1. Ruin
"Do you... do you think about me?
And do you... do you feel the same
Way, yeah? And do you... do you
Remember how we felt? 'Cause I
Do".
"25 Marzo 2011, Princeton, New Jersey
Sono giorni che non si parla d'altro, ormai: l'app, progettata dallo studente americano, che sta facendo il giro del Paese.
Kay-Pey: l'amico che vorrei
È sensazionale, la notizia che si è diffusa a macchia d'olio in tutto il New Jersey prima e in gran parte dell'America poi. È un laureando all'Università di Princeton a sconvolgere positivamente professori e amici con un'invenzione che ha stupito il Paese intero. Peter Poole, ventitré anni, originario di Boston, Massachusetts, è l'ideatore della nuova applicazione per Tablet e Smartphone che sta spopolando su piattaforme quali Apple e Android per la sua utilità e funzionalità. "Kay-Pey" è il nome della sopracitata app, congeniata da Peter Poole e Steven Smith, compagno di studi di origini irlandesi. Abbiamo chiesto a Peter stesso di introdurci in questo suo nuovo esperimento, e lui si è rivelato entusiasta di metterci al corrente del processo creativo. "Anche perché - ci ha rivelato, teneramente emozionato - questa è la mia primissima intervista". Ma noi lo abbiamo rassicurato e, dopo una certa timidezza iniziale, si è notevolmente sciolto, e ci ha illustrato con disinvoltura tutte le caratteristiche di "Kay-Pey", l'applicazione con il simpatico procione marroncino, con indosso l'elmetto da lavoro arancione, che ha fin da subito conquistato tutti. "Era un pomeriggio d'estate - ci racconta, emozionato -, e io e Steve eravamo stesi sul prato all'ombra di un albero, al fresco, a parlare di cavolate. Nessuno dei due era ancora rientrato a casa propria, a causa della sessione estiva di esami che dovevamo sostenere. A un tratto lui ricevette un messaggio apparentemente incomprensibile sul cellulare, che dopo un po' mi consegnò per farmi tentare di decifrare il testo. Era un SMS da parte di sua nonna, alla fine scoprimmo che voleva solamente sapere come stesse suo nipote e se si stesse tenendo in forma. A quel punto esordii con una frase del tipo: 'Qualcuno dovrebbe proprio fare qualcosa. Che ne so, un tutorial, per insegnare una volta e per tutte ai nostri poveri nonni come usare un benedetto cellulare'. Ed eccola lì, la trovata - che, inizialmente, Steve definì assolutamente folle - che ebbi. In principio ci parve un'impresa impossibile, ma, notando quanto fossi esaltato io, Steve mi appoggiò comunque, e da lì è nato 'Kay-Pey', il procione amico. Perché proprio un procione? Non lo so, ci sembrava carino". Che dire, il nostro Peter ha anche un qual senso dell'umorismo. Ma veniamo alle domande, alle quali il signor Poole ha risposto con molta gentilezza e professionalità.
Abbiamo compreso, dalla sua narrazione, la finalità dell'applicazione, ma le saremmo grati se potesse fornirci qualche ulteriore delucidazione.
Naturalmente. "Kay-Pey" è stata creata per offrire un supporto, un salvagente, alle persone di "vecchia generazione", se così si può dire (ma ciò non toglie che possano farne uso anche i non-anziani). Si tratta di un vero e proprio tutor - che, in questo caso, è rappresentato dal procione Kay-Pey -, che li guiderà passo per passo attraverso la scoperta dell'oscuro mondo della tecnologia. È una cosa così stupida e basilare, che mi chiedo perché non ci abbia mai pensato nessun altro prima.
Constato che è molto modesto, anche visto e considerato il ragguardevole successo che sta avendo in tutti gli Stati Uniti. A proposito di questo, quali sono i suoi progetti per il futuro?
Mi è stato proposto uno stage di specializzazione in un'azienda di programmazione software a Chicago. Penso di andare lì non appena avrò conseguito la laurea. Sicuramente verrà anche Steve con me.
Siete molto uniti, lei e il suo socio?
Paradossalmente, al primo anno di corso a stento ci sopportavamo. E poi diciamo che ognuno se ne stava per conto proprio. Al terzo anno, cioè quello scorso, il professore di Scienza del Computer ci ha assegnato un progetto di coppia, e da lì abbiamo cominciato a legare.
Avete pensato di diffondere l'app su scala mondiale?
È una bella ambizione. Ci stiamo ancora lavorando.
Avete dei piani riguardanti l'investimento delle ingenti somme di denaro che state ammontando?
Beh, io darò certamente buona parte del ricavato a mio padre - che mi è sempre stato vicino e ha sempre creduto in me e nelle mie capacità, supportandomi e finanziandomi. Finalmente posso ripagarlo di tutti i suoi sforzi. Il resto lo metterò da parte. Steve darà la sua quota in beneficenza.
Che dire... Due ragazzi d'oro, che hanno visto realizzarsi un grande sogno. Non ci resta che fare loro un sincero "in bocca al lupo" e augurarci di sentire ancora parlare di loro in futuro!
Articolo a cura di Jane Simmons".
Non appena Colin finisce di leggere, le espressioni sui nostri tre visi sono della natura più disparata. Lui è perplesso, continua a fissare il cellulare di Will - che sta sorreggendo a mezz'aria - da più di dieci minuti. Sono più di dieci minuti che nessuno di noi è in grado di spiccicare parola alcuna. Will ha le sopracciglia aggrottate e lo sguardo concentrato; posso quasi sentire le rotelle nel suo cervello stridere e muoversi vorticosamente. Io sono allibita. Anzi, allibita è dire poco. Sono a bocca aperta, e se non fossimo tornati in macchina - dopo che Will ha scattato quella fotografia -, e avessimo letto lì l'articolo, avrei senz'altro provato l'impellente necessità di sedermi o di sorreggermi a qualcosa.
