9. Places Where We Are

"Was I the only one ready to fight for us?
'Cause on my own I'm left in dust".

La sua voce mi suona familiare, calda. Come quando si è stati lontani da casa per troppo tempo e, nel momento in cui si ritorna, si è sopraffatti dalle emozioni e dalle sensazioni. Perché, magari, mentre si è via non lo si realizza: si ha altro da fare, altro a cui pensare - svaghi, impegni. Quando si torna, però, quando si ha davanti ciò che ci si è lasciati dietro e di cui si è inconsapevolmente avvertita la mancanza, lì viene il bello. C'è chi piange di gioia, per esser ritornato alle proprie origini. E chi piange perché si sente in colpa, per non aver patito una mancanza così prorompente e lacerante. Perché è solo quando ci si interfaccia con ciò che si è perso e, in cuor proprio, si è consci del fatto che lo si perderà di nuovo, che ci si avvilisce. Ci si sente come se il mondo ci stesse cadendo addosso. Ed è quello che io provo ora. Presa da tutto ciò che avevo da portare a termine, da compiere, qui e durante il mio viaggio, non ho pensato a Evan. Non ho pensato a come deve essersi sentito lui, quando l'ho piantato in asso il giorno del suo compleanno; quando ho distrutto con poche parole tutto quello che avevamo costruito in due anni; quando, non contenta, gli ho fatto intendere che sarei andata da un altro. Un altro di cui non gli ho mai parlato, di cui non ha mai saputo l'esistenza: perché Peter è una cosa mia, e non ho mai voluto condividerla con nessuno. Eppure ora è strano. È diverso. Perché ora, ad ascoltare Evan parlare - anche se non ha ancora detto niente, ha solo pronunciato il mio nome -, ho il pressante desiderio di piangere. Non so darmene una ragione, ma gli occhi mi si riempiono di lacrime. Ma con che coraggio sto facendo questa telefonata, dopo tutto quello che gli ho detto? Gli avevo promesso che sarei tornata, ma lo sapevamo entrambi che non era vero. Il punto è che ora l'ho chiamato. Ed è un po' come se fossi tornata da lui. E non vorrei illuderlo, perché non me la sento, di tornare con lui. Per rispetto di lui, innanzitutto, e per coerenza. Non è che, ora che è "finita" - se è mai cominciata - con Peter, corro dritta tra le sue braccia. Non posso fargli questo. E non posso farlo neanche a me. Ho appena perso il mio cuore, in una battaglia che credevo di poter vincere in partenza, ma durante la quale ho, invece, fallito miseramente. Come posso pretendere, allora, di poterlo donare a qualcun altro, se non ne posseggo più uno? Non sto nemmeno pensando alla possibilità di intraprendere un'altra relazione: è un'opzione che non è proprio contemplabile. So che a tutto c'è rimedio e che tutto si supera, con il tempo, ma non so se io potrò mai superare quello che è successo con Peter. Non so se potrei mai andare oltre. È qualcosa che mi ha segnato a tal punto, che non credo proprio che passerà tanto facilmente. Una parte di me vorrebbe ardentemente poter cancellare tutto, vorrebbe che ci fosse un tasto di reset che mi rispedisca indietro e depenni Peter dai miei ricordi e dal mio cuore. Come è successo sei anni fa, quando il trauma della perdita mi aveva addirittura spinta a dimenticare il suo nome e il suo viso. Tuttavia, un'altra parte di me, quella maggiore e più estesa, non desidererebbe scordare Peter neppure per tutto l'oro del mondo. Sarebbe come amputarmi un arto o fare a meno di un organo vitale. Non penso esista modo migliore per rendere il concetto.

"Ehi... Sei ancora lì?" si informa, cauto e attento, siccome sono rimasta in silenzio più del dovuto, dopo aver proferito il suo nome.

"Sì, scusa, è che..." principio, ma mi blocco pochi secondi dopo, non sapendo come giustificarmi in maniera ragionevole.

Per di più mi si incrina la voce, come se non bastasse, e non sono in grado di articolare un discorso sensato. E, senza avere il controllo delle mie azioni, tutta la tensione, la pressione, la sofferenza, accumulate durante questi cinque giorni di mutismo e passività, sfociano in un pianto isterico. Non volevo questo. Non volevo piangere e fargli pena. Non avevo in programma un discorso da fargli, ma di certo non volevo farmi compatire.

"Non piangere, principessa. È successo qualcosa di grave?" domanda, con premura, e ciò non fa altro che farmi singhiozzare maggiormente, specie per il nomignolo solo nostro che aveva deciso di affibbiarmi tempo fa.

Ringrazio il cielo che quei tre siano usciti, stamattina presto, e che ancora non siano tornati. Oggi Colin mi ha fatto una sfuriata, e si è incazzato a morte, perché non mi sono ancora decisa a rivolgere loro la parola. Sono usciti per protesta, perché il mio migliore amico ha stabilito che, se volevo comportarmi da bambina e non reagire, allora mi avrebbe lasciata sola, così da capire cos'è la vera solitudine. So che voleva spingermi a confidarmi con loro, con quel gesto, e che voleva che li pregassi di restare, che lo ha fatto per provocarmi. Ma non ho battuto ciglio, quindi sono usciti per davvero. Se Colin sapesse che la prima persona con cui ho "dialogato" dopo cinque giorni di silenzio è stato Evan, e che l'ho preferito a lui, non oso immaginare come reagirebbe.

"Celeste, mi stai facendo preoccupare. Vuoi... vuoi che venga? Devi solo dirmi dove sei" mi rassicura, incerto e titubante, lasciando a me la facoltà di scegliere.

Questa sua costante apprensione, gentilezza, questo suo essere sempre perfetto sotto ogni punto di vista, quando ha a che fare con me, non fa che farmi sentire peggio. Perché io non la merito, una persona come Evan, e mai l'ho meritata. Io merito qualcuno come Peter: che giochi con me e con i miei sentimenti come con una palla da basket, e che poi mi lasci a marcire in un cantuccio quando si è stufato. Non si può scegliere chi amare, è vero. Ma, in un'altra vita, mi chiedo come sarebbe stato amare Evan. Se sarebbe stato tutto più semplice. Ed è vero che dicono che, quando è tutto una passeggiata, non c'è sfizio, e che non è amore, però un po' di pace me la sarei voluta godere anche io. Peter mi ha sfinita. Mi ha prosciugata. Mi ha sfibrata. Come se fossi stata nell'occhio di un ciclone per tutto questo tempo, e ora ne sia uscita scombussolata e frastornata. Perché lui per me è questo: chi che può rendermi al contempo la persona migliore e peggiore del mondo. E che può farmi provare le migliori e le peggiori sensazioni del mondo. Evan no, invece. Evan è pacato, pacifico. Evan ha tanto amore da dare: ha solo trovato la persona sbagliata a cui indirizzarlo. Meritava di meglio. E percepisco lo sconforto assalirmi, quando mi rendo conto di avergli fatto sprecare due anni della sua vita dietro a una ragazza incostante, che non lo ha mai amato come si deve. Però a lui ci tengo. Più di quanto io sia disposta ad ammettere, più di quanto io sia disposta a riconoscere. Per cui è "Sì", la risposta a malapena accennata che fornisco al suo quesito, annuendo solennemente, tra le lacrime.

