7. Sanza infamia e sanza lodo

"È davvero sicura che sia un progetto affrontabile all'interno di una tesi triennale? Penso che lei non si renda conto della complessità di quello che ha in mente. Potrebbe procedere con un progetto molto più semplice di tipo compilativo. So che ha ottenuto degli ottimi risultati in Storia del Voudou 1 e 2, potrebbe pensare a una ricerca su qualche particolare praticante".

"Sì, mi rendo conto che si tratta di qualcosa di raro per una tesi triennale. Ma le assicuro che ci sono molti testi. Preferirei rimanere sull'ambito dello sciamanesimo. In fondo, in base alle fonti del Tredicesimo Secolo, nei trattati di Madonna Savia viene chiaramente riportata una comparazione dei comportamenti dei famigli con quello degli animali del pascolo legati al loro pastore. Si tratterebbe, semplicemente di trasporre lo stesso tipo di ricerca con degli animali domestici".

"Stiamo comunque però parlando di un testo del 1200. Da allora è stato scritto molto altro".

Kizia si trattenne dallo sbuffare e risolse la rispostaccia che le covava in gola con un sorriso appena accennato. "Davvero, mi creda, me ne rendo conto. Quello che vorrei capire è se posso pensare di proporre lei come mio relatore primario".

"Primario?" chiese sempre più allibito il professore. Sembrava un piccolo omino imbalsamato, chiuso in quell'ufficio che sembrava tanto l'antro di una fattucchiera da fiera di paese. "Perché ne vorrebbe anche uno secondario? Kizia, sarò sincero. Tutto questo mi sembra irrealistico. Ne ha già parlato con il professore di Teoria del mondo degli spiriti?".

"Certo. E mi ha già detto di no anche lui. Lei sarebbe davvero l'ultimo nel dipartimento di Sciamanesimo che potrebbe essere un relatore con cognizione di causa" esalò. Non si sarebbe mai permessa di fare questo tipo di affermazione con qualcun altro, ma Hairon era IL professore padre del dipartimento, con la sua piccola testa pelata con qualche sparuto rimasuglio di capelli, il completo in tweed anche ad agosto e gli occhi di due colori diversi, giusto per mettere gli studenti ancora più a disagio. Era bizzarro? Sì. Era un assoluto luminare dell'Evocazione? Altrettanto sì.

"Mi dispiace. Capisco che tu abbia una visione ben chiara di quello che vuoi da questa tesi, ma non penso di poterti aiutare. Ho già sei tesisti per quest'anno e non penso riuscirei a gestire un progetto così impegnativo".

Non c'erano parole più finali di così e Kizia rinunciò al suo piano originario di convincerlo a tutti i costi. In fondo, se anche ce l'avesse fatta, aveva capito che non aveva la minima intenzione di dare credito al suo progetto.

"Tutto solo perché è una tesi triennale!" aveva detto quella stessa mattina ad Alma. La donnola l'aveva guardata in attesa del prosieguo dello sproloquio che ben conosceva. "Fosse stata una tesi di dottorato non farebbero così i preziosi. E non mi guardare così, Almita, lo so benissimo che non è una tesi di dottorato. Ma potrebbero anche far finta per cinque secondi che lo sia". Kizia era certa che se Alma fosse stata lì le avrebbe rivolto lo stesso identico sguardo.

E così si era trovata, imbronciata, seduta al gazebo di Tibu per l'ultima settimana di volantinaggio, con le braccia conserte e un morale da funerale di stato. Era seduta dritta come un fuso avvolta nella sua mantella di lana cotta, con un thermos di tè caldo accanto e le sopracciglia pericolosamente inclinate verso la radice del naso. Fossero state fuori dalla Scuola Magica non ce ne sarebbe stato bisogno, ma dato che si erano argutamente piazzate proprio a lato dell'ingresso principale della Politecnica, tali misure erano strettamente necessarie. L'aria corrucciata e gli sguardi in tralice erano sufficienti a tenere lontani detrattori indesiderati, vogliosi di rissa, ma codardi a sufficienza da non dar battaglia proprio di fronte all'ingresso del loro piccolo palazzo della conoscenza.

