10. Sputa il rospo
La tensione era ancora estremamente palpabile e Cato sembrò strano che volesse davvero fare lezione, ma dall'altro lato capiva quanto fosse necessario mettere nero su bianco cosa fosse successo.
Si spostarono tutti verso la loro aula e si sedettero ai soliti posti, ma la professoressa scosse la testa. "No, oggi stiamo in piedi. Aiutatemi a spostare i banchi". Cato guardò confuso Adriano, che sembrava confuso tanto quando lui. "Forza, non state lì a guardarvi, datemi una mano". Appoggiarono le borse sui tavoli e li spostarono lasciando il centro dell'aula libero. Nemmeno le altre sembravano aver ben presente cosa stesse succedendo, in particolare Chanej sussurrava a Kizia, la quale invece non sembrava aver voglia di parlare. La sua bocca era tesa in una linea quasi invisibile. Pallia invece era impettita con le braccia sui fianchi, pronta ad affrontare qualsiasi cosa.
"Chi vuole spiegare cosa è successo, secondo lui o lei".
Adriano fu il primo ad alzare la mano. La professoressa gli concesse la parola. "Discriminazione".
"Sì. Di che tipo?" chiese di nuovo la professoressa. Adriano rispose di nuovo: "Etnica".
"Esattamente – disse la professoressa nel mezzo della classe completamente silenziosa, - e penso capiate tutti quanti le implicazioni di un atto del genere. Voi, soprattutto voi streghe, potreste star pensando: cosa ci viene a dire questa donna umana sulla discriminazione? E avreste anche le vostre buone ragioni per pensarlo. Ma lasciate che vi racconti una piccola storia sul perché mi sono laureata in studi di Etnologia quando ancora non andava di moda".
Cato rimase colpito. La facoltà di studi di Etnologia era un argomento controverso e molto discusso da quando aveva memoria, sia da quelli che ne vedevano l'utilità, sia da chi invece ne criticava l'esistenza o l'organizzazione. Per anni era stata una facoltà con una netta maggioranza di iscritti umani, rendendo la cosa ridicola di per sé. Aveva sempre pensato che la professoressa fosse laureata in letteratura, come la maggior parte di quelli della sua generazione che erano finiti a insegnare in università o al liceo, di certo non si sarebbe mai aspettato una sorpresa del genere. Ora era davvero curioso di sapere e dalle espressioni di tutti non era il solo.
"Sono nata a Triora, nella provincia di Imperia. Sì, esattamente. Il borgo delle streghe. E sono umana, di famiglia umana, tecnicamente. Anche se, durante gli scontri armati degli anni Cupi, quando io ero piccola, a quanto pare un pezzo di casa è caduto addosso ai miei. Non c'entra il fatto che la mia sia stata una storia tragica, perché potreste chiedere a tutti i vostri genitori e sono certa troverete più di una storia non troppo diversa dalla mia. Fatto sta che i miei nemmeno me li ricordo troppo bene, ma ricordo molto bene il fatto che sono stati uccisi perché umani. E sarei rimasta a marcire in una casa pubblica se non fosse stato che alle streghe che gestivano una comunità appena fuori dal borgo, l'idea di lasciare una bambina umana da sola solo per il fatto che era umana, non piaceva troppo. Sono cresciuta all'interno di una comunità magica entro cui mi è stato insegnato, da quelle streghe e strighi che io considero come genitori, che non tutti sono come quelli che hanno organizzato di uccidere i miei solo perché umani. Perché loro avrebbero potuto abbandonarmi solo perché umana. Io avrei potuto odiarli solo perché magici. Avremmo continuato a nutrire la stessa spirale d'odio che loro stessi cercavano di fermare. Quello che sto cercando di dirvi è che voi, proprio esattamente voi che siete in piedi in questa stanza, siete la speranza di tutte quelle persone la cui voce non si è sentita per decenni, quelli a cui non importa chi è arrivato prima nella penisola. Importa solo che vi si possa convivere in serenità".
Nessuno osò aprire bocca dopo di lei e Cato fece scorrere lo sguardo sugli altri, in piedi a braccia conserte, con gli occhi fissi sulla professoressa come se la vedessero la prima volta. Un'umana cresciuta dalle streghe. Non pensava di aver mai sentito una cosa del genere, e nemmeno si era mai chiesto se succedesse. Come se avesse sempre dato per scontato che la base di tutte le interazioni fosse l'odio o un trattamento di sufficienza. Non si era mai chiesto cosa avesse davvero portato a cercare di collaborare. Poi riprese a parlare.
