere la situazione sotto controllo e impedire che dia di matto. Una volta ha preso il muro a pugni, pur di non colpire me: c'è ancora il buco nella parete, ritoccato alla bell'e meglio e coperto da un quadro.

«Invece è proprio quello che farai, quindi inizia a trattarlo con il rispetto che merita.»

Non ci penso proprio.

«E inizia ad accettare i suoi inviti a cena, vedrai che ti tratterà bene.» Non mi dà modo di replicare, perché esce dalla mia stanza, sbattendo con forza la porta alle sue spalle, facendomi saltare sul letto.

Solo una volta che è uscito, mi lascio andare a un profondo sospiro. Ascolto se arriva qualche suono strano, ma per fortuna sento solo quello dei suoi passi e poi, come ovattato, quello della doccia.

Mi porto una mano sulla fronte, spostando una ciocca di capelli.

Cinquantanove. Sono cinquantanove le volte in cui Pierre mi ha chiesto di vederci fuori dal bistrot e finora ho sempre rifiutato. Quanto ancora potrà andare avanti? Capirà mai che non ho la minima intenzione di lasciarmi usare come un oggetto per il loro stupido accordo?

Considerando tutta la sfacciataggine con cui continua a insistere, direi di no.

Mi rigiro un'altra volta sotto le coperte, ritrovandomi a guardare il riflesso della luna che si riflette sul pavimento.

Sarebbe bello, un giorno, raccogliere tutto il mio coraggio, radunare le mie cose in uno zaino, fingere di andare a dormire da Vivienne e poi invece prendere il tram che porta al centro di Lione, raggiungere la stazione e da lì salire su un treno per fuggire via da qui. Prenderei il primo per Parigi, uno che non faccia fermate, il più veloce che ci sia.

Mi farei anticipare i soldi dai ragazzi, sia per il treno sia per trovare il posto in cui dormire per i primi tempi, in attesa di trovare un lavoro. Sono brava come barista, di sicuro anche a Parigi ci sono dei locali che avrebbero bisogno di me. Dei locali che mi pagherebbero quanto basta per avere una stanza da qualche parte, magari nelle case che si affittano agli studenti, come scrivono nei romanzi, e lì potrei mischiarmi con loro, forse studiare davvero, e nascondermi da mio padre, così che né lui né Pierre possano mai trovarmi.

Ma di quanti soldi avrei bisogno? Potrebbero Nicole, Vivienne, Axel e Luis coprirmi le spese? O sarebbero costretti a fare dei sacrifici per salvarmi? Voglio davvero che sacrifichino parte del loro stipendio per me? Con Nicole che deve badare a zia, caduta in depressione da quando mio zio è morto in quell'incidente? Con Vivienne che si sta pagando gli studi? Con Axel che sta risparmiando per poter comprare casa e sposare la sua ragazza? Con Luis che deve mantenersi da solo visto che la sua famiglia è a Nizza?

Non potrei mai azzardare una richiesta simile, non so quanto ci vorrebbe per ripagarli... E non posso nemmeno sparire all'altro capo di Villeurbanne, perché mio padre riuscirebbe a trovarmi. Non è quello che ha fatto quando sono uscita con Thomas? Quella volta ci eravamo spinti addirittura all'interno di Lione!

Solo il pensiero di quello che gli è successo mi fa salire le lacrime e mi toglie il desiderio di prendere quel treno per la capitale, di svanire tra la folla e perdermi tra gli altri. Mi tarpa le ali, come se non potessi mai essere libera.

Spazio autrice

Con questo capitolo conosciamo un po' meglio i nostri due protagonisti. Cosa pensate di loro? (Spero che vi piacciano *-*)

E, soprattutto, quanto già odiate Pierre?

Ditemi cosa ne pensate, le vostre opinioni sono preziose <3

Buon finesettimana e baci a tutti,

Snowtulip.


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