"Patetici" borbottò fra sé e sé, prendendo un sorso dal thermos che Livia aveva portato. Era ovviamente Posca calda. E se c'era qualcosa che Kizia tollerava poco era quell'odore di aceto scaldato che saliva per le narici ogni volta che respirava. Tuttavia, Livia sembrava stranamente servizievole e non voleva offenderla. Poi conosceva le proprietà disinfettanti dell'aceto e dato il clima, un pochino di disinfezione a gratis non faceva male. Cato se ne stava impavido con la sua pettorina colorata sopra la giacca a placcare chiunque passasse da lì. Quando Kizia li aveva raggiunti dopo ricevimento erano le quattro e mezza di pomeriggio. Se pensava che per andare da quel vecchio barbogio aveva addirittura perso il pomeriggio di studio con loro le veniva l'orticaria.

"Che?" chiese Ibrahim, che invece nemmeno ci provava ad avere un contegno. Era stravaccato, con il telefono in mano, e di tanto in tanto alzava una mano a salutare quelli che passavano.

"Niente" rispose nel tono più cortese che le uscì. Ma non dovette essere troppo convincente perché il ragazzo distolse lo sguardo dal cellulare e si mise a braccia conserte facendole il verso. "Che c'è?".

"Niente davvero, Ibrahim. Non serve fare il terzo grado".

"Ti ho solo letteralmente chiesto se c'è qualcosa che non va, ma se non ne vuoi parlare non c'è problema". Alzò le mani e tornò a guardare il telefono e Kizia apprezzò silenziosamente il passo indietro. Pallia non si sarebbe arresa così facilmente. Le uscivano nuvolette fredde dal naso ogni volta che respirava e si sentiva il naso un pezzo di ghiaccio. Per essere la fine di settembre l'aria si era fatta gelida abbastanza in fretta. Bevve un altro sorso di Posca e storse il naso mentre Chanej tornava al tavolo. Sbatté sul tavolo la pila di volantini non distribuiti. "Spero solo che le cose stiano andando bene a Tibu. Queste riunioni sono mediamente infinite".

"Copriti che poi ti prendi la peste" le disse seccamente Kizia lanciandole la sciarpa che aveva dimenticato lì alla postazione seduta. La ragazza la prese al volo e iniziò ad arrotolarla al collo. Ci mancava solo che si ammalasse di nuovo, come quando l'anno prima aveva avuto la geniale idea di andare a fare un'evocazione notturna al parchetto dei tossicodipendenti e si era beccata un febbrone da cavallo. Avevano dovuto farle da balia in università per una settimana buona per evitare di lasciarla a casa e farle perdere le lezioni e tutorato. Cato stava anche lui abbandonando la posizione, e non a torto, dato che ormai non stava passando quasi più nessuno e ci avrebbero messo una buona mezz'ora a chiudere il gazebo e rimettere tutto nelle borse. Cato allungò la mano e abbassò il cappellino di lana di Chanej sugli occhi della ragazza, cosa alla quale lei rispose con un manrovescio totalmente istintivo che lo colpì in pieno petto. "Non romperti una mano, già che ci sei. Forza dobbiamo chiudere".

"Potresti anche essere meno palo in culo, sai" le disse ridacchiando Chanej. L'avrebbe tanto tanto voluta insultare, ma sapeva che lo stava facendo solamente per distogliere l'attenzione di tutti dal fatto che era triste. Sapeva perfettamente che non voleva discuterne e non le stava correndo dietro con i fazzoletti in mano per raccogliere la storia strappalacrime.

"Ci sono nata così, mi spiace" disse, sospirò, e poi iniziò a staccare i cartelloni dal fronte del gazebo con un pigro gesto della mano. Tutti e quattro i cartelloni attaccati su lastre di polistirolo, si slegarono da soli come servi ordinati, le puntine si staccarono dal polistirolo e andarono a posizionarsi in fila sul tavolo. Da ultimo i quattro cartelloni si arrotolarono e si legarono da soli con gli elastici.