"Un'invenzione che ha stupito l'America tutta..." sono io a rompere l'interminabile silenzio, all'inizio senza neppure rendermene conto.
Si voltano entrambi verso di me, con gli occhi persi di chi è stato appena risvegliato da un sogno che somigliava tanto alla realtà. Ora come ora vorrei tanto che la mia realtà non fosse questa. Vorrei non aver combinato così tanti casini. Vorrei non essere stata così orgogliosa e stronza, quel giorno. Vorrei non essere... così.
"Beh... Il giovanotto si è dato da fare" commenta Colin ironicamente, tentando invano di smorzare la tensione fin troppo palpabile che ci aleggia attorno.
Sconcertata, non sono manco capace di ribattere. Come cavolo è stato possibile? Ho un nodo in gola e la testa del tutto sgombra. E ora che si fa? Siamo al punto di partenza. Sono al punto di partenza. E non potevo davvero essere convinta, fino a cinque secondi fa, di trovare qui tutte le risposte che cercavo, dopotutto. Mi sembra di star salendo delle scale mobili che invece vanno verso il basso; di essere in mare e di procedere controcorrente, con cavalloni che mi colpiscono dritta in viso a rallentare la mia avanzata. Perché non ci ho mai pensato? Potrebbe essere ovunque. Anche dall'altra parte del mondo, per quanto ne so. E non c'è niente di peggio che andare alla ricerca di qualcuno che non vuole lasciarsi trovare. Colin seguita a parlarmi, a dirmi che persino lui - che, a differenza mia, dall'America non si è mai spostato - non ne sapeva niente. Poi incomincia ad accavallare frasi, parole e concetti, e io smetto di stargli dietro. Ho bisogno di restare - anche per un attimo, un solo attimo - da sola, e riflettere per conto mio sulle informazioni appena recepite. Apro la portiera e, nonostante la calura esterna sia a dir poco asfissiante, provo l'esigenza di prendere un po' d'aria. Una volta fuori, mi lascio scivolare con la schiena contro la portiera cocente e mi siedo a terra, benché pure l'asfalto scotti, a causa della temperatura elevata di oggi. Mi stringo le ginocchia al petto, giocherello con il ciondolo della mia collana e mi focalizzo su un punto indefinito dinanzi a me. Non so quanto tempo trascorra, prima che qualcuno venga a riprendermi, a recuperarmi. Quando l'unica persona che dovrebbe e potrebbe farlo non è materialmente presente.
"Ehi... Io e Will abbiamo avuto un'idea per risollevarti il morale. Ma dovresti tornare in auto. Fa un caldo bestiale e rischi di prenderti un'insolazione" mi consiglia il mio migliore amico, porgendomi una mano per aiutarmi ad alzarmi e regalandomi un sorriso confortante.
Annuisco e lascio che mi tiri su, come ha sempre fatto e fa sempre da quando ci siamo conosciuti.
×××
Sono stati molto categorici sulla riservatezza, per cui non sono stata capace di capire dove vogliano portarmi, nonostante io sia stata molto petulante e abbia chiesto loro informazioni più e più volte. So solo che questo luogo misterioso dista più o meno un'oretta da Princeton. Nient'altro. Hanno canticchiato ogni canzone che passavano alla radio per tutto il tempo, mentre io tentavo invano di prendere sonno, per evitare di arrovellarmi troppo a lungo su quello che mi sta accadendo in questi ultimi giorni. Ma è scontato che Colin urli: "Siamo arrivati!", con un tono di voce buffo, proprio nel momento esatto in cui ero riuscita ad assopirmi, quindi che lo dico a fare. Riesce - non mi spiego come - a parcheggiare, con una "meticolosa" manovra molto indelicata, il pick-up oltre il margine della carreggiata, tra due macchine sistemate molto all'acqua di rose. Siamo nel bel mezzo del nulla. È ora di pranzo, sto morendo di fame e di caldo, e Will riceverà una mia sfuriata come se ne sono viste poche, se non la smette di agitarsi, emozionato, sul sedile e di esortarmi a scendere. Il sole picchia fortissimo, l'afa di prima non sembra essersi dissolta (anzi, forse si è addirittura intensificata) e, sottolineo, siamo nel bel mezzo del nulla. La banchina al limitare della strada è sabbiosa, dopodiché c'è una serie infinita di alberi che si sussegue a entrambi i lati della corsia. Davanti ai miei occhi si presenta lo stesso scenario, con un cielo azzurrissimo e limpido a fare da sfondo. Scatterei una foto, se non fossi fisicamente ed emotivamente provata dalla bravata di questi due. Li sento parlottare e bisbigliare, mentre Colin imposta le sicure del veicolo e si avviano, camminando dinanzi a me, sollecitandomi ad andare loro dietro. Roteo gli occhi al cielo, mi mordo il labbro inferiore, per trattenermi dal dire qualcosa di spiacevole, e li seguo. Oltrepassiamo un cartello verde - sorretto da un pezzo di staccionata bianco -, con una scritta bianca in stampatello, affiancata da due delfini azzurri ai lati, che recita: "State entrando a Ortley Beach".
"Oddio, ma qui è dove qualche anno fa c'è stata una tempesta di sabbia che ha distrutto tutta la città?" mi informo, allarmata, arrestando la mia avanzata.
Si fermano a loro volta e, interdetti, si voltano nella mia direzione.
"E allora?" esclamano in coro, facendomi accapponare la pelle per quanto inquietante appare questo gesto ai miei occhi in questa circostanza.