×××

Non c'erano voli disponibili per San Francisco, oggi, ma Evan ha trovato un'offerta last minute per domani mattina presto. Il viaggio in aereo dovrebbe durare quattro ore e mezza, più o meno, ma, con lo scalo a Chicago, i tempi d'attesa si prolungano, e dacché partirà alle sei di mattina, sarà qui per l'una di pomeriggio. Non ho ancora avvisato i ragazzi. Hanno smesso di parlarmi a loro volta, a dire il vero. Ho origliato alcune loro conversazioni, e ho compreso che, nonostante le ferie sia di Colin che di Will siano prossime al termine, il primo ha chiesto - in via del tutto eccezionale - al padre di farsi sostituire da suo fratello Ronan, in negozio; il secondo, invece, si è preso qualche giorno in più - i vantaggi del libero professionista. Per cui, a quanto ho capito, intendono prolungare la loro permanenza. Ieri pianificavano, però, di voler lasciare presto San Francisco, ma non sapevano come dirmelo e come avrei reagito. Non avevo mai considerato la possibilità, prima, ma, ora come ora, non vedo l'ora di andarmene. Questo posto ha iniziato a starmi stretto. Non mi va più bene. Non che io sia uscita molto, negli ultimi giorni, ma so che, se mettessi piedi fuori dall'albergo, non potrei fare a meno di essere aggredita dai ricordi: di Peter che, proprio a qualche metro dall'ingresso, mi diceva che era meglio non vederci più con le lacrime agli occhi; della fermata dei taxi, e di tutti quelli che ho preso in questi giorni per andare da lui; stare in auto mi ricorderebbe quello che è successo nella sua, di macchina, in quel luogo sperduto e dimenticato da Dio che è stato solo nostro per una notte; passare davanti a un pub qualsiasi mi rammenterebbe il Kells, e la sera in cui si è ubriacato e mi ha detto che gli sono mancata; un locale lussuoso mi riporterebbe alla mente quel ricevimento, invece, e tutto quello che ne è conseguito. Voglio andarmene di qui perché non potrò mai guardare San Francisco allo stesso modo, e perché finirà col ricordarmi sempre di quel qualcosa che non sono stata capace di trattenere con me, quando ne avevo la possibilità, e che ora ho inevitabilmente e inesorabilmente perduto per sempre.

×××


Sono le due di pomeriggio. Abbiamo da poco finito di pranzare al ristorante dell'hotel, e ora siamo tutti e quattro sul divano, davanti alla Tv, a seguire un programma idiota sugli appuntamenti al buio. Quando sto per prendere sonno, Colin abbassa il volume al minimo e si mette in piedi dinanzi a me, con le braccia sui fianchi e l'aria minacciosa.

"Okay, adesso basta. Ragazzi, scusate, ci ho provato, ma io non ne posso più - si giustifica, rivolgendosi a Connie e Will, che, tormentati, lo fissano - Quanto a te, stronzetta, ne ho le palle piene di vederti fare l'automa seduta su quel divano o stesa su quel letto, respirando solo per miracolo divino, mangiando a stento, e vederti togliere il saluto a noi tre che, a rigor di logica, non ti abbiamo fatto niente. Invece di prendertela ingiustificatamente con noi, dovresti seriamente pensare di buttare fuori tutto quello che senti! Parlacene, per... - la sua accesa argomentazione, durante la quale mi ha puntato un indice contro e mi ha guardato con espressione truce, è interrotta da un leggero bussare alla porta - Sì, un secondo! - grida, rivolgendosi all'entità fuori di essa, per poi tornare a concentrare su di me tutte le sue attenzioni - Stavo dicendo, dovresti proprio deciderti a... - ma una seconda bussata lo ferma nuovamente, e non fa che farlo imbestialire ancor di più - Ho detto un secondo, cazzo! - grida ancora, rigirandosi verso di me - Quindi..." alla terza interruzione caccia un urlo di frustrazione e marcia impettito verso la porta, spalancandola, pronto a fare una scenata coi fiocchi a chicchessia, ma è come si paralizzasse, alla vista di chi gli è davanti.

Sbarro gli occhi anche io, per la sorpresa, e, senza pensarci due volte, salto giù dal divano; supero Colin, immobile accanto alla soglia, e mi getto di slancio tra le sue braccia, facendogli istantaneamente cadere di mano il borsone che stava sorreggendo. Mi avviluppa e mi stringe a sé, e io affondo la testa contro il suo petto, inalando il suo profumo e sentendo le lacrime pungermi gli occhi. La riconciliazione e il momento di intimità sono spezzati dalla solita finezza e, soprattutto, misura delle parole che caratterizzano Colin.

"Ma questo è il colmo! Io... Bah, non mi esprimo proprio, che è meglio - decreta, alzando le mani in segno di resa e andando verso Will e Connie, che, rimasti sul divano, hanno sporto le teste per inquadrare meglio la situazione; arresta la sua avanzata a metà strada, e mi si riavvicina - Non voglio credere che lo abbia chiamato tu - mi intima quasi, guardandomi intensamente negli occhi - Non ho niente contro di te, Evan. Anzi, mi sei sempre stato molto simpatico. Ma questa te la potevi risparmiare, Celeste, visto l'elenco, già di per sé alquanto ricco, delle cazzate che hai fatto ultimamente" attesta, amareggiato, dopodiché ci sorpassa entrambi e se ne va, uscendo dalla stanza.

"Colin!" lo redarguisce Connie, sconvolta, ma lui ormai se n'è già andato, e so di averla fatta grossa quando, invece di rimanere qui, lei e Will gli corrono dietro, lasciandomi sola con Evan.

È l'ora della resa dei conti.