Ibrahim si alzò e guardò subito che non ci fosse nessuno nei paraggi. "Speriamo non ci abbia visto nessuno".

"E anche se ci hanno visto non è colpa mia se hanno vissuto sotto un sasso per trent'anni e ignorano la nostra esistenza".

Chanej intervenne, raccogliendo i cartelloni fluttuanti e mettendoli nella borsa di stoffa. "Non ti preoccupare, non ci hanno viste. Non c'è nessuno qui attorno che ha cattive intenzioni".

"E lo sapresti perché hai posizionato delle rune magiche che controllano i malintenzionati?" chiese Cato mentre iniziava a tirare fuori da sotto il tavolo le borse nere dove riporre il gazebo.

"No, semplicemente perché non ha urlato nessuno. Chiederemo poi a Pallia se ha avuto strani presentimenti" rispose Kizia.

"Voi avete qualche potere strano come lei? Nel senso, sapete fare anche voi cose che non rientrano nella magia base?" chiese Ibrahim, più incuriosito da quella conversazione che dal mettere tutti i volantini a posto e smontare il tavolo di plastica.

"Difficile a dirsi. Molti si manifestano come attitudine e potresti non accorgertene finché qualcuno non ti fa notare che, ehi, non tutti lo sanno fare".

"Nel mio caso – disse Kizia – penso sia un'affinità con gli animali. Ma non ho mai fatto nessun rito per controllare e non penso lo farò". Fece spallucce.

"Comunque Livia sta arrivando per darci una mano".

"Deogratia. Così possiamo smontare questo trabiciaccolo del demonio. Odio questo gazebo. È pure arancione".

"Ma il colore della sua campagna!" rispose Cato.

"Fa comunque schifo, non mentire a te stesso" gli rispose Chanej.

Kizia uscì da dietro il tavolo iniziando a spostare tutte le borse e zaini che avevano cacciato dietro le sedie, per procedere allo smontamento. Una figura col baschetto rosso stava arrivando di buon passo, saltellando quasi tra un passo e l'altro. Kizia passò un fazzoletto sull'imboccatura e poi avvitò bene il tappo del thermos, pronto a ridarlo alla sua legittima proprietaria. Non era ancora riuscita a inquadrare del tutto Livia, ma le sembrava una brava ragazza con un senso dello stile tremendamente umano. Ma nel mondo si potevano perdonare molte cose, quindi anche quello. Il fatto che gli umani pensassero che l'unico modo decente di andare in giro in università fosse con cose marroncine, grigine, bianchine, verdine, la stupiva. Tutto così neutro e così ingessato. Capiva molto bene come mai avessero praticamente strabuzzato gli occhi a vedersi arrivare Tibu con i volantini. Sperò in cuor suo che la sua finta maxipalliccia con i bordi gialli causasse almeno un incubo a qualcuno.

"Eccomi qua, ciao tutti!"

Tutti la salutarono e Kizia le passò il thermos. Livia lo prese e si chinò per infilarlo in cartella. "Come è andata?" chiese nel frattempo.

"Non benissimo – rispose Cato – abbiamo dato via circa sessanta volantini".

"In due ore? Solo sessanta?!" chiese lei sconvolta. "Non siete abbastanza aggressivi!".

Kizia vide Chanej guardare male l'umana per un millesimo di secondo, per poi tornare a concentrarsi sul mettere tutto a posto. "Aspetta, oggi ho letto che c'è stato un casino nel tuo dipartimento. Spero non ci siano stati problemi" disse Kizia, non appena le venne in mente. Aveva letto l'articolo su un quotidiano digitale proprio quella mattina, e ovviamente tutti ne avevano parlato in università. Le vittime dell'atto erano stati due ragazzi, uno strigo e una strega, unici studenti magici di tutta la Politenica, nonché i primi dopo tre anni di vuoto. Già la cosa di per sé le faceva venire la nausea a pensarci, ma d'altronde a cosa servisse a uno strigo studiare per mettere assieme due mattoni, non lo sapeva.

"Ah, l'avete saputo anche voi" disse Cato, alzando la testa dai borsoni.