Sbarro gli occhi, incredula, ma non aggiungo altro. Loro scrollano le spalle e proseguono. Ci separiamo quando Colin ci avvisa del fatto che si occuperà lui di procurarci dei badge per accedere al luogo innominabile, quindi io e Will rimaniamo soli ad attenderlo. Si è alzato un po' di vento caldo, che ci agita i capelli e fa insinuare nelle mie narici l'aroma della fragranza di shampoo che ha adoperato la signorina che me li ha lavati dal parrucchiere. Non trascorre molto tempo prima che Colin faccia ritorno, con un'espressione contrariata in volto.
"Quel figlio di buona donna voleva quaranta dollari a testa per i badge" ci spiega, accigliato e con un adorabile broncio in viso.
"Quindi?" domanda Will, cauto, non capendo, come me, cosa stia cercando di dirci.
"Quindi l'ho mandato al diavolo. Ma ti pare? Quaranta dollari! Sai quanti pasti al McDonald's mi sarei fatto con quella cifra?" gli chiede retoricamente Colin, per tutta risposta, facendomi portare una mano a coprirmi la bocca per non scoppiare a ridere e farlo alterare ulteriormente.
"Perciò... Niente più bagno?" pondera Will, deluso, accarezzandosi la barbetta rada sul mento con una mano e traendo le conclusioni dal discorso del suo ragazzo.
"Cosa? Bagno?" mi intrometto io, sorpresa, ma vengo grandemente ignorata, perché nel frattempo Colin interviene: "Certo che ci faremo un bagno. Sarà rapido e all'insegna del brivido, ma ho un piano".
Sorride, con uno sguardo furbo che non promette nulla di buono, e Will ricambia di buon grado l'espressione. Poi si girano entrambi nello stesso momento a guardarmi, e un'idea malsana balena istantaneamente nel mio cervello.
"No. Scordatevelo. Non sedurrò quel tipo per farci fare uno sconto" dichiaro, irremovibile, ipotizzando cosa può star passando per quelle loro menti perverse.
I loro sorrisetti maliziosi si ampliano e: "Tu pensa a distrarlo. Del resto ci occupiamo noi".
×××
"Non posso credere che avete rubato tre badge! Se quello se ne accorge ci uccide!" urlo, mentre corriamo a perdifiato verso la spiaggia, ridendo ancora a crepapelle al pensiero di ciò che è successo pochi minuti fa.
"Era troppo impegnato a guardarti la scollatura per accorgersene. E quando se ne renderà conto ce ne saremo già andati, ormai" risponde Colin, sicuro, facendo scoppiare Will a ridere ancora più fragorosamente.
La spiaggia è un'enorme distesa di sabbia chiara, quasi bianca, e l'Oceano si staglia piatto e solenne all'orizzonte, congiungendosi con il cielo e richiamando i suoi stessi colori. L'acqua è limpida e invitante, il profumo di salsedine inebriante, e, visto il caldo che fa, non vedo l'ora di...
"Oh, per la miseria!" esordisco all'improvviso, frenando la corsa di tutti; la mia in primis.
"Che c'è?" indaga Will, preoccupato, con il fiatone, piegandosi a sorreggersi con le mani sulle ginocchia e prendendo dei respiri profondi, così come Colin e me.
"Come ho fatto a dimenticarmene, accidenti?" mormoro tra me e me, a denti stretti, irritata.
Will ha un cipiglio in faccia e Colin, dopo un primo momento di confusione, sorride.
"Puoi anche farlo in reggiseno e shorts il bagno, eh. Non penso che per George sia un problema" mi rassicura, fa un occhiolino e, sfilandosi celermente T-shirt, scarpe, calzini e pantaloni, si tuffa in acqua, per riemergerne qualche secondo dopo totalmente zuppo, mentre agita la testa come i cani per rimuovere le gocce in eccesso.
Ridacchio. Will, pur non avendo capito un cavolo di quello che mi ha detto Colin, imita quest'ultimo e, in un attimo, è a mare a sua volta.
"Forza, mammoletta, sbrigati: l'acqua è fantastica!" mi sprona il biondo, immergendosi nuovamente e provando ad affogare Will poco dopo.
Mi tolgo maglietta, scarpe e fantasmini e li lascio accanto ai loro indumenti. La sabbia scotta, pertanto rimuovo celermente dalle tasche dei pantaloncini cellulare, soldi e lo stupido badge - o comunque tutta la roba che preferirei che non si bagnasse -, e mi affretto a raggiungerli. L'acqua è fresca, ed è così rilassante, la sensazione che provo, che quasi considero la possibilità di rimanere qui per sempre. È il mio primo bagno di quest'anno, e non avrei potuto desiderare contesto migliore e persone migliori con le quali condividerlo. È davvero assurdo che Colin mi conosca così dannatamente bene e sappia sempre cosa fare e di cosa io abbia bisogno. Mi legge nel pensiero, mi legge l'anima. Anche senza il bisogno di troppe parole. Lui c'è. Non è il tipo da interminabili monologhi commoventi o consolatori, ma in ogni suo più piccolo gesto, in ogni cosa che fa per me, si vede che mette il cuore. E penso che sia stupido credere che l'anima gemella sia solo un discorso legato al proprio partner o all'amore della propria vita. L'anima gemella è quella persona che ti è sempre vicino. Perché, sì, ci sono alcune persone che entrano nella tua vita in punta di piedi, quasi a passo di danza. La loro presenza a volte diventa addirittura impercettibile, eppure sai che sono lì, che rimarranno lì per te, qualsiasi cosa accada o ti accada. Sono persone speciali, diamanti rari, della cui esistenza magari non ti ricordi sempre, ma di cui avverti immancabilmente l'assenza quando se ne vanno. E lui è questo per me. Il mio migliore amico, la mia anima gemella, il fratello che non ho mai avuto. Molte volte mi ritrovo a domandarmi cosa ne sarebbe di me, come sarei io, se non avessi mai incontrato Colin. Sono fermamente convinta che ogni persona che entra nella nostra vita non lo fa mai per caso. C'è un motivo per tutto, solo che molte volte non lo capiamo subito. Ci vuole un po'. Ma io sono sicura che Colin è qui perché io non sarei qui senza di lui. Io non sarei e basta. A volte mi domando se sappia quanto bene gli voglio e quanto gli sono devota. Non glielo dimostro spesso, ma mi auguro con tutto il cuore che lui lo sappia comunque, come la maggior parte delle cose che mi riguardano che magari lui comprende ancora prima che possa farlo io stessa. Il mio flusso di pensieri termina nel momento in cui, mentre sono intenta a galleggiare indisturbata e a godermi la spensieratezza che mi ha finalmente colta in questo momento, qualcuno - e ci scommetto il mondo che è stato proprio il tizio sopracitato - mi spinge sott'acqua, ridendo e dando il via a una lotta all'ultimo sangue a chi butta per primo giù l'altro.