"Quello che è successo oggi è un atto oltraggioso, risposta a un altro atto oltraggioso che penso abbiate presente. Hiachima e Milder sono stati pubblicamente dileggiati, picchiati e i loro effetti personali danneggiati, solo per il fatto che una frangia estremista degli studenti dell'università Politecnica voleva dimostrare loro che quello non era il loro posto. Sembrerà assurdo ma ai magici, nel caso non lo sappiate, è permesso frequentare le stesse istituzioni scolastiche degli umani da trent'anni. L'università politecnica ha aderito di fatto a questo tipo di legislazione, non senza pochi problemi, da venticinque anni. Sono andata a cercare quanti studenti magici ci sono stati alla politecnica negli ultimi venticinque anni, e la risposta è diciotto. Meno di uno all'anno, e di questi diciotto solo sette hanno completato la triennale. Solo due hanno continuato e sono riusciti a concludere la magistrale. Due soli magici ingegneri in venticinque anni. Secondo voi come mai se ne sono andati prima?"
Cato alzò la mano, colmo di vergogna, ma vide che tutti gli umani l'avevano alzata. Con un cenno della mano la professoressa indicò Ibrahim.
"Perché si vedevano minacciati dalla presenza degli umani. Come se non avessero diritto di essere lì".
"Precisamente" rispose la professoressa, poi batté le mani e rimase un attimo ferma. "Ora faremo un esercizio particolare, nulla di troppo difficile. Voglio che voi, uno alla volta, diciate cosa non vi piace rispetto alla comunità opposta. Voglio che tirate fuori tutto, perché senza una comunicazione di questo tipo tra le persone che potranno magari sanare questa ferita non si andrà da nessuna parte. Incominciamo alla mia destra, quindi prego, Pallia".
Tutti si voltarono verso di lei, e lei spalancò gli occhi, aspettando che la risposta le venisse in mente. "Bhe, la nostra generazione non ha fronteggiato così tanta segregazione rispetto a quelle precedenti, però per esempio mi dà fastidio tantissimo l'idea che lo Stato pretenda da noi l'adozione di un cognome. Non è parte della nostra tradizione, non è parte di chi siamo. Non vedo perché dovrei essere costretta a usarne uno solo perché voi invece lo fate".
"Questo è un ottimo punto, Pallia. Grazie".
Cato nemmeno sapeva che le streghe non avessero cognomi, ma in effetti non li aveva mai nemmeno sentiti nominare in classe. Aveva temuto che potesse essere una cosa più traumatica, invece l'inizio della discussione prometteva bene.
"Prego, Ibrahim. Se vuoi continuare tu"
Il ragazzone si accarezzò la barba poi sembrò voler dire qualcosa, si bloccò, poi osò parlare. "Mi sembra assurdo che la comunità magica non voglia partecipare alla ricerca contro le malattie. Come se solo voi poteste tenervi il segreto per combattere certe cose". Un macigno cadde sulla stanza.
"Anche questo è un'ottima osservaz-"
"Questo perché fino a cinquant'anni fa nemmeno ci facevate entrare negli ospedali, ci lasciavate a morire a bordo strada piuttosto che curarci decentemente" disse Kizia, acida. "Non ci avete fatto praticare liberamente il nostro tipo di medicina per secoli, e ora improvvisamente volete l'elisir di lunga vita? Non funziona così, tesoro".
"Kizia, per favore. È una discussione ordinata e faccio io le regole qui. Parlerai quando è il tuo turno". La strega ridusse le labbra a una linea dritta con la mascella contratta, come se si stesse mangiando la lingua e le costasse fatica tacere. In generale l'atmosfera era improvvisamente più pesante.
"Chanej, prego".
Cato la osservò giocherellare con gli anelli che portava alle mani, forse avevano un significato forse no. Sospirò e spostò tutto il peso su una gamba sottile. Fece scorrere gli occhi truccati sulla fila di umani. "Ci avete privato dei nostri simboli, delle nostre rune e delle nostre lingue. Ci avete per secoli costretti a imparare la vostra lingua punendoci se non lo facevamo. Ancora oggi si rischia la sospensione a parlare una delle nostre lingue in un istituto scolastico, ma non succede quasi mai perché non sappiamo più parlarle. E poi prendete le nostre rune e le spiaccicate ovunque, sulle magliette, sulle insegne, sulle collane, e ve le regalate. Poi però addosso a una strega sono il simbolo del male. Ci avete preso tutto e poi ci incolpate di voler avere una nostra identità culturale. Vi piacerebbe se noi da un giorno con l'altro decidessimo di obbligarvi a dimenticare il latino?".