×××

Qualche ora dopo siamo fuori al balcone della stanza che lui ha prenotato - solo per questa notte - nel nostro stesso albergo. Abbiamo scolato già mezza bottiglia dello champagne che era in dotazione con la camera. Se non fosse stato destinato a questo uso, innanzitutto non ce lo avrebbero lasciato; in secondo luogo, non sarebbe stato così buono. Siamo seduti su delle poltroncine da esterni, ad ammirare la vita che ci scorre sotto gli occhi. Le luci della città si alternano, creando accecanti giochi luminosi, e le automobili sfrecciano rapidamente sulla strada sotto di noi. Il manto della notte, scura e senza stelle, avvolge il paesaggio nella sua presa. Ogni tanto si notano solo delle lucine intermittenti colorate, in cielo, che apparterranno sicuramente a degli aerei. Abbiamo parlato a lungo, in queste ore. Lui mi ha raccontato come sta andando la sua vita, del lavoro, di sua sorella Syria e dei suoi genitori. Io ho preso coraggio, e gliel'ho riferito. Tutto. Tutto quanto. Senza tralasciare nemmeno un particolare. Tutta la mia storia con Peter, da quando ci siamo conosciuti a oggi, viaggio on the road e varie avventure annessi. Mi sento svuotata, dopo averlo fatto. Mi sembra così triste, il fatto di essere finalmente riuscita a parlargliene. Prima non lo avrei mai fatto. Ora è come se non mi importasse più, perché so di non importare più a Peter. Prima non ne avevo la completa e totale certezza, perché non lo avevo più rivisto, dopo quel fatidico giorno. Ora, invece, lo so. Ha detto che ci distruggiamo a vicenda. E che non ce la fa più. Non mi serve un disegnino, per capire che stava cercando un modo "carino" per dirmi che, quella che aveva provato nei miei confronti quella notte in auto, era stata solo attrazione fisica. Perché lui ama Jane, adesso, e sono arrivata troppo tardi. Evan mi ascolta in silenzio, senza fare domande. Non mi chiede perché i miei capelli siano ridotti così, dopo i miei vari tentativi di riportarli al loro colore originario falliti miseramente - ora sono solo un ammasso rosa pieno di nodi; non mi chiede perché io non indossi più quella collana, né perché io faccia di tutto per coprire quel dannato tatuaggio. Non mi chiede perché i miei occhi sembrino più spenti del solito, o perché io non sia più la stessa. È perché non se n'è accorto, o perché è tanto discreto da non volermelo far notare? Siamo in silenzio da un po', da quando ho concluso la narrazione. Ci limitiamo a osservare, nella fresca brezza serale di giugno, il mondo che va avanti per conto suo. Perché andrà sempre avanti, anche se qualcuno dovesse smettere di esistere. È come un grande meccanismo. E cosa si fa con gli ingranaggi, se uno si blocca o è difettoso? Si cerca di ripararlo, o, al limite, lo si sostituisce. Ormai suppongo sia abbastanza impossibile ripararmi. Dicono che si può essere aggiustati solo dalla persona che ci ha rotto. Allora deduco che rimarrò in queste condizioni in eterno. Sebbene io non rigetti l'idea di essere sostituita, di essere scambiata con una Celeste nuova, totalmente diversa da quella attuale, e che non si trovi proiettata in tutti questi casini. E, soprattutto, che non debba espiare in eterno una colpa non solo sua. Non sono stata l'unica a non restare, l'ultima volta. E ora non sono io a restare perché mi è stato chiaramente detto di essere indesiderata. Cosa ci potrebbe essere di peggio? Ci manca solo che mi inviti alle sue nozze. Il pensiero delle nozze mi riporta a quando Evan mi aveva comunicato di voler rendere la nostra relazione più seria, e a quando, terrorizzata, sono corsa da zia Flo, che, fortunatamente, d'estate risiede con Jean-Paul a Filadelfia per occuparsi di alcune faccende lì. Mi piange il cuore nel constatare cosa ho fatto e cosa sto facendo a questo ragazzo, che ha affrontato un viaggio così sfiancante per me solamente per stare al mio fianco, per poi, però, ripartire il giorno successivo.

"Evan..." mi sento in dovere di mettere le cose in chiaro, perché, sì, sono un'incoerente, ma non una manipolatrice, e non mi va di giocare con lui - come qualcun altro ha invece fatto con me.

"Celeste, non è necessario che tu dica niente. Avevi bisogno di me, e io ora sono qui. Non sono così stupido da illudermi che tra noi cambierà qualcosa - non ci ho creduto nemmeno quando mi hai promesso che saresti tornata da me, in verità. Però ti amo. E farei qualsiasi cosa per te. Anche se questo dovesse implicare lasciarti andare e straziarmi il cuore vedendoti ridotta così a causa di qualcun altro" espone allora lui, impedendomi di proseguire, ma riassumendo in poche battute tutto ciò che volevo dire.

E sorrido amaramente, nel realizzare che, proprio la persona che io reputavo che mi conoscesse meno di chiunque altro, sia chi, in realtà, ha compreso appieno me e la mia personalità. Lo abbraccio, d'impulso, e gli occhi mi si velano di nuovo di lacrime. Quelle che ho trattenuto in cinque giorni. Quelle che ho trattenuto mentre gli parlavo di Peter: una ferita aperta da cui trabocca ancora sangue.

"Portami con te" lo supplico, quasi disperata, accoccolandomi contro il suo petto.

Sussulta, e mi accarezza il capo con una mano, mentre mi stringe con l'altra. Sospira, e lo sento deglutire.

"Celeste..." puntualizza, affranto, ma io lo fermo prima che possa continuare.

"Per favore, Evan. Io qui non ci posso più stare" insisto, implorante, e il sospiro rassegnato che emette mi fa comprendere che ha tacitamente acconsentito.