"Era sul giornale – rispose Chanej – dato che hanno intervistato i due ragazzi che sono stati presi di mira. Certo che devi proprio avere la faccia come il culo per fare una cosa del genere. Non siamo nel milletrecento, ma alla gente piace dimenticarselo".

"Purtroppo è frutto di una mentalità retrograda e balorda che è davvero difficile da debellare" rispose Cato.

"Non parlare come se non fossi umano anche tu" lo redarguì Kizia. "Non vi chiediamo di negare la vostra natura, solo di avere un po' di decenza". Stava per parlare di nuovo poi si accorse che Livia non aveva risposto e che, anzi, la stava guardando. Pallida. Una piccola lampadina sospettosa si accese nel cervello di Kizia, già sempre troppo sospettoso e troppo febbrile di suo per lasciarsi sfuggire un'occasione del genere. Gli altri non stavano guardando direttamente da quella parte, quindi non potevano essersene accorti.

"Secondo te hanno capito chi è stato? Mi sembra strano che nessuno supporti l'accusa fatta dai due studenti". Lo disse appositamente senza emozioni, fissando lo sguardo in mezzo alla fronte di Livia. "Immagino tu non ne sappia niente".

Livia aprì la bocca. Rimase ferma un attimo e poi la richiuse. Deglutendo.

"Potresti almeno sforzarti di dire qualcosa, renderesti la scena meno ambigua"

"Non so cosa potrei dire. Non possono formulare un'accusa formale senza testimoni" esalò finalmente Livia stringendosi lo zaino dove aveva richiuso il thermos al petto.

"Sto solo sperando che tu non c'entri niente" concluse Kizia rimettendosi a lavorare. Aveva davvero troppi pensieri e troppe cose per la testa per mettersi a fare da spettatrice al dramma interiore di un'umana. Soprattutto se quel dramma interiore si declinava in termini di: non so se mi devo sentire in colpa perché nel mio dipartimento trattano male le streghe. La risposta più istintiva sarebbe stata la rabbia, ma quella Kizia la covava per le situazioni speciali che meritavano il giusto grado di apocalisse in stivaletti retrò. Ibrahim si mise a iniziare a staccare la tela cerata dalla parte superiore del gazebo, essendo l'unico che ci arrivava comodamente senza salire su una sedia, a parte Tibu. Kizia stava per andare a dare una mano, lasciando Livia con i suoi privilegiati dubbi, quando la sentì rispondere, a scoppio ritardato.

"In realtà ho visto cosa è successo".

Fu un sussurro, niente di più ardito. Ma di sicuro spostava pericolosamente la definizione della situazione da "ambigua" a "sgradita". Sapeva quali erano i risultati di una discussione del genere e in media non erano positivi, lasciando pensieri a suppurare indisturbati nel suo cervello per giorni.

"Eri presente?" chiese, cercando il più possibile di sembrare semplicemente interessata, non sulla difensiva.

Livia sembrava più concentrata sulla difficoltà di trovare le parole che sull'espressione della sua interlocutrice. "Sì, ero a studiare lì vicino. Non è stata una bella scena".

"È per questo che non sei venuta al pomeriggio di studio quel giorno?"

Livia annuì. "Non avevo mai assistito a una cosa del genere. Mi ha turbata molto".

"È giusto che scene come quella mettano a disagio. Perché non sono e non dovrebbero essere accettate" rispose secca. Certo che doveva essere turbata. Si sarebbe stupita del contrario.

"Ripensandoci avrei potuto almeno dire qualcosa".

"Cosa scusa?"

"Ero lì, e avrei potuto dire qualcosa. Però ho fatto denuncia e dovrebbe essere già arrivata al rettore".

"No, no. Torna indietro di un passaggio. – la interruppe Kizia, il tono di voce lievemente più alto di prima – Tu eri direttamente presente e non hai detto nulla?".

La frase colpì come uno schiaffo Livia in pieno viso e anche gli altri la sentirono perché immediatamente Chanej si avvicinò con le braccia conserte, piazzandosi a triangolare la situazione. "Tutto a posto?" chiese dubbiosa.