Un altro colpo di maglio. Si avvicinava il suo turno e ora aveva paura di cosa avrebbero detto le altre. Si stava formando nella sua testa, tuttavia, un'idea. Cosa avrebbe risposto? Le parole erano lì, in quell'angolo del suo cervello, annidate tra le ragnatele di vecchi retaggi che nemmeno si era reso conto fossero lì. Chi le aveva piantate lì dentro quelle idee? Poi la professoressa chiamò Livia.
"Gli attentati degli anni Cupi sono stati tra i più efferati che la storia abbia mai visto. E li avete organizzati senza nemmeno stare a pensare alle vite civili sacrificate per la vostra lotta. Gente che davvero non c'entrava nulla. Mio nonno è morto così a Bergomum. Hanno dato fuoco alla palazzina dove viveva. Aveva una coloreria, faceva il mescolatore di pigmenti per pittori e tintori e aveva il laboratorio in casa. È esploso come una bomba. E poi i capi dei partiti politici magici nemmeno una parola. Non una di finto cordoglio, perché non ne avevano da offrire. Mia nonna ricevette le minacce scritte poi, i giorni dopo: Dovevi morire anche tu. Solo perché avevano un negozio e farli morire sarebbe stato un segnale forte".
"È lo stesso identico trattamento che avete riservato a noi".
"Non abbiamo mai dato fuoco alle vostre case"
"Ci avete solo impalato sui roghi" sputò acidamente Pallia.
"Ordine! Pallia hai già parlato. Livia, vuoi un fazzoletto? Sicura? Grazie di aver condiviso questa cosa. Come vedete abbiamo tutti il sacco da vuotare. Tibučin, è il tuo turno".
"Per la mia religione e per come viviamo nella nostra comunità è profondamente sbagliato portare rancore nel cuore, ma è anche un oltraggio agli antenati dimenticare. E la nostra tribù non ha mai dimenticato le frustate pubbliche, la profanazione dei nostri giardini, l'uccisione dei nostri animali, i roghi nei nostri frutteti. Sì, non avete dato fuoco alle nostre case, ma siete riusciti a fare altrettanto danno. Tutto ciò che c'era di puro l'avete rovinato. Non possiamo celebrare il Sabba o Yule senza andare al parco cittadino e celebrare il rinnovo della vita davanti a una fontanella pubblica dove urinano i senza tetto. La nostra connessione con lo spirito stesso della natura è considerata una follia da drogati, come se non fosse una ritualità passata di generazione in generazione da secoli. E voi pensate davvero che noi abbiamo dimenticato. Cagate nel nostro tempio sacro e poi vi lavate le mani prima di entrare nel temenos. E per quanto questa cosa mi faccia arrabbiare, andrò comunque a denunciare quello che è successo oggi come rappresentante. E sapete perché? Perché non voglio che altri Simači come me subiscano lo stesso trattamento. Perché voglio costruire un ponte. E sappiate che in certi momenti mi costa".
"Se vorrai potrai parlarci della tua tribù durante una delle prossime lezione, Tibučin" rispose tranquilla la professoressa. Cato notava che nonostante l'imbarazzo che si poteva tagliare con un coltello e la durezza delle accuse da uno e dall'altro lato, il viso della professoressa era immutabile. Una maschera di comprensione come se avesse già sentito tutte le cose che stavano dicendo in un altro tempo e loro non fossero altro che megafoni di idee di altri. "Cato, è il tuo turno. Ti vedo pensieroso. Cosa hai da dire?"
"Non vorrei offendere qualcuno, davvero"
"Ci stiamo chiaramente tutti offendendo a vicenda, non vedo perché tu potresti esimerti dai tuoi pensieri potenzialmente offensivi. Forza".
Sentì la faccia diventare bollente, in particolare le orecchie. Gli occhi di tutti erano rivolti verso di lui. Chi aveva già condiviso il proprio peso sembrava più curioso che altro. Non si stavano scazzottando, né niente.