×××

Quando Evan ha avvisato Colin della mia immediata e irrevocabile decisione di partire, non l'ha presa molto bene. Per niente. Non so chi sia stato, in seguito, tra Will o Connie, a farlo ragionare, finché non ha accettato passivamente la cosa. So di dovergli parlare in prima persona, da soli, di dover chiarire alcune cose, ma non ci riesco. Ho paura. E non perché penso che potrebbe giudicarmi o condannarmi per le mie scelte, ma perché per me il parere di Colin conta più di qualsiasi altra cosa al mondo, e lo sa anche lui. Sa che è l'unica persona sulla faccia della Terra capace di persuadermi a far qualcosa benché io non voglia. È l'unico che sarebbe in grado di farmi cambiare idea e di condizionarmi a tal punto. Ho paura di parlare con Colin, perché so già cosa mi consiglierebbe. E so che sarei tentata di seguire quel consiglio con tutte le mie forze, sebbene il mio raziocinio proverebbe a trattenermi. Perciò evito di confrontarmi con lui: perché, da brava codarda, preferisco rimanere nel dubbio. Non ho impiegato molto a impacchettare tutta la mia roba: non avendo mai disfatto la valigia, si è trattato solo di piegare i vestiti con più criterio e riporvi dentro scarpe e giacche. Il beauty-case l'ho preparato direttamente stamattina, prima di recarmi in aeroporto. Non nascondo che mi ha investita un moto di tristezza incredibile, quando ho lanciato un'ultima occhiata a quella stanza che ho condiviso con le tre persone che, per giorni, hanno accompagnato le mie giornate e la mia vita, e l'hanno resa più colorata e meno grigia. Mi mancherà immensamente Connie, quando, a prima mattina, assonnata e arruffata, andava puntualmente a sbattere contro uno dei piedi del letto quando si alzava per andare in bagno. Mi mancherà Will e il suo spirito di iniziativa, tutte le ricerche che compiva già alle prime luci dell'alba per stabilire un itinerario e un programma della giornata. Mi mancherà Colin, e i suoi quotidiani litigi con Connie per non aver abbassato la tavoletta del water - sappiamo tutti che Will è troppo perfettino, per trascurare un dettaglio simile, quindi la colpa poteva essere solo del mio migliore amico. Mi mancherà Will con le sue battute squallide, che erano all'ordine del giorno, e la sua mania di fotografare ogni minima cosa. Mi mancherà la guida spericolata di Colin e quella prudente di Will, gli armeggi di quest'ultimo con la radio per trovare una stazione che trasmettesse musica decente. Mi mancheranno le nostre esibizioni canore e i nostri momenti di spensieratezza. Mi mancheranno le chiacchierate a notte fonda, perché nessuno di noi riusciva a prender sonno. Mi mancheranno gli attimi di leggerezza, quando, sereni, ballavamo in maniera scomposta su un qualsiasi letto, con la musica a tutto volume, approfittando dell'insonorizzazione delle camere d'albergo in cui abbiamo finora alloggiato. Mi mancherà Connie con le sue - ora giustificate - voglie assurde, i biscotti ottimi che aveva sempre in borsa. Mi mancherà Will, che si orientava con il GPS del cellulare anche quando camminavamo per strada, per non perderci. Mi mancherà l'irascibilità di Colin nei confronti di chiunque ci ostacolasse, il suo non aver peli sulla lingua. Mi mancherà il suo essermi sempre accanto, gli abbracci rigeneratori, le lavate di testa. Mi mancheranno le lotte infinite per usare il bagno. Ricorderò per sempre i bei momenti, però, e li custodirò a costo della vita. Colin che ha inveito contro quell'antipatica segretaria dell'università; il professor Harris, gli indizi velati che ci ha fornito, Will che li ha - inaspettatamente - colti al volo; Colin che mi ha portato in spiaggia per distrarmi, la corruzione del tizio in biglietteria per non pagare una cifra esorbitante, il bagno al mare; lo "Shut Up and EAT!", i camerieri in pigiama, Connie che è entrata con nonchalance nelle nostre vite; il viaggio verso Chicago, Desmond, le incomprensioni, la gomma a terra; la ricerca di Steven, la sceneggiata di Connie, la danza sotto la pioggia, le cose che lui mi ha detto; l'"Io mi oppongo!" di Will, il ricevimento, il rivedere tutti. Ricorderò anche tutto quello che riguarda Peter, perché, bene o male, abbiamo anche avuto dei bei momenti, solo nostri, ai quali guarderò sempre con malinconia. Per tutto questo tempo ho avuto cucita addosso una sensazione strana, come di essermi dimenticata qualcosa, ogni volta che ho lasciato un luogo per dirigermi verso un altro. Solo ora realizzo che non era un "qualcosa" di materiale, a mancarmi. È un pezzo di anima, esperienze e ricordi, che so che porterò con me per sempre. Malgrado l'astio nei miei confronti, sono venuti tutti e tre a salutarmi, in aeroporto. Non posso credere che tutto questo stia davvero finendo. Avrei tanto voluto rimanere con loro, ma so che il mio umore nero avrebbe rovinato loro la vacanza. Ho scritto un messaggio chilometrico a Mike. Mi sembrava corretto quantomeno salutare lui e Lindsay, stavolta. Non si sarebbero meritati un comportamento differente, da parte mia. Soprattutto dopo quello che hanno fatto per me. Non ha ancora risposto, ma è relativamente presto, quindi, forse, staranno ancora dormendo. Sarei voluta passare a ringraziarli di persona. Non avrei mai retto le emozioni, però. Forse è stato meglio così, dopotutto. Tanto per restare - una volta tanto - coerente con me stessa e con la vigliacca che sono. Evan ha già porto i propri saluti ai ragazzi, e si è avviato in coda al check-in, per ottimizzare i tempi. Da piccola adoravo gli aeroporti. Sognavo di viaggiare, di andare lontano, di girare il mondo. Quando, sei anni fa, ho viaggiato davvero, e per la prima volta, tutti i miei sogni infantili sono sfumati, interfacciandosi con il mondo reale. Il che è un po' quello che accade a tutti i bambini. Da bambina conservavo ricordi felici di strutture come questa, dovuti principalmente alla figura di mio padre. Il suo lavoro richiede spesso numerosi viaggi, da parte sua, così, quando io, la mamma e Milah lo accompagnavamo in aeroporto, io ero contenta, perché immaginavo già quanto sarebbe stato bello riabbracciarlo, una volta tornato. Mi ha insegnato lui a prendere tutto alla leggera e in positivo. Quando sono stata io, poi, a dover partire, ho compreso che non è poi così bello, specialmente se lo si fa in modo definitivo e permanente, rinunciando alle persone più care che si hanno. Certo, ho scelto io di farlo, nessuno me lo ha ordinato. L'ho fatto per me stessa e per ampliare i miei orizzonti. Forse non c'era soluzione alternativa, ma lui poteva anche chiedermi di restare. O parlarmene. Ne avremmo discusso, avremmo trovato un compromesso. Ma, ormai, è inutile piangere sul latte versato. Lascio il trolley - con lo zaino poggiato su di esso - in disparte, e mi stringo il bicipite destro con la mano sinistra. Loro tre sono schierati davanti a me, zaini in spalla ed espressioni meste in viso. Non mi riesce di prendere l'iniziativa di salutarli per prima. So che non è un addio, che quando Will e Colin torneranno a loro volta a Filadelfia sarà tutto come prima. Però non so se rivedrò mai Connie Bonnie. Inoltre, è come se non dicessi "addio" a loro, adesso, ma a tutto quello che è stato e che abbiamo passato in questi giorni. Mi si colmano gli occhi di lacrime, e, mentre sporgo il labbro inferiore all'infuori, Colin mi si butta addosso e mi abbraccia forte.