"Sì" stava rispondendo Livia. Ma Kizia le parlò sopra, ignorando la parentesi. "Tu eri presente e non hai detto una singola parola?". Livia si bloccò come si era bloccata prima e finalmente Kizia riuscì a mettere assieme il quadro della situazione. Non era stato un moto di buon cuore a spingere Livia dal rettore a chiedere per la campagna di Tibu, era stata la colpa.

"Di cosa state parlando?" chiese Chanej. Dal tono sembrava aver capito che la questione non era posta in termini amichevoli, almeno da un lato.

"Hai letto sicuramente dei due studenti che sono stati umiliati e cacciati via da una zona studio della Politecnica".

Chanej annuì. "Sì, una dei due è la cugina di Mitterpia, del quinto anno".

"Lei era presente – continuò Kizia – e non ha detto una sola parola". Chanej fece automaticamente un passo per mettersi accanto a Kizia, non più in mezzo tra le due, e Livia provò a spiegarsi.

"Ho detto che ero molto spaventata e comunque ho mandato la mia denuncia in forma scritta al garante degli studenti".

"Non l'avevi mandata al rettore?". Livia rimase a bocca aperta e si corresse immediatamente.

"Al garante. Mi sono confusa. L'ho mandata il giorno stesso".

"Sai chi era molto spaventato il quel momento? I due studenti. Non tu, seduta al tuo posto ad assistere a un atto del genere, muta come un pesce".

"Davvero vuoi solo metterla giù in questi termini? Ti ho detto già due volte che la denuncia è stata fatta!"

"E poi sei corsa dal rettore, divorata dai mastini della colpa, a piangere per questo posto sul piazzale. Pensi davvero che questo basti a lavare via anni di silenzio e intolleranza?" sibilò Kizia puntandole un dito contro. Livia era sull'orlo di piangere ma cercò di darsi un contegno.

"Mi sono sentita in colpa, e volevo rimediare. Non puoi imputarmi una buona azione".

"Lo spazio qui, la posca da bere calda, i volantini ritirati in copisteria. Queste non sono buone azioni, è avere una lunghissima coda di paglia. Perché ti volevi far perdonare senza nemmeno dirci cosa era successo. Se ci pensi è anche peggio. Cosa vorresti imparare esattamente nel progetto collaborativo, di grazia? Cosa? Se poi l'idea stessa che ci sta alla base, il rispettarci come pari, lo accantoni proprio nel momento in cui dovresti fare qualcosa?". Livia non fece nemmeno in tempo a mettere assieme le parole che Kizia tornò all'attacco. "Cosa ti avrebbe spaventato esattamente? L'essere improvvisamente diversa dalla norma che hai attorno? Mettiti in fila. La norma non è giusta! È sbagliata alla radice, ma è facile dimenticarsene quando puoi tornare a casa senza preoccuparti che qualcuno in quel momento stia votando a caso suoi tuoi diritti di esistere".

L'umana non aprì bocca e Kizia decise che semplicemente ne aveva abbastanza. "Ora non venirmi a dire che la denuncia era pure anonima. Sarebbe il fondo del barile". Quando vide la ragazza abbassare la testa capì che era stata una cretina a pensare davvero che queste persone potessero capire quello che per loro era stata una lotta lunga secoli. Non avrebbero mai potuto capire il dolore in sole tre settimane di studio assieme. Una volta usciti dalla classe tornavano gli umani di prima, paurosi di cambiare le cose solo perché le cose andavano loro bene.

"Complimenti, davvero" disse Chanej, e Kizia vide che stava guardando Livia. Ibrahim e Cato si erano avvicinati ma non osarono dire nulla. Le lasciarono passare e Cato fu sul punto di dire qualcosa, ma fu bloccato da Ibrahim. "Riportiamo noi il gazebo a Tibu domani, non vi preoccupate" disse, e Chanej annuì mentre recuperava il proprio zaino. Kizia era rossa in viso e in quel momento avrebbe solamente voluto prendere a schiaffi l'universo. Era davvero così tanto chiedere una sola, non mille, una cosa che funzionasse a dovere nell'esistenza, o era troppo?

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