"Mi dà davvero fastidio che il primo atteggiamento verso gli umani di qualsiasi strega io abbia incontrato prima di voi sia di accondiscendenza, come se ci permetteste di stare al vostro cospetto. Qualsiasi cosa venga detta è un'offesa personale, anche quando si vedono le interviste in televisione. Dite che non vi capiamo ma alla minima domanda anche di persone che magari vogliono capire, vi ritirate dentro il vostro guscio. Le streghe sono le prime a non iscriversi a tutte le attività che coinvolgano anche degli umani, perché in fondo anche molti di voi hanno paura di sporcarsi a stare con noi, creature inferiori. Abbiamo tecnicamente la stessa fede, ma moltissime streghe si rifiutano di frequentare templi umani. Per non parlare del fatto che moltissime streghe non ammettano che gli umani venerino Ecate. È parte anche del nostro pantheon, quando il Politeismo Olimpico è arrivato con la Prima Colonizzazione, perché non dovremmo aver diritto a pregare anche lei?"
Le parole scivolarono fuori dalla sua bocca come serpenti alla ricerca di calore, dopo essere state imprigionate da qualche parte nel suo essere per anni, cresciute lì dentro a forza di pregiudizi.
"Non avete qualcosa da dire su questo, vero?" chiese la professoressa, con il tono di chi sa perfettamente di cosa sta parlando. Kizia sembrava sul punto di esplodere, Chanej si era messa a guardare con profondo interesse la punta dei suoi stivaletti neri. Pallia aveva incrociato le braccia come una bambina offesa. "Immaginavo. Kizia e poi per finire Adriano".
Kizia sorrise tesa e li guardò tutti uno per uno con astio. "Voi umani avete sempre sulla punta della lingua la parola comunicazione, accettazione, quando in realtà tutto quello che fate è darci le briciole e chiederci di essere comunque contenti. Esattamente come fate coi famigli! Dopo aver passato generazioni a fare i cretini pensando che ci piacessero solo i rospi, i conigli e i gatti neri, dopo esservela presa con le capre per secoli, siete finalmente arrivati alla conclusione che i nostri famigli sono innocui e qual è la prima cosa che avete fatto? Proibirli in pubblico, dicendo che sono troppo pericolosi! Non sono nemmeno veri animali, sono spiriti! E gli spiriti, che voi li vediate o meno, vanno in giro per strada ogni giorno senza che voi nemmeno li consideriate. Allora perché, quando prendono forma visibile, non si può? Gli umani hanno ammazzato magici nelle peggiori maniere, eppure ne vedo le strade piene tutti giorni. Sareste voi quelli che dovrebbero rimanere chiusi in casa. Voi e i vostri divieti di ingresso ai magici, voi e i vostri coprifuochi per i magici nelle notti di luna piena, voi e il divieto di ritrovo, voi e il vostro maledetto sistema pubblico. Siamo cittadini di serie B, la vostra medicina non ci cura, eppure quando finiamo in ospedale, senza il nostro consenso, ci date cose che sapete ci fanno stare male. Non possiamo fare le vostre radiografie, non possiamo fare le vostre terapie. Invece però quando arriva qualcuno che non può prendere quella data pastiglia perché è vegetariano, ah no! Allora subito a cercare una soluzione, perché quella è una vera necessità. Le nostre sono scomodi capricci che vi ricordano costantemente che in questa terra c'eravamo prima noi". Si fermò e prese fiato pesantemente. Gli occhi erano lucidi, le guance rosse come quelle di un contadino. Aveva fatto due passi avanti e indicato tutti uno per uno. La professoressa stava per prendere la parola ma Kizia riiniziò, a voce ancora più alta.
"Non mi piace che quelli come me si abbassino a comportarsi come voi. Non mi piace quello che hanno fatto, perché hanno combinato un grandissimo puttanaio. Ma ci avete rinchiusi, sfruttati, odiati, maltrattati, uccisi, scorticati sulle pubbliche piazze. Avete preso i nostri spiriti guida e li avete fatti al forno e poi vi siete messi le loro pellicce al collo. Avete preso uno dei nostri legami più importanti, che è importante anche per voi, perché vi vedo coi vostri mastini di razza che passeggiate al parco, e l'avete reso inutile. Ci servono i nostri famigli, sono parte di noi, scelti apposta per noi. E li dobbiamo tenere chiusi in casa, dichiarare come se fossero droghe alla dogana. Li dobbiamo tenere in gabbia!". Le api di Tibu si erano alzate in volo e le ronzavano attorno al capo come una corona. Si aspettava una terza ondata ma Kizia abbassò il dito e si fermò, si schiarì la voce e sembrò rinchiudere la rabbia dentro nella scatola etichettata dove la l'aveva tenuta fino a poco prima, tornando la Kizia di sempre. Non seppe dire se si sentisse in imbarazzo per la scenata, era un libro chiuso, impossibile da decifrare. Adriano prese la parola da solo.