"Ti perdono, stronza. Per tua fortuna, ti voglio troppo bene per tenerti il muso" mormora tra i miei capelli, e lo sento sorridere.

Sorrido anch'io, tra le lacrime, e lo attiro più vicino, permettendo al suo profumo da uomo di inebriarmi i sensi e cullarmi. Poi si distanzia e mi dà un lungo bacio sulla fronte.

"Segui il tuo cuore, Celeste. Ricordati sempre di seguire il tuo cuore" si raccomanda, serio.

"Non ne ho più uno, oramai" attesto tristemente, incapace di reggere il suo sguardo.

"Non è vero. E tu lo sai. Non ti dico di fare la cosa giusta: non è detto che il tuo cuore ti suggerisca ciò che è giusto. Non so cosa sia capitato, e di certo non voglio obbligarti a rendermene partecipe. Ti dico solo di considerare con cautela la tua scelta. Perché non potrai tornare indietro una seconda volta, poi" asserisce, in conclusione, carezzandomi un braccio e osservandomi con un'espressione d'intesa.

Annuisco, sorridendogli ancora, onestamente riconoscente, e tiro su col naso, passandomi le dita delle mani sulle guance bagnate e sotto gli occhi. Anche Will mi sorride, ma ha gli occhi tristi. Mi abbraccia a sua volta, dondolando a destra e a sinistra nel mentre, e facendomi ridacchiare.

"Spero con tutto il cuore che tu sia felice" si augura, ponendo fine al contatto poco dopo.

Se prima ero stata capace di darmi un certo contegno, e di impormi di non piangere, percepisco di nuovo le lacrime pizzicarmi gli occhi. Gli regalo un sorriso a trentadue denti e, emozionata, getto le braccia al collo a Connie, e il suo profumo floreale mi scalda il cuore.

"Abbi cura di te e del piccolino, Connie Bonnie. Non sparire" soggiungo, muovendo circolarmente una mano sulla sua schiena e sorridendo contro una sua spalla.

"Anche tu, tesoro - mi fa eco, per poi avvicinare le labbra a un mio orecchio - Quel bel bocconcino non è per niente da scartare, comunque. Se con te non ha proprio più possibilità, dirgli di tenermi presente, nel caso in cui volesse consolarsi con qualcuno" sussurra maliziosamente, indicando - quando si discosta da me - Evan in fila al check-in con un cenno del capo.

La fisso attonita, e lei mi ammicca, scaturendo una mia genuina risata. Rido come non ridevo da giorni. Rido, e lei con me, mentre Colin, Will e tutte le persone che ci procedono a fianco ci guardano divertiti e incuriositi. La stringo ancora a me, con più veemenza e più trasporto, per dimostrarle quanto le sono grata per avermi, anche solo di poco, risollevato l'umore.

"Ti voglio bene, Connie. Davvero, fatti sentire" la prego, liberandola dalla mia stretta.

"Uh uh, quanto siamo sentimentali..." finge di lamentarsi Colin, sorridendo.

Connie gli dà un debole pugno su un braccio e sghignazza. Ritorno al mio posto e li osservo nell'insieme, felice. Sono la mia seconda famiglia. Sono come dei fratelli. E, assurdamente, in questi giorni ho sentito più vicina - più sorella - Connie, che non Milah, con la quale ho un vero e proprio legame di parentela. Mentre guardo loro tre, vedo altre tre figure familiari fare la loro comparsa all'entrata dell'edificio. Due si tengono per mano, una corre avanti, affannata e affaticata. Si illumina, non appena mi nota. Non ci vedo più dall'allegria e corro loro incontro, saltando in braccio alla prima delle tre che mi è meno distante. Attorciglio le gambe attorno ai suoi fianchi e sorrido.

"Mickey!" strillo, in preda alla gioia, ancora incredula.

Lui profuma di dopobarba e di pulito, e sento Lindsay, alle sue spalle, ridere del mio comportamento leggermente infantile. Anche Mike scoppia a ridere, e, dopo un iniziale momento di sbigottimento, mi circonda con le sue braccia e mi sostiene per le cosce, per evitare che io perda l'equilibrio e cada rovinosamente a terra. Scendo di mia sponte, però, per decenza e decoro, e perché gli occhi della gran parte dei presenti sono puntati su di me.

"Non potevi davvero credere che anche stavolta ti avremmo lasciata partire senza salutarti" esclama, con un sorriso che ancora gli aleggia sul volto, e Lindsay e Harper, mano nella mano, mi fissano con la stessa espressione.

"Ecco. La prima volta ci hai rifilato un discorso insensato sul fatto che non ti piacciono gli addii, o roba del genere. E ti abbiamo assecondata, perché non volevamo andare contro le tue volontà. Adesso non ci saremmo mica fatti scappare questa occasione!" aggiunge Lindsay, scrollando le spalle e ostentando innocenza.

Sorrido, e ormai non provo neppure più a reprimere il desiderio di piangere, perché sarebbe piuttosto inutile. Sono venuti qui solo per me, per salutarmi. Hanno portato con loro anche la piccola Harper, insonnolita e provata. Lindsay non si è truccata, Mike ha i capelli arruffati. Si sono precipitati qui non appena hanno letto il mio messaggio. Ma cosa ho fatto, per meritare persone come loro? Senza freni inibitori, do libero sfogo al pianto, e Lindsay mi attira presto in un abbraccio spaccaossa.

"Mammina, perché zia Sulley piange?" interviene Harper, tirandola per un lembo della maglietta leggera che sta indossando.

"Perché è felice, amore" le illustra, mentre si allontana da me e si rende conto che anche la piccola ha gli occhi lucidi.

