Capitolo 19

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Vorrei cercare Jessie e scusarmi per il comportamento di Noah, ma non riesco a trovarlo da nessuna parte. In compenso, adocchio Stormie e Maila parlare con una ragazza con i capelli cortissimi.

Mi avvicino lentamente per non disturbarle, ma quando si accorgono di me, mi invitano ad ascoltare.

«Lei è Susy Moore, una professionista» mi spiega Stormie. «Ci stava giusto dando dei consigli per un cut-back perfetto».

«Devi essere Stella Mason, giusto?» Susy allunga la mano e gliela stringo immediatamente, annuendo. É molto alta e longilinea, con gli occhi verdi e il taglio di capelli che le affina ancora di più il viso. «Ho sentito parlare di te. La tua iscrizione ha scaldato parecchio gli animi nel Comitato».

Improvvisamente mi sento avvampare. Vorrei solo trovare un punto cieco e nascondermi da tutti. Magari per sempre.

«Non lasciarti influenzare, il nostro é un campo competitivo a volte. Ma tu pensa solo a divertirti» parla per esperienza, lo percepisco e i suoi modi mi rilassano un poco.

«Grazie» le rivolgo un sorriso timido. Poi, lei viene rapita da altre persone che non vedono l'ora di parlarle e ricevere i suoi preziosi consigli e noi ci allontaniamo per lasciarle spazio.

«Questa festa è una figata» commenta Stormie, elettrizzata.

«Avete visto Noah?» chiede invece Maila, cambiando argomento. «É arrivato con Buck, ma si è allontanato subito».

Non faccio neanche in tempo a rispondere che sentiamo un forte tonfo provenire dal retro della riserva, dove si erge una villa bellissima.

Come falene attirate dalla luce, ci precipitiamo tutte e tre in quella direzione. Maila si porta una mano alla bocca mentre Stormie si aggrappa a lei.

Sul retro della villa, a ridosso della piscina, ci sono Noah e Jessie. Quest'ultimo è completamente zuppo e non impiego molto a capire che il tonfo che abbiamo sentito è stato il rumore di lui che cadeva nell'acqua fredda.

Ma non è questa la parte peggiore.

Jessie ha il labbro spaccato e gli escono fiotti di sangue dal naso. Respira affannosamente per via del dolore, ma sembra molto più arrabbiato che altro.

E, infatti, il momento dopo si scaglia contro Noah. Lui ride, come se non stesse aspettando altro. L'altezza gioca a suo vantaggio, perché riesce facilmente a staccarsi di dosso Jessie, tirandogli un altro pugno maldestro, comandato dai movimenti scoordinati dettati dall'alcol.

Mi guardo attorno, ci deve pur essere qualcuno che ha intenzione di fare qualcosa. Ma, evidentemente, sono tutti troppo terrorizzati. Da Noah.

Il suo sguardo lancia fulmini azzurri, potenti e indomabili come le onde gigantesche di uno tsunami.

Ad un certo punto, Jessie gli tira un pugno con una forza tale da farlo cadere. Ho paura che abbia sbattuto la testa, ma lui continua a ridere e, nonostante i movimenti rallentati dall'alcol, si rimette in piedi con grande velocità. E... si scaglia di nuovo contro Jessie.

É a questo punto che decido di fare qualcosa. Non posso permettere che si uccidano a vicenda.

«Fermi!» grido, ma la mia voce si perde tra le loro urla e i colpi.

Non penso molto alle conseguenze delle mie scelte, ma mi precipito in mezzo a loro, cercando di farmi vedere più che sentire. Provo ad afferrare la manica della camicia di Noah, ma lui é troppo veloce, troppo forte.

«Jessie! Noah smettila» spero che a questa distanza mi sentano, ma Noah sembra completamente perso in un mondo tutto suo. E, soprattutto, mi rendo conto che quella nei suoi occhi non è rabbia. Ma tristezza.

Una tristezza profonda e sepolta sotto strati e strati di un dolore troppo grande da sopportare tutto insieme.

In qualche modo, Noah è riuscito a immobilizzare Jessie tenendolo per il colletto della maglietta, mentre con la mano libera si prepara a tirargli un pugno.

Devo fermarlo adesso, o rischierà di fargli male davvero.

Gli afferro il braccio con entrambe le mani, sperando di avere la forza sufficiente a bloccarlo. Ma non è così.

Noah neanche mi vede, mi spinge via con tutta la forza cieca che ha, facendomi perdere l'equilibrio.

Mi ritrovo a fluttuare nel vuoto per un secondo prima di venir immersa in un vortice scuro e violento. Cado e cado, finché la mia gamba sbatte contro qualcosa di duro, mandandomi forti vibrazioni ovunque.

Solo un secondo dopo mi rendo conto di non riuscire a respirare e che sono circondata dall'acqua fredda. Sono caduta in piscina.

Provo a muovere le mani e darmi una spinta con i piedi per risalire, ma il dolore alla gamba si fa improvvisamente lancinante e brucia come se un'enorme fiamma mi avesse attanagliato la pelle. Non vedo più niente e il panico comincia ad assalirmi. Mi agito nell'acqua e l'unica cosa a cui riesco a pensare è mia sorella, morta sul fondale dell'oceano.

Forse è questo quello che mi merito per averla lasciata andare, per non aver insistito a farla restare, per averle detto che la odiavo.

Me lo merito, penso.

Il cuore batte ad un ritmo incontrollato e non riesco a riflettere: devo trovare un modo per tornare in superficie, ma la consapevolezza di trovarmi prigioniera in un blocco di acqua mi fa tremare e il panico cresce ancora di più.