×××
Saranno circa le due del pomeriggio quando decidiamo unanimemente di uscire dall'acqua e cercare un posto dove poter mettere qualcosa sotto i denti - ma, soprattutto, del quale poter sfruttare la connessione wireless per trovare un alloggio su Internet per questa sera. Fradici e con la pelle arrossata, recuperiamo i nostri abiti e l'automobile per dirigerci in città a mangiare un boccone. Avevamo dimenticato di spostare i bagagli all'interno, ma, per fortuna, le nostre cose sono rimaste intatte: hanno solo rischiato di prender fuoco.
"Ho trovato un posto che è un amore! E il navigatore dice che se prendi la NJ-35 S e poi prosegui per l'NJ-37 W fino a Main Street dovremmo metterci solo un quarto d'ora" suggerisce Will, che stavolta si è seduto dietro, offrendo a me il sediolino accanto a Colin - il quale ha insindacabilmente sentenziato che deve guidare ancora lui.
Quando svolta a una rotonda, ci raccomanda di aprire i finestrini, perché, essendo bagnati, con l'aria condizionata accesa rischieremmo di prenderci un malanno. Poggio il gomito destro sullo sportello e sporgo di poco la testa fuori, alzandola all'indietro e chiudendo gli occhi. Sospirando, mi godo la sensazione di libertà che il vento, che sferza contro il mio volto e tra i miei ormai non più mori capelli, mi dona. Con Stayin' Alive dei Bee Gees a tutto volume, in un immotivato atto di pazzia, iniziamo a cantare a squarciagola tutti e tre insieme e a improvvisare una mini coreografia per il pezzo.
Whether you're a brother or whether you're a mother,
You're stayin' alive, stayin' alive.
Feel the city breakin' and everybody shakin',
And we're stayin' alive, stayin' alive.
Ah, ha, ha, ha, stayin' alive, stayin' alive.
Ah, ha, ha, ha, stayin' alive.
Intoniamo acuti strazianti da far accapponare la pelle a Mariah Carey, ma, in compenso, ci sbellichiamo dalle risate, e c'è addirittura un momento in cui Will si serve del suo telefono come microfono e si esibisce in un incredibile assolo, che fa sì che Colin si metta alla disperata ricerca di qualcosa da lanciargli addosso per farlo smettere. Io rido, rido, rido e rido, e penso che in questi ultimi giorni - in questi ultimi mesi - non mi sono mai sentita così leggera e felice come lo sono oggi. E devo tutto a questi due matti, che non ci hanno pensato due volte ad assecondarmi in questa cosa che di razionale non ha nulla. Una volta Colin mi assicurò che mi avrebbe seguita fino in capo al mondo, se avessi voluto e ce ne fosse stato bisogno. All'epoca non lo presi sul serio, e non avrei mai creduto che invece era onesto, sincero e assolutamente serio. Il navigatore ci conduce a destinazione senza intoppi, in quindici minuti esatti. Colin parcheggia nei pressi di un locale che si uniforma alle casette del quartiere in cui ci troviamo. La facciata è totalmente bianca, con i contorni e le finestre verde scuro. All'esterno c'è un'insegna gialla in cima a un alto palo bianco, che riporta il nome del "ristorantino" e gli orari di apertura: Shut Up and EAT! (Zitto e MANGIA!). Già solo dal nome mi viene spontaneo domandarmi come cavolo abbia fatto Will a trovare questo posto. Anche Colin sembra perplesso, non appena mettiamo piede fuori dalla vettura e lui imposta l'antifurto.
"Ma che cazzo..." sussurra, osservando il cartellone con gli occhi ridotti a fessura e una mano sulla fronte per ripararli dal sole.
"È al nono posto tra i duecentoventisei punti di ristoro di tutta Toms River. Ha anche un certificato di eccellenza. Quindi, zitto e entra" lo prende in giro Will, superandoci e addentrandosi per primo.
Io e Colin ci guardiamo sbigottiti, ma nessuno dei due fiata, e oltrepassiamo a nostra volta la porta d'ingresso. Male che vada, almeno mangeremo. Infatti, veniamo immediatamente investiti da un piacevolissimo profumino di bacon fritto e uova strapazzate. L'arredamento è molto singolare. Ci sono delle piastrelle quadrate bianche sul soffitto, sul quale sono saldamente istallati due ventilatori a quattro pale, che girano vorticosamente su se stessi. Il resto è affidato al caos. C'è una parete in fondo alla sala piena zeppa di fotografie; i tavoli sono predisposti un po' a casaccio, e ognuno presenta una tovaglia e delle sedie differenti; c'è un rotolone di Scottex, un porta-fazzoletti, una saliera, una pepiera e delle posate su ognuno di essi; sulla destra c'è un bancone - che dà direttamente su quella che presuppongo essere la cucina -, che presenta sull'architrave che lo sovrasta uno scaffale ricolmo di cianfrusaglie di tutti i tipi. E i camerieri... I camerieri indossano il pigiama.