Ho sempre ammirato ma allo stesso tempo temuto l'empatia dei bambini. Il loro umore, il loro stato d'animo, subisce continue influenze da chi sta loro attorno. Sia se gli efflussi di emozioni siano positivi o negativi. I bambini leggono dentro le persone, le studiano. A volte senza volerlo. Ed è questa la cosa che li rende ancora più unici e speciali. Spesso vorrei tanto tornare a quella spensieratezza. A quegli anni vissuti con leggerezza, senza paura del domani, del futuro. O del passato.

"Ma allora perché è triste, se è felice?" domanda, ingenuamente, aggrappandosi a una mano di Mike.

"Perché è felice del fatto che siamo qui, ma è triste perché va via" le spiega dolcemente lui, dandole un leggero buffetto su una guancia.

Lei assente, dubbiosa, e Lindsay si scusa, per poi - mentre anche lei, commossa, si asciuga la pelle del viso con le dita - puntualizzare che Harper è nell'età in cui pretende una spiegazione per ogni cosa, e che li allucina giorno e notte con una sfilza infinita di "Perché questo è così?" e "Perché quello è colà?" che li fa ammattire.

"Magari potremmo valutare la probabilità di fare una puntatina a Filadelfia, quest'estate. In fondo non ci siamo mai stati..." suggerisce poi, trovando immediatamente Mike del tutto d'accordo.

Sorrido, e li ringrazio di cuore di essere passati, abbracciando di nuovo entrambi, e lasciando un piccolo bacio sul naso ad Harper.

"Per me significa davvero il mondo avervi qui" garantisco, francamente, stringendo le mani di entrambi.

Poi mi distanzio, camminando all'indietro, sciogliendo gradualmente l'intreccio. Raggiungo la valigia e rivolgo un ultimo sguardo anche a Colin, Will e Connie, che, intanto, hanno dedicato un saluto corale alla famigliola felice. Li fisso uno per uno e, quando mi soffermo su Colin, sgrana gli occhi e si dà uno schiaffo sulla fronte.

"Oddio, quasi me ne dimenticavo! - grida a denti stretti, frustrato, mettendosi una mano in una delle tasche posteriori dei jeans, e tirandone fuori una busta da lettere bianca e tutta stropicciata, che è stata visibilmente già aperta - Inizialmente non volevo dartela, per paura che avrebbe potuto sconvolgerti. Poi l'ho letta, e ho capito che dovevo consegnartela a tutti i costi. Il mittente mi ha pregato di fartela leggere in aereo. Personalmente, invece, ti direi di leggerla adesso. Fai tu" mi consiglia, senza porsi il minimo scrupolo per aver tecnicamente violato la mia privacy, allungandomi la busta.

La scruto, scettica e confusa, non riuscendo a spiegarmi chi mai possa aver sentito l'esigenza di scrivermi una lettera. E, soprattutto, perché la abbia affidata proprio a Colin. La afferro timorosa, con mano tremante, senza spiegarmi nemmeno il perché di tutto questo mistero, e perché non mi abbia detto subito da parte di chi sia. Me la rigiro tra le mani. Davanti c'è il mio nome, scritto in corsivo, con una penna a inchiostro blu, in una calligrafia sinuosa e decisamente femminile. Dietro solo una brevissima frase: "Per quando deciderai di gettare la spugna". Mi acciglio, ancora più perplessa, e, incerta, ringrazio Colin. Percepisco il telefono vibrare in una delle tasche dei miei pantaloni, e realizzo che si tratta di Evan. È il segnale di ritirata. Afferro le mie cose, lancio un bacio volante a tutti con la mano libera, e, ormai con la mente troppo concentrata su quella lettera per settarla su qualcos'altro, mi dirigo al check-in, da Evan.

×××

Sono passati solo cinque minuti, da quando ho lasciato i ragazzi all'entrata dell'aeroporto e io ed Evan abbiamo completato il check-in - in quanto mancavano solo i miei documenti. Eppure, non riesco a smettere di pensare alla lettera, e a quello che ha detto Colin. Combattuta tra il leggerla ora o in aereo, la curiosità ha la meglio, e la tiro fuori dalla busta non appena ci sediamo a un tavolino in una delle aree ristoro, ed Evan va a prendere qualcosa da mangiare. Il foglio è un semplice A4 per stampanti, ed è unico. La lettera si estende, però, per entrambe le pagine. Ci sono delle piccole sbavature, su alcune parole. Come se lo scrittore avesse fatto cadere delle gocce d'acqua sul foglio. O, più plausibilmente, abbia pianto durante la stesura. Con un nodo allo stomaco, un groppo in gola, e il cuore che batte all'impazzata, comincio a leggere.

"Cara Celeste,

Non avrei mai pensato di scriverti questa lettera. Onestamente, non avrei mai pensato neppure di conoscerti. Ma è successo, e in fondo al mio cuore sapevo che sarebbe accaduto. Sapevo che saresti tornata a riprendertelo dal primo giorno in cui mi ha parlato di te. In principio credevo che sarebbe stato lui a tornare da te. Ma, conoscendolo sempre più a fondo, mi ha lasciato intendere che sei tu quella con le palle, tra i due. Era solo questione di tempo. Ci siamo incontrati quattro anni fa, è vero. Ma si è deciso a darmi - a darci - una possibilità solo dopo due anni. I primi due si è trattato solo di frequentazione assidua, dovuta più che altro a Mike e a Lindsay, e al fatto che, in seguito, le nostre comitive di amici si siano fuse. Il terzo anno è cambiato qualcosa. Ha saputo che stavo lavorando a un determinato progetto, e ha scelto di aiutarmi. Ha scelto di aprirmi il suo cuore. Ha scelto di parlarmi di te. E in quel momento ho capito che, solo ascoltandolo parlare di te, lo avrei conosciuto sul serio. No, non mi ha aperto il suo cuore. Mi ha aperto la sua anima. Sono la persona meno adatta ad ammetterlo, ma non si vede tutti i giorni, un amore come il vostro. Forse è anche per questo che, fin dagli esordi, la vostra storia mi ha intrigata tanto. Solamente che, da brava masochista, non avevo previsto che mi sarei potuta innamorare di lui. Più lo sentivo parlare di te, più speravo che un giorno qualcuno avrebbe parlato di me, in quel modo. Finché non ho iniziato a desiderare che fosse lui, quel qualcuno. Ma l'ho fatto inconsapevolmente, perché ho sempre saputo che non ti avrei mai potuta eguagliare. C'è posto per una sola donna nel suo cuore, Celeste, e quella donna sei tu. Per favore, non lasciarlo andare. Io lo amo, e proprio per questo lo sto affidando a te. Lo hai lacerato, lo hai straziato, ma vi siete distrutti a vicenda. Il punto è che tu sei anche l'unica persona in grado di guarirlo, a dispetto di ogni logica o pensiero razionale. Quello che ti chiedo, perciò, e lo faccio con il cuore in mano: resta. Questa volta non darti per vinta. Non lasciare che il tuo orgoglio vinca sul tuo amore nei suoi confronti. Lo sai anche tu che ti ama ancora, Celeste. Un sentimento del genere o si tramuta in rimpianto di un amore perduto, o sfocia in qualcosa di più, in una vita insieme. Sto rinunciando a lui, perché non sono ciò che fa per lui. Perché lui ha bisogno di te, e, per quel poco che vale il mio parere, voi siete fatti per stare insieme. Non mollare proprio adesso, te ne prego. Perché è proprio quando qualcuno vuole farti capire di non aver più bisogno di te, che in realtà ne ha maggiormente. Non abbandonarlo a se stesso. Sappiamo entrambe che nessuno di voi due riuscirebbe a superare un'ulteriore separazione. E che non farete che inseguirvi in eterno, in un ciclo continuo. Quindi metti fine al circolo vizioso. Tira fuori la grinta e la donna con le palle che sei, e vattelo a riprendere una volta e per tutte. Perché è tuo, e perché so che sei ciò che è meglio per lui.