Sono passati pochi secondi, forse interi minuti. Non lo so e non riesco a capirlo. Qualcuno si tuffa, ma ho la vista talmente annebbiata dalla paura che non distinguo i contorni del suo viso. So soltanto che mi porta su, all'ossigeno, alla luce.

Riprendo a respirare solo quando sono completamente fuori dall'acqua. Ma il respiro è spezzato, il corpo attraversato da brividi che non riesco a controllare. Accanto a me c'è Buck, con i vestiti fradici.

«Stella! Stai bene?» Stormie e Maila accorrono in mio aiuto, inginocchiandosi accanto me. Cerco di mimare un segno di assenso con la testa, ma sono ancora frastornata.

Non vedo Jessie, ma riconosco sul pavimento piccole gocce di sangue che si mischiano all'acqua.

«Stella» ho ancora il rombo del mio panico nelle orecchie e non riesco a distinguere a chi appartiene la voce. «America...» rabbrividisco a quel nome, a quella voce rotta e profonda come l'oceano. É Noah.

Lo vedo girare fino a ritrovarmelo di fronte, accovacciato accanto a me.

«America, mi dispiace. Non volevo, mi dispiace» non ho il coraggio di guardarlo negli occhi, ma percepisco comunque la corsa delle sue lacrime sul viso.

Gli dispiace?

Vorrei prenderlo a schiaffi e probabilmente lo farei se non fossi tanto terrorizzata.

«Stella» prova tutti i modi per chiamarmi, per farmi alzare lo sguardo su di lui.

«Lasciami» sussurro, con la voce graffiata. Non so dove trovo il coraggio di alzarmi, forse sono Stormie e Maila a sorreggermi, ma non importa. Voglio allontanarmi il più possibile da qui. Da lui.

~      ~ '

Le ragazze mi accompagnano a casa e per tutto il tragitto non vola una mosca, persino la radio é spenta, come la luna e le stelle nel cielo. E questo silenzio è anche peggio: rivivo costantemente quella paura, il terrore di affondare, di annegare circondata da nient'altro che buio e freddo.

Vorrei dire a Stormie di mettere una canzone, di lasciare che la musica riempi il silenzio, ma non ho neanche la forza per parlare.

Mi distacco così tanto dal mondo che a malapena mi rendo conto di essere arrivata a casa. Le ragazze mi aiutano a scendere e si offrono di accompagnarmi in camera, ma cerco in tutti i modi di farle andare via. Non posso permettere che i nonni o i miei genitori mi vedano in queste condizioni.

Si preoccuperebbero troppo e, in fondo, non é successo nulla. Sono solo caduta in piscina: é la mia mente che lo ha trasformato nel mio incubo peggiore. Jessie deve stare sicuramente molto peggio.

Per fortuna Stormie e Maila non insistono troppo e dopo averle convinte che sto bene, le vedo allontanarsi nel pick-up.

Ma non sto bene. Le mie ossa tremano e il dolore alla gamba si è ripresentato, più forte di prima. Mi siedo sulla sdraio, nel giardino. E cerco di pensare a qualunque altra cosa. Il cielo per esempio, così immenso e buio e infinito. Mi concentro con tutte le mie forze e neanche me ne accorgo quando le lacrime mi bagnano le guance.

«Stella» di nuovo questa voce, la sua. Noah attraversa il vialetto di casa dei nonni, accedendo al giardino. «Stai bene?» chiede, avvicinandosi con cautela.

Non so come abbia fatto a tornare con così tanta rapidità, ma mi sembra una domanda insensata, una questione irrisoria.

Lo spingo via con tutta la forza che ho, quella che mi rimane. Ma non è sufficiente e non lo sposta neanche di un centimetro.

«Lascia che ti aiuti».

«Non ho bisogno del tuo aiuto» riesco a dire. Le fitte alla gamba aumentano, diventando più intense. O forse é solo il peso dei miei pensieri che mi implorano di entrare in casa e allontanarmi da lui.

«Fammi vedere, ti prego» la sua voce é tornata normale, come se ogni traccia di alcol fosse sparita.

Non ho la forza di oppormi. Lascio che Noah mi sfiori la pelle. «É solo un taglio, non è profondo».

«Lasciami» lo supplico.

I suoi occhi si alzano, per la prima volta, su di me. Ne leggo il rimorso, la paura. E mi mordo il labbro inferiore per ricordarmi che è colpa sua se sono caduta in piscina e mi sono ferita alla gamba.

«Te lo avevo detto che non potevamo essere amici» dice, come se fosse una profezia che conosce bene, che lui stesso ha inventato. «Rovino tutto quello che di meraviglioso mi capita».

Non so cosa rispondere e non sono neanche tanto sicura di volerlo fare.

«Mi dispiace» vedo le lacrime solcargli il viso perfetto, alterando le sue espressioni. Si allontana e comincia ad indietreggiare, come se neanche sopportasse la vista del mio corpo tremante.

«Mi dispiace» ripete. E vorrei urlargli di non andare via perché, per quanto abbia paura di lui in questo momento, ho molta più paura di restare sola con me stessa e con i miei demoni. Perché, nonostante tutto, lui è l'unico che può capirmi davvero.

«Resta» lo prego, ma forse la mia voce rimane soltanto nella mia testa, perché lui continua ad allontanarsi.

Perché? Perché tutti se ne va vanno prima o poi?

Resto da sola, con le lacrime che mi bagnano il viso e le braccia strette attorno alle spalle. Non piango per il dolore, non più. Piango perché sono sola, perché il mio più grande incubo è appena diventato realtà.

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