"Sappi che, se non si mangia neanche bene, sto già pianificando il tuo omicidio" borbotto a Will, in un tono che dovrebbe risultare minaccioso, ma che non fa altro che farlo ridacchiare sotto i baffi.
Invece si mangia una meraviglia! Ci hanno subito accolto e fatto accomodare al primo tavolo libero che hanno raccapezzato, il servizio è stato impeccabile, e gli hamburger... Dio, gli hamburger. Insomma, tutto sommato, mi sono ritrovata a dover rimandare a data da destinarsi la progettazione dell'omicidio di William Thompson. Ma non è ancora detta l'ultima parola. Mentre io e lui siamo occupati con l'ordinazione di un caffè e una fetta di torta fatta in casa per ciascuno prima di andar via; e Colin sta parlando tra sé e sé facendo ragionamenti strani e calcoli mentali su quanta benzina deve fare e quando, se vogliamo tornare a Princeton e alloggiare lì o, a questo punto - siccome la distanza è pressoché la stessa -, tornare a Filadelfia e dormire ognuno a casa propria prima di decidere il da farsi, avviene l'impensabile. Una ragazza, che avrà all'incirca la nostra età, sposta la sedia libera accanto a Colin e ci si siede. Al che osserva il suo panino, rimasto interminato nel piatto e: "Lo mangi quello?" inquisisce. Colin, meravigliato, non dice niente, ma nega con la testa. Così lei afferra ciò che rimane dell'hamburger con entrambe le mani e ne addenta un enorme morso, facendo inorridire Will all'istante - è sempre stato un patito di germi e molto schifiltoso. Io sono a bocca aperta, scioccata non tanto dal fatto che si sia seduta con noi - quello è ancora passabile -, ma dalla disinvoltura e la noncuranza con le quali ora sta ingurgitando a grandi morsi il panino del mio migliore amico - che, per inciso, è ancora talmente sconcertato da non aver proferito parola alcuna. È davvero una bella ragazza. Ha la carnagione diafana, i capelli biondo dorato pressappoco più lunghi dei miei acconciati in un taglio volutamente spettinato e sbarazzino, un naso dritto e armonioso, una bocca piccola ma dalle labbra abbastanza carnose e due grossi occhi color verde ottanio che coronano l'incarnazione della perfezione vivente. Ma perché esistono ragazze così? Che fanno crollare l'autostima delle comuni mortali sotto i piedi? Ha persino un fisico magro e slanciato - e non si direbbe per niente, da come sta divorando quel povero pezzo di pane ripieno. Indossa una tutina cobalto - i cui pantaloncini arrivano a circa metà coscia - con i primi bottoni sbottonati - lasciando intravedere lo scollo sul seno prosperoso -, stretta in vita da una cinta di cuoio marrone, e delle Converse di jeans.
"Che avete da fissare tanto? Non avete mai visto una donna affamata nutrirsi?" ci richiama tutti, con il boccone in bocca, mentre mastica, per poi prendere un sorso del fondaccino di Coca Cola lasciato da Will.
L'espressione di terrore di quest'ultimo è indescrivibile. Smettiamo tutti di guardarla e, nel frattempo, torna la cameriera con i caffè mio e di Will e le due fette di torta. Inutile dire che, dacché gliene ho offerto solo un morso, la ragazza senza nome ha divorato tutta la mia. Il caffè mi guardo bene dal farglielo anche solo vedere, e lo bevo tutto d'un sorso, a costo di bruciarmi addirittura la lingua. Cosa che poi succede. Nessuno di noi ha avuto il coraggio di chiederle chi sia e cosa voglia. Probabilmente perché pensiamo tutti e tre la stessa cosa: ovvero che sia una svitata che mangia a sbafo e che potrebbe farsi venire un attacco isterico se le viene rivolta la parola.
"Quello non ve lo consiglio, tesoro. È un postaccio, e l'ultima volta che ci sono stata c'erano i topi sotto il letto. Non dovreste fare poi tanto affidamento su quei siti web: dicono un sacco di stronzate" commenta lei a un certo punto, spiando sul cellulare di Colin e, con ogni probabilità, realizzando che siamo alla ricerca di un alloggio per la notte.
Dopo quella sua osservazione, Colin sembra uscire dal suo stato catatonico, e trova, finalmente, il fegato di girarsi verso di lei e rivolgerlesi.
"Ma si può sapere tu chi cazzo sei?" la interroga, con il tono di voce calmo, ma con gli occhi di uno che è sull'orlo di una crisi di nervi.
"Ehi, datti una calmata, fenomeno: il mio era solo un consiglio" si difende lei, alzando le mani in segno di resa.
Seguono abbondanti minuti di silenzio, che viene rotto solo dall'arrivo di un cameriere che ci consegna il conto, per poi ripiombare subito due minuti dopo.
"Ora ti dico cosa so io: siete tre sprovveduti alla ricerca dell'avventura. Adesso, non ho idea di cosa stiate cercando - se una fortuna, un tesoro, o siate solamente semplicissimi viaggiatori -, e siete decisamente troppo 'maturi' per essere degli inutili adolescenti in protesta fuggiti di casa. Scommetto che il pick-up rosso fiammeggiante qui fuori è vostro. Quindi... A me serve una distrazione, e un bel viaggetto sarebbe proprio l'ideale. La ragazza dai capelli rosa porcellino e la coppia di adorabili amici gay mi è sembrata una grande opportunità. Ecco la mia proposta: io vi offro il pranzo, e voi mi portate con voi ovunque stiate andando. Pagherò le mie quote. Anche la benzina, se necessario. E poi, senza offesa, ma credo proprio che abbiate bisogno di una persona competente, qui" asserisce, senza mezzi termini e senza battere ciglio, la ragazza senza nome, lasciandoci tutti e tre ancora più scombussolati di quanto già non fossimo.