Abbi cura di lui, Celeste. Sono certa di lasciarlo in buone mani.

Con sentito affetto,

Jane".

Sarebbe superfluo dire che sono un fiume di lacrime, in questo preciso istante. Evan è ancora in fila per la colazione, ma non posso aspettare che torni. Cerco nello zaino una qualsiasi penna o matita, arraffo un tovagliolino dal porta-tovaglioli, e scribacchio qualcosa di almeno leggibile e logico. Seppure attualmente io non sia capace di ragionare. Ho il cuore in gola, sto tremando, scossa dai singhiozzi, e mi sto facendo guidare solo dall'istinto e da nient'altro.

"Mi dispiace" scrivo soltanto, lasciando lì sia la penna, che zaino e valigia, nella fretta, portando con me, stretta in una mano, solo la lettera.

Ripercorro a ritroso tutto il tragitto, sorpassando il banco dei check-in, correndo a perdifiato, pregando in tutte le lingue del mondo che quei sei siano ancora qui. Non so cosa ho in mente, ma al mio cervello in tilt trovare loro è sembrata la prima soluzione appetibile. Li individuo nello stesso, identico posto in cui li ho lasciati, mentre chiacchierano animatamente. Vedendomi correre verso di loro, accaldata e senza fiato, si girano a guardarmi sconcertati. Tranne Colin, che ha un sorrisetto compiaciuto in volto.

"Io... Lui... Evan..." spiccico, tra un respiro affannato e l'altro, quando li raggiungo, ma, naturalmente, non mi capiscono, e mi osservano stralunati e preoccupati.

Scuoto la testa e tento di riprendere a respirare normalmente, piegandomi momentaneamente a sostenere il peso sulle ginocchia, sulle quali poggio le mani. Compio dei respiri profondi, e, provando invano a riordinare le idee, mi risollevo eretta, ma le parole mi muoiono in gola, quando - per un'incredibile coincidenza del destino - adocchio qualcuno fare il proprio ingresso nell'aeroporto, con una chitarra a tracolla in una custodia, e una lettera in una mano, mentre si guarda spasmodicamente attorno. I nostri sguardi si incrociano, ma è solo un attimo. È solo un attimo, perché nessuno dei due si lascia frenare da alcun agente esterno. Ci corriamo incontro a gambe levate, e, prima che possa dire qualsiasi cosa, mi scaravento tra le sue braccia, percependo il familiare profumo di casa accogliermi come se non me ne fossi mai andata. La sua stretta è una morsa d'acciaio, come se volesse accertarsi del fatto che sono realmente e fisicamente tra le sue braccia, e non solo un ologramma. Anche io lo stringo in maniera non indifferente, con il cuore che pulsa alla velocità di un treno in corsa e mille emozioni e pensieri diversi in testa. Com'è possibile sentire così tanta nostalgia per qualcuno, se lo si è comunque portato costantemente nel cuore? È curiosa, la parola nostalgia. Dà da pensare. Letteralmente significa: "dolore del ritorno", come a indicare la vera e propria sofferenza - fisica e psicologica - che si prova quando si ha l'irrefrenabile voglia di tornare al proprio luogo di origine, di appartenenza. Ulisse, per esempio, non c'è stato giorno, in quei vent'anni che ha patito la mancanza della sua amata Itaca, che non abbia rimpianto la sua terra, il suo regno, la sua famiglia. Potrei dire che il mio viaggio è stato un po' come un'odissea per mare, in cui ho rischiato di affogare molteplici volte, e in acque della natura più disparata. Potrei dire di aver vissuto anch'io mille avventure, alcune più piacevoli di altre, e di essermi imbattuta in una serie di persone che mi hanno aiutata a proseguire nell'avanzata, nella scalata, senza le quali sarei stata perduta. Potrei dire che io i miei compagni di viaggio non li ho persi per la via, però, perché sono sempre rimasti al mio fianco durante ogni tipo di avversità. E potrei dire che, a dispetto di quello che sono sempre andata predicando nel corso della mia vita, non è vero che non voglio appartenere a nessuno. Io voglio appartenere a Peter, sono sua da custodire. La mia non è mai stata nostalgia legata a uno spazio. Io avevo nostalgia di Peter, di me e lui, di quello che siamo quando siamo insieme. Nonostante le discussioni, i battibecchi, le cicatrici e le guerre che potremmo mai dichiararci. Ho trovato il mio posto felice e, a differenza di Odisseo, lo difenderò gelosamente, e non me lo sogno neanche di ripartire senza di lui. E ho imparato che, malgrado le prove ardue e apparentemente insuperabili che la vita pone sul cammino di una persona, basta avere fiducia, speranza, perseveranza, e combattere, lottare sempre per ciò che si vuole conseguire, perché non ci è donato né dovuto niente. E l'ho imparato a mie spese. Ma ora sentire il cuore di Peter martellare forte quanto - e forse addirittura più del mio, contro il palmo della mano che gli ho posato sul petto, è la mia prova del nove. Lasciati trovare, gli ha sussurrato il mio, anni addietro. Sono qui - è stata la risposta dettata dal suo - Non vado da nessuna parte.

