Domenica 7 Novembre 2021
Vi ho mentito. Ho detto che avrei scritto e non l'ho fatto. O meglio, mi sono fatta un trilione di seghe mentali in questi giorni senza concludere nulla. La verità è che scrivere senza imbrogli è difficile. Non è la sensazione di nudità a disturbarmi. È l'assoluta certezza che in qualunque modo io possa raccontare questa storia, voi non sarete ugualmente in grado di capirla. E forse è meglio così. Quando ho detto che sono composta per una buona percentuale di Meredith Gray non mentivo. La differenza è che delle grandi aspettative che avevo da bambina ne ho fatto una rassicurante e modesta quotidianità. Non sono mai riuscita a spingermi oltre me stessa e l'unico traguardo che abbia mai raggiunto per davvero è stato cercare di distruggere tutto e tutti e poi me stessa, in ogni modo.
Vi devo una storia oggi e ve la darò, così come era stato deciso sin dall'inizio.
Il cimitero dei giocattoli
A tre anni ero convinta che tutti i giocattoli possedessero un'anima e ne ero terrorizzata.
All'asilo era all'ordine del giorno che qualche giocattolo si rompesse e venisse lanciato o cadesse oltre la cancellata del giardino. E nessun bambino osava guardare sotto, infilare la testa nella cancellata e sbirciare la piccola discarica di plastica e tessuto che si era formata nel tempo. Questo perché, che si dicesse o meno, eravamo tutti convinti che Toy Story fosse realtà. Ma non nel senso di una bella favoletta, nel senso più noir del termine!
Del tipo:
Loro risorgono, ci trovano e ci uccidono. Fine.
Per questo motivo, decidemmo di comune accordo di non giocare più in prossimità della cancellata e di non parlare mai, mai, mai più del cimitero dei giocattoli.
E una volta dimenticato tutto, anche la paura svanì col tempo.
Sylvia L.G. Roth
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