"Ma che..." prelude Will, ma io lo blocco sul nascere tappandogli la bocca con una mano e zittendolo.
"Puoi lasciarci qualche minuto da soli?" le domando io, con una pacatezza che, in tutta sincerità, non mi sarei mai aspettata da parte mia, sorridendole, rassicurante.
Lei annuisce, si pulisce le labbra con un tovagliolino di carta e si alza, avvicinandosi al bancone e iniziando a interloquire con la donna dietro di esso come se si conoscessero da una vita.
"Ma quella è matta!" attacca Will, quando la ragazza si è allontanata a sufficienza e io rimuovo la mano dalla sua bocca.
"Io non ci posso credere... Solo a noi capitano 'ste cose" considera Colin, ancora scosso dall'incontro.
"Sentite, per me si può fare" annuncio, e si voltano entrambi di scatto a guardarmi come se mi fossero appena cresciute altre due teste.
Faccio loro segno con una mano di lasciarmi finire, e rimangono in silenzio.
"A me sembra innocua, tutto sommato. Guardatela: sarà solo una ragazza del posto annoiata e con una vita monotona. Siamo in una cittadina, in fondo! Quanto pensate che sia esaltante, la vita, qui? Ha detto che ha bisogno di distrarsi. Magari le è capitato qualcosa di brutto, che ne possiamo sapere...-" principio, con tono ragionevole, ma Colin, al solito, interviene prima ancora che io possa concludere.
"Appunto! E se invece è una fuggitiva? Se è evasa di prigione e vuole lasciare lo Stato? Noi che ne sappiamo? Poi saremmo suoi complici! E che ne sa che noi non siamo dei maniaci sessuali? Si affida al primo che capita? No, Celeste, non me la conta per niente giusta" si lamenta, incrociando le braccia al petto come per avvalorare la sua tesi.
Will annuisce, d'accordo, e io sbuffo, poggiando i gomiti sul tavolo e avvicinando la sedia, in modo da essere sentita solo da loro.
"Ragazzi, andiamo. Vi prego, guardatela. Un'evasa parla così liberamente e tranquillamente con la probabile proprietaria di un locale? E si veste così? Non vuole scappare, vuole distrarsi. Certo, siamo partiti col piede sbagliato: lei è stata precipitosa e noi prevenuti, ma una seconda chance si dà a tutti, no?" chiarisco, pronunciando ogni parola lentamente e dolcemente, per far entrare meglio nelle loro teste i concetti.
E capisco di aver vinto quando si scambiano un'occhiata, sconfitti, e sospirano. Sorrido, soddisfatta, e le faccio un cenno con una mano per farla avvicinare.
"E il verdetto finale è...?" è la prima cosa che dice non appena riprende posto sulla sedia al fianco di Colin.
"Non colpevole. Ma ti tengo d'occhio, biondina" la avverte lui, puntandole l'indice di una mano contro con finto fare intimidatorio.
Lei scoppia a ridere di una risata genuina e gli porge una mano.
"Connie Bonnie. Sì, i miei genitori sono stati un po' stronzi con me" si presenta, stringendo la mano del mio migliore amico, che ride calorosamente a sua volta a seguito di quell'ammissione.
"Colin Turner. E se fai qualche battuta su Timmy Turner potrei seriamente rivalutare la mia primaria considerazione di te" la ammonisce una seconda volta, ma lei lo fissa con aria di sfida e: "Vedo che siamo pari in quanto a nomi che fanno cagare, ragazzino" osserva.
Io e Will ridacchiamo sommessamente, assistendo alla scena da spettatori esterni, fino a quando Colin non si ricorda della nostra esistenza e ci introduce a nostra volta alla nuova arrivata.
×××
Grazie a Connie siamo riusciti a trovare un Bed & Breakfast favoloso che dista solo quattro chilometri dalla Princeton e che, non solo aveva immediata disponibilità, ma - benché sia molto sofisticato - addirittura una camera con due letti matrimoniali, che verrà a costarci soltanto centosettantanove dollari. Che diviso quattro fa un prezzo alquanto equilibrato. Abbiamo sistemato in camera le nostre cose e ora, mentre ognuno usa il bagno a turno per darsi una rinfrescata - anche perché noi tre abbiamo ancora addosso il sale dovuto all'"immersione" di stamattina -, io sono sul letto ad armeggiare con il PC di Colin. Sto facendo il back-up dei dati che ci sono sul mio cellulare, perché il suo si è rotto di recente e, non avendolo fatto prima, ha perso ogni cosa. Vorrei semplicemente evitare di fare la stessa fine. Sono anni che non cambio cellulare, chissà quanta cavolo di roba sarà effettivamente accumulata qua sopra... Acconsento alla sincronizzazione delle foto, e le vedo tutte scorrermi rapidamente davanti agli occhi durante il procedimento. Prima le più recenti, tra cui alcune che abbiamo scattato stamattina in spiaggia. Poi ne passano alcune di me ed Evan, e mi si stringe un po' il cuore a rivederle. Sembravo così felice... Lo ero davvero? Quasi provo l'impulso di telefonargli. Per fortuna ho il buonsenso di bloccarmi in tempo. Sarebbe incredibilmente stupido e inopportuno. Sono io ad avergli chiesto una pausa. Non sono passati neanche cinque giorni da quando l'ho fatto. Non posso già tornare sui miei passi. Soprattutto perché quella chiamata non avrebbe per me lo stesso significato che avrebbe per lui. Intanto le immagini seguitano a scorrere e a susseguirsi rapidamente sullo schermo, fino a quando, a back-up quasi terminato, dopo più di mezz'ora di traffico delle foto più varie, non ne compare una che mi fa perdere un battito, per poi accelerare la corsa delle mie pulsazioni e farmi affluire il sangue alle guance. Peter. Io e Peter. Insieme. Mentre ridiamo in un autoscatto risalente al giorno del Ringraziamento di quell'anno, l'ultimo in cui l'ho visto. C'è anche la piccola Mary, che oramai è una donnina di quasi tredici anni. Mi si riempiono gli occhi di lacrime e mi si forma un groppo in gola difficile da digerire, quando appare sullo schermo una foto di me e lui che ci baciamo e di Mary che fa una smorfia buffa. Mi viene da vomitare. Mi ero completamente dimenticata dell'esistenza di queste fotografie. Sono sei anni che non le guardo. Eppure ce le ho ancora. E sono qui. Proprio adesso. Proprio adesso che avevo smesso di pensare a lui, almeno per un giorno. Proprio adesso che ero riuscita a mettere in pausa il cervello e a non nominarlo né pensarlo per una giornata intera. Non piangere, Celeste. Non qui. Non adesso. Non di nuovo. Mi mordo l'interno di una guancia e richiudo di scatto lo schermo del computer non appena Connie rientra in camera e si siede sul letto che condivideremo per stanotte. E, se ci rifletto, questa cosa ancora mi pare una follia, ma, d'altronde, sono stata io stessa a incentivarla. Mi asciugo rapidamente gli occhi e le sorrido, pregando con tutte le mie forze che non si sia accorta di nulla. Invece no. Mi osserva sospettosa e si schiarisce la voce.