"Vengo da una famiglia dove di cose sulle streghe se ne dicono davvero tante. La metà penso siano davvero inventate, l'altra metà non so dire se sia vera o falsa. Dicono che bevete sangue, che vi accoppiate con gli animali e pregate satana, anche se la maggior parte di voi nemmeno crede a satana. La cosa che davvero però mi ha sempre dato fastidio è che anche voi approfittate delle innovazioni della società, che abbiamo portato noi, costruito noi con le nostre stupide mani umane, come le macchine, i ponti, i calcolatori. Li usate tutti, chi più chi meno, eppure rimaniamo stupidi. Va bene, siamo presuntuosi, e chiusi, ma non è che voi siete tanto meglio. Questo dialogo che stiamo facendo lo dimostra, abbiamo gli stessi pensieri gli uni per gli altri, e nessuno di noi ne esce bene. Potremmo anche sforzarci di capirci, ma la verità è che nemmeno lo volete, perché nel momento in cui smetterete di essere le vittime della scena politica, non avrete più tutti i privilegi che ne conseguono, sarete costrette a mischiarvi con noi, vili umani. Non siamo gli unici ad avere la purezza della razza in mente. Non siamo noi a seppellire gli strighi che frequentano ragazze umane, e viceversa".
Tutto tacque, da lontano si sentì la campana di una chiesa battere l'ora. La nebbia rabbiosa che si era accumulata nell'aula sembrò evaporare alla realizzazione di essere davvero il mostro della storia di qualcun altro. Non si salvava nessuno. Nemmeno loro.
"Terapeutico, vero?" chiese la professoressa. "Scommetto che non vi rendevate conto nemmeno della metà di queste cose, o non è così?". Delle teste annuirono. "Senza questo tipo di confronto, senza affrontare il problema alla radice, non si risolverà mai niente e dopo questo corso vi troverete a odiarvi inconsciamente tanto quanto prima. Ho visto che vi parlate spesso, avete un rapporto migliore di quelli dell'altro gruppo, ma guardate quante cose avete da recriminarvi. Per la prossima volta voglio che vi dividiate in sottogruppi di due e che lavoriate alla preparazione di una presentazione su uno dei temi portati all'attenzione di tutti".
"I gruppi sono liberi?" chiese Kizia, gravidando verso il lato magico del cerchio.
"Magico-umano. Tassativamente" rispose la professoressa. "Sono sicura che chiunque preso a caso in questa classe sarà più che felice di lavorare con la studentessa migliore dell'anno. Non è così?"
Kizia trattenne un ennesimo sbuffo e deglutì. "Va bene" disse tra i denti.
"La consegna del progetto è per l'ultima lezione, sperando nella buona salute del mio collega. Vorrei avere un indice tra due settimane, così che poi possiate iniziare a lavorare tranquillamente. Vi lascio andare, buona giornata".
Misero a posto i banchi e uscirono senza rivolgersi la parola. Cato si sentì come in trance mentre di trascinava fuori dall'aula e scendeva con gli altri le scale. Arrivarono all'ingresso dove l'aria era più fresca. La ventata che gli arrivò in viso lo svegliò dalla confusione che gli era rimasta addosso. Osò guardare gli altri e vide che non era l'unico sconvolto. Kizia stringeva la borsa al petto e non sembrava in vena di parlare con nessuno, ma Pallia si fermò mentre tutti erano già pronti ad andarsene per la propria strada.
"Davvero non diremo nemmeno mezza parola sull'accaduto?"
Si fermarono tutti a guardarla, Cato non capiva cosa ci fosse da dire. Si erano appena vomitati addosso secoli di odio e disprezzo interiorizzato.
"Cosa vuoi che ci sia da dire?" chiese Kizia, senza emozione. "Ci siamo appena accusati a vicenda di tutti i problemi del mondo. Non si può far finta di niente e tornare a parlare come prima".
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