"Scusa, scusa, scusa" bisbiglia, pentito e amareggiato, quando ci distanziamo - dopo un arco di tempo che mi sembra sia infinitamente lungo che breve -, baciandomi entrambe le tempie, il naso e la fronte.

"Shh, tranquillo" lo rassereno, accarezzandogli una guancia con la mano libera e sorridendogli.

"Avevo preparato un discorso" mi annuncia, sorridendo anche lui, e facendo svolazzare le farfalle nel mio stomaco.

"Ah sì?" lo stuzzico, divertita.

"Sì, in taxi, mentre mi precipitavo qui. Però ne ho dimenticata gran parte" mi riferisce, ridacchiando, imbarazzato.

Infilo la lettera in una delle tasche dei miei jeans, intenzionata a preservarla scrupolosamente fino alla fine dei miei giorni. Lui imita il mio gesto, circondandomi poi i fianchi con le mani, mentre io le posiziono ai lati del suo volto.

"Non devi farmi per forza un discorso, Peter" gli faccio notare, ridendo a mia volta.

"Invece sì! In ogni commedia romantica che si rispetti ce n'è uno! - si oppone, provocando un'altra mia spontanea risata - Aspetta, dovrei avere degli appunti sulle note del telefono" mi informa, incominciando a tastarsi le tasche posteriori dei jeans e quelle della giacca, alla ricerca del suddetto apparecchio elettronico.

Armeggia con il cellulare per qualche minuto, una volta rinvenuto, litigando con il sistema operativo e - ancora - con il comando vocale, facendomi ridere ancora più fragorosamente.

"Eccolo! - strilla, felice come un bimbo, schiarendosi la voce per conferire gravità alla cosa - Da quando sei ripiombata nella mia vita, ho capito un bel po' di cose. Ho capito che il momento giusto arriva nel momento più sbagliato che possa esistere. Che sai per certo che una persona è il grande amore della tua vita, quando il fidanzato pazzo del migliore amico di quest'ultima prorompe alla festa di compleanno di tuo padre e urla di opporsi. Ho capito che non importa capire, perché in amore non ci capisci nulla a prescindere. Che i sentimenti autentici neanche gli anni li possono cancellare. Ho capito che, per quanto possa ribellarmi, tu sarai sempre parte di me. Quella più bella, quella migliore, quella vera. Quella che tiri fuori solo tu. Ho capito che ti amo, e che prima di trovarsi bisogna perdersi, sì, ma ti ho già persa fin troppe volte, e ora basta. Ora voglio ritrovarti per l'ultima volta e non perderti mai più, smetterla di giocare a nascondino o ad acchiapparello. Avrei dovuto capirlo sei anni fa e rincorrerti già allora. Ma sono -" proseguirebbe nella lettura, se non gli abbassassi il braccio, la cui mano sorregge il telefonino, e lo incitassi silenziosamente a zittirsi.

"Peter..." preludo, ma mi mancano le parole.

"Stavo pensando a una cosa..." continua lui per me, invece, mentre io roteo, divertita, gli occhi al cielo.

"Ah, tu pensi?" lo prendo in giro, sorridendo.

"Dai, cretina, seriamente - mi rimbecca, sorridendo anche lui - Stavo pensando che io non sono mai stato a Disneyland..." pondera, portandosi una mano ad accarezzarsi il mento.

Spalanco gli occhi, quando il mio cervello comprende cosa sta cercando di dirmi. Il cuore mi arriva in gola, tanto che batte ferocemente.

"Parigi?" azzardo, ancora incredula.

"Sì, beh, da qualche parte dovremo pur ricominciare. Siamo in un aeroporto, a conti fatti" afferma, seguitando a sorridermi.

E, mentre Colin, Will, Connie, Mike, Lindsay - e persino la piccola Harper - urlano in coro: "Bacio, bacio, bacio!" e battono le mani a ritmo, io, con le lacrime agli occhi, mi accorgo di aver finalmente trovato il mio posto nel mondo.

"Because I've been to many places, in this world,
But the only one where I wanna be is where you are.
'Cause, it's true, I still love you like I've never stopped to".

N/A

Non è facile porre la parola "FINE" a una storia come "Celeste", che ha significato così tanto per me e che mi ha dato così tanto. Celeste è entrata nella mia vita in punta di piedi, con timore di disturbare, e poi me l'ha scombussolata con la forza di un ciclone. Non ci sono parole per esprimere quanto io sia soddisfatta, di essere arrivata fin qui, e quanto io vi sia grata (ma lascerò gli sproloqui ai "Ringraziamenti"). Vi dico solo che mi risulta difficile trattenere le lacrime, così come lo è stato durante tutti i giorni della stesura di questo ultimo capitolo, perché "Celeste" mi ha segnata come nessun'altra storia che ho scritto ha mai fatto.

Bando alle ciance, lascio a voi i commenti e le considerazioni. Ho già parlato fin troppo.

Molte di voi si aspettavano un "finale col botto" o, comunque, che fosse degno di essere definito tale.

Non so se sono riuscita nell'intento, se sono stata all'altezza del compito, o se quello che ne è venuto fuori è solo un orrendo pasticcio. Questo finale ha subito così tante variazioni, nel corso dei mesi, che, se ve le elencassi tutte, non basterebbero diecimila parole. Alla fine sono giunta a un compromesso, a una fine che accontentasse soprattutto me e che rispettasse i miei progetti per la storia. Spero che vi abbia lasciato qualcosa.

Non è un addio. Sentirete presto parlare di nuovo di me. Se non in "Parlami di noi", sicuramente nello spin-off.

A proposito di quest'ultimo: non so ancora quando inizierò a pubblicarlo. Per ora vorrei prendermi un po' di tempo per revisionare entrambe le storie (sono più pignola e perfettina di Will, in certi casi) . Vi consiglio, come già detto in precedenza, di non rimuovere la storia dalla biblioteca personale, perché, oltre che sul mio profilo, pubblicherò un avviso anche qui, quando lo posterò online.

Detto ciò, vi lascio questo spazio per eventuali domande (alle quali mi premurerò di rispondere nell'apposito #AskRitaska99, assieme a tutte le curiosità riguardo la storia e i personaggi) o dubbi.

So che dovrei attendere i ringraziamenti, ma, per ora, vi ringrazio lo stesso. Non sarei mai arrivata fin qui, da sola. Questo è per te, Shana. Grazie. Per ogni cosa che hai fatto e continui a fare per me. Ti voglio bene. Davvero.

Un bacio,

Rita x

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