"Ehi, Connie Bonnie, dove sei stata?" investigo, prima ancora che sia lei a cominciare con le domande, perché non so come reagirei, in quel caso.
"A fare un giro di perlustrazione. C'è un pub qui giù niente male. E sai una cosa? Ti ci vuole proprio una bella sbronza. Aspettiamo che i piccioncini siano pronti e poi ci diamo dentro, che ne dici?" propone, e io assento subito, perché devo disconnettere cuore e mente.
Soprattutto quando non ho ancora trovato un modo per rintracciare Peter. Soprattutto quando mi sento così impotente, senza alcuna idea riguardo cosa fare per porre rimedio a questa faccenda.
×××
Il pub/bar in cui ci ha portati Connie ha un non so che di familiare, ma, quando siamo entrati, ero così presa dal desiderio di bere qualcosa di estremamente forte, che non mi sono neanche premurata di leggere il nome scritto sull'insegna qui fuori. Siamo seduti tutti e quattro a un tavolino circolare, io sono al secondo Cosmopolitan e gli altri ancora devono ordinare qualcosa da bere. Connie, inspiegabilmente, ordina una bibita analcolica, e io aggrotto le sopracciglia, brilla ma ancora un po' lucida.
"Perché non bevi, te?" biascico, con la voce impastata e tirata di una che ha già imboccato la via dell'ubriachezza.
"Non mi va molto..." si giustifica, abbozzando un mezzo sorriso e sviando il mio sguardo.
Assottiglio gli occhi, e subito dopo mi lascio andare a una risata gutturale e per niente sobria.
"Ma fa' che sei astemia... - ipotizzo, pensierosa, prendendo un ultimo sorso dal mio cocktail, prima di fare cenno a un cameriere di portarmene un altro - Oppure sei incinta!" deduco, credendo, con la mente annebbiata, che il ragionamento non faccia una piega, per poi ridacchiare.
Lei spalanca gli occhi per un breve secondo, poi prorompe in una risatina isterica e nervosa e: "Ma che dici, Celeste, sei proprio ubriaca" attesta, continuando a ridere. Scrollo le spalle e attendo il mio terzo Cosmopolitan. Mentre lo faccio, getto un'occhiata distratta al bancone bar alla mia destra, e per poco gli occhi non mi escono fuori dalle orbite. In un nanosecondo è come se tutto l'alcool che ho in corpo defluisse e svanisse per magia. Mi metto in piedi e, rifilando una scusa stupida e incomprensibile perfino a me stessa a quei tre, in poche falcate sono già al banco, seduta sull'unico sgabellino rimasto libero. Come ho fatto a non rendermene conto prima? Sono una stupida idiota, ecco cosa sono. Passi pure l'ebrezza e la poca lucidità, ma ero nel pieno delle mie facoltà quando sono entrata qui! Che imbecille. Su un piccolo palchetto a sinistra sta suonando una ragazza, accompagnata da una chitarrista e una pianista, e la sensazione di déjà-vu che provo è così forte, che mi sembra quasi un sogno.
"Nuova band emergente?" chiedo, restando sul vago, ma con il cuore che mi batte all'impazzata nel petto.
Il bar-tender si volta, e, no, non ho preso una svista. Non mi guarda in faccia, però, intento a pulire il fondo di un bicchiere con uno strofinaccio. Déjà-vu.
"Sì, sono le Pinky Promises, ti piacciono? Sono qu...-" smette di parlare non appena alza gli occhi su di me, e per poco il bicchiere non gli cade di mano.
Ha la bocca aperta e la sua espressione è impagabile.
"Porca troia, Celeste? È passata una vita! Fatti abbracciare!" comanda, per poi liberarsi di straccio e bicchiere e fare il giro del bancone, per venirmi incontro e stringermi tra le sue braccia.
È esattamente come lo ricordavo. Alto, atletico, profuma ancora di tabacco, e non è cambiato di una virgola. Però si vede che sono trascorsi sei anni dall'ultima volta che sono stata qui.
"Vedo che ti piace proprio questo colore di capelli, eh?" mi sfotte, quando mi libera dalla sua stretta e si distanzia quel poco che basta per squadrarmi dall'alto in basso.
"Vedo che ti piace proprio questo lavoro, se sei ancora qui dopo sei anni" gli faccio notare io, ribattendo a tono e sogghignando.
"Touché. Ma sono il figlio di uno dei due proprietari. C'è una bella affluenza. D'estate serve una mano, e a me serve un lavoretto per arrotondare. Per cui, eccomi qui. Tu, piuttosto, qual buon vento ti porta da queste parti? Peter mi disse che eri partita per Parigi. Diciamo che me lo disse Ryan. Peter era parecchio scontroso in quel periodo. A proposito, come va tra voi due?" mi travolge con un fiume di parole e frasi che, per una che non ha ancora recuperato totalmente la razionalità, non sono facili da assimilare tutte insieme.
Tralascio la stretta al petto alla menzione del suo nome e della nostra storia. E devo essermi presa la sbronza cattiva, perché mi viene da piangere. Mi ricompongo velocemente e prendo un profondo respiro.
"È per questo che sono qui, Carl. Io... Le cose non sono andate molto bene, fra di noi. E lo so che è incredibilmente tardi e che sono una pazza a pensare che questa follia possa funzionare, ma io devo trovarlo, devo parlargli, devo..." ma non riesco a completare il discorso, perché vengo scossa da un singhiozzo.
Lui mi abbraccia d'istinto e mi accarezza la schiena con movimenti circolari di una mano, mentre mi stringe a sé e mi sussurra che andrà tutto bene. Ma sarà vero? È veramente possibile che possa andare tutto bene? Dopo stamattina mi ero quasi convinta del fatto che io non fossi infelice perché non c'era Peter, con me, ma perché non c'ero io. Che avessi bisogno soltanto di un po' di svago e tempo per me stessa, e che sarebbe tornato tutto alla normalità, poi. Ma chi voglio prendere in giro? Non sarei a piangere contro la maglia di Carl, altrimenti, sbornia o meno.
"Che ne dici di sederti un po' e parlare, uhm? Secondo me ti farà bene. Ti preparo anche uno di quei cocktail che ti piacevano tanto, che ne dici? Ti va?" mi consola premurosamente, e io acconsento e riprendo posto, mentre lui torna dal lato opposto della tavolata in legno e incomincia ad armeggiare con svariate bibite e miscele.
E va a finire che gli racconto tutto quanto. Nei dettagli. Nei particolari. Tutto. Non so se in condizioni normali lo avrei mai fatto. Ma deve aver capito anche lui che sono praticamente disperata. Ed è comunque un "amico" di vecchia data, no? Fatto sta che numerose ore e shot dopo, io sono completamente e totalmente ubriaca, e lui è al corrente di ogni cosa. Quei tre sono tornati al Bed & Breakfast un'oretta fa. Carl li ha rassicurati dicendo che mi avrebbe riportata lui in sede una volta finita la "chiacchierata". Ed è finita, adesso. La gola mi brucia un sacco a causa di tutto l'alcool che ho ingerito e delle parole che ho pronunciato. Sono esausta. Ho lasciato un ragazzo che mi amava e che mi dava solo certezze, per cercarne uno che non so neanche se pensa ancora a me e che è l'emblema dell'incertezza. Non lavoro da mesi. Ho in subaffitto un appartamento che è una catapecchia, e fa letteralmente schifo. Ho i soldi contati e sono partita per un viaggio senza meta e senza data di ritorno. Non ho neanche chiamato zia Flo per informarla dei miei piani. La mia vita sta andando in pezzi, alla deriva, e il bello è che ne sono perfettamente cosciente, ma sembra quasi che io stia facendo di tutto per accelerare il processo, anziché rallentarlo o arrestarlo.
"Io... Wow. Mi sento davvero inutile, in questo momento. Non so come potrei aiutarti, e lo vorrei davvero tanto. Ma l'ultima volta che ho avuto contatti con Peter è stata due anni fa, quando gli ho prestato l'appartamento di mio cugino a Chicago, perché altrimenti non avrebbe avuto dove stare e..." principia Carl, sentitamente dispiaciuto, ma, stranamente, ogni volta che si fa il nome di quel ragazzo è come se il mio cervello si resettasse e mi passasse immediatamente la sbronza; lo interrompo ancor prima che possa concludere la frase.
"L'hai sentito due anni fa. Sai dove abitava. Dio santo, Carl, dimmi che hai ancora il suo indirizzo" lo supplico - lo imploro, tecnicamente -, percependo una scintilla di speranza riaccendersi in me.
"Certo che ce l'ho! Vado a prendere carta e penna e te lo trascrivo, okay? Torno subito" mi intima, sparendo dietro una porta in legno con un cartello con su scritto "Privato".
Sopraffatta dalle emozioni e dall'alcool, mi lascio andare a un pianto liberatorio. Ma non sono triste. Sono sollevata. Non ho mai creduto nel destino, ma se non è un segno dal cielo questo... allora veramente non saprei cos'altro potrebbe esserlo. C'è ancora speranza. Posso trovarlo. Posso rivederlo. Posso riabbracciarlo. Posso risentire il suo profumo. Posso parlargli ancora. C'è ancora speranza. Grazie. Chiunque o qualsiasi cosa tu sia, grazie.
"And I'm not tryna ruin your happiness,
But, darling, don't you know that I'm the
Only one for you? And I'm not tryna ruin
Your happiness, baby, but, darling, don't
You know that I'm the only one?".
N/A
Hola, babies! Da qui ha ufficialmente inizio la seconda parte della storia!
Sembra che lo scorso capitolo abbia lasciato un po' di scompiglio, quindi questo spazio autrice è per i chiarimenti: è così corto perché è stato pensato e ideato apposta per essere così; è l'ultimo del genere dal punto di vista di Peter; se c'è ancora qualcuno confuso sull'identità o sullo scopo di Jane... Era fatto apposta anche quello😂
State tranquille, ho tutto sotto controllo e so cosa sto facendo😏
Detto questo, vi lascio in pace e alla prossima, stelle x
Ah, e ovviamente fatemi sapere cosa pensate del capitolo. Quello non guasta mai ;)
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