98. 100 giorni come questo

N/A: human!au ispirato a quello fatto da casa_vargas su tiktok, ma io sono più stronza quindi tutta la colpa di questo capitolo é mia.

CI SONO TEMI DELICATI, LEGGETE A VOSTRO RISCHIO E PERICOLO.

Però, prima, un mini comic (molto fatto a culo) con Michele e Franco, ispirato ad uno zombie!au, sempre di casa_vargas.
Le parole sono la traduzione di "zombie song".

Michele corre, il fiato corto dallo sforzo ma principalmente dalle risate.
Rallenta impercettibilmente la corsa e si lascia superare.

Franco tocca con successo l'arrivo, il muro alla fine della loro via privata.
<Ehi, hai rallentato!> s'imbroncia il più giovane.

<Assolutamente no!> ridacchia nel mente il più grande, cercando di riprendere fiato <È che sei bravo! Hai fatto bene ad iscriverti ad atletica.>

Il quattordicenne gli sorride raggiante e domanda: <Davvero?>
<Sì, ti ricordi che sono anche venuto a prenderti qualche volta? Ti ho visto, sei una scheggia!> lo complimenta Michele.

<Secondo te, se mi allenassi tanto... riuscirei ad essere tanto bravo da gareggiare nelle nazionali?> chiede più timidamente l'adolescente.

Il ventenne gli poggia una mano sulla spalla e asserisce: <Ne sono sicuro, hai tutte le possibilità!>

<E allora perché mi hai ucciso?> domanda Franco, la voce improvvisamente svuotata di ogni emozione.

Ora è distante, pende da poco più in alto di lui, gli occhi vuoti.
Un segno scuro attorno il collo, il volto cianotico.

<N-no!> balbetta Michele, arretrando. Ma il molisano non gli dà tregua, si spinge avanti, lo insegue, nonostante la sua posizione.

<Sì. Per colpa tua non potrò mai diventare niente! Sarò sempre il solito nessuno!> urlò il ragazzino <Mi hai ucciso!>

Michele spalanca gli occhi, il respiro frenetico, la fronte sudata, il cuore in procinto di sfondare il petto.
Il buio della notte lo circonda.

Accende alla cieca l'abat-jour e in parte la stanza viene rischiarata.
Un foglietto è depositato, chiuso a metà, sul comodino.
Lo prende, lo apre e legge quelle parole, lì sopra ormai da varie settimane. Ogni volta si illude ci sia scritto su qualche baggianata, ma la realtà è crudele.

"Franco è morto.
E l'hai ucciso tu."

Richiude il foglio mentre lacrime amare riprendono a scorrergli dalle guance.
Butta il foglio sul mobile e si prende i capelli fra le mani, tirandoli, singhiozzando disperato.

Non è come un gioco in cui puoi premere "restart" e cominciare daccapo. Non c'è una seconda chance.
Ha ucciso qualcuno.
Forse non ha sparato, ma è come se avesse consegnato la pistola nelle sue mani.

•~-~•

La notte finisce senza che lui si ri-addormenti. La sveglia suona e lui la spegne. Si alza e va in bagno.
Si disgusta.

È da oltre una settimana che non si fa una doccia. O una mezza lavata. Non ne ha la forza.
Non ha nessun posto in cui andare. Nessun motivo per rendersi presentabile.
E non se lo merita.

Si trascina successivamente fino in cucina, dove meccanicamente si fa la colazione.
Mentre aspetta che venga su il caffé, il suo occhio finisce su un foglio plastificato alla bell'e meglio e appiccicato sul tavolo della cucina da sé.

"21 febbraio.
Oggi a motoria abbiamo giocato a palla prigioniera.
Come ogni volta mi sono messo in un angolino, seduto, ad aspettare mi chiamassero per ultimo con voce annoiata.
Non è successo.
Non mi hanno direttamente chiamato.
Tutti sono stati scelti, tranne me, e tutti hanno iniziato a giocare, divertendosi. Io non ho avuto il coraggio di far notare che non ero stato nemmeno considerato e la prof non ha detto nulla. Me ne sono andato nel bagno degli spogliatoi e lì sono rimasto fino alla fine dell'ora. Ho pianto finendo un intero pacchetto di fazzoletti.
L'unica cosa bella, ho preso 10 in grammatica ed era una verifica difficile. Mamma e papà mi hanno fatto i complimenti, come anche Rita, Marie e Mario.
Michele mi ha ignorato, come i miei compagni di classe.
Sono così tanto un fantasma?"

Michele ricaccia indietro le lacrime.
Rievoca la gioia di Franco nell'affermare di aver preso 10 nella verifica, mostrando come prova il voto sul registro elettronico.

E ricorda la tristezza nei suoi occhi quando lo ignorò, un frammento di memoria doloroso come un pugno nello stomaco.
L'aveva fatto per permettergli di ottenere il coraggio di alzare la voce per farsi notare. Potesse tornare indietro, festeggerebbe come un pazzo con lui.

Distoglie lo sguardo dal foglio, ma quegli occhi sono ancora lì. L'espressione ferita nel profondo gli è impressa nella retina.
Vorrebbe solo staccare la spina dal mondo, giusto qualche minuto.
O riabbracciare Franco un'ultima volta.

Il rumore del caffé in procinto di trasbordare lo disincanta e spegne il fuoco, versandosi il caffè.
Afferra un biscotto e lo mangiucchia.

L'occhio cade su un'altra pagina, sempre plastificata da sé e fissata con lo scotch all'altra estremità del tavolo, vicino a dove è solito sedersi mangiare.

"3 marzo.
Oggi, nel contare in quanti siamo in classe, hanno detto siamo in 21, contando tutti eccetto me. Solo dopo due minuti, in cui non capivano come mai ci fosse un numero in più sulla lista, si sono accorti mancassi io.
2 minuti. Ho provato ad alzare un po' la mano, ma il prof di matematica mi ha ignorato. Ho provato a farmi notare dai miei compagni di classe, ma niente.
È stata più notata una cimice spuntata nella nostra classe e in fretta buttata fuori dalla finestra.
Ho provato a parlare con Michele, ma ancora una volta mi ha ignorato. Ha guardato nella mia direzione e io ho iniziato a parlare, ma poi si è voltato, ha messo le cuffiette, e ha tirato dritto per il suo appartamento.
Per fortuna mamma e papà non c'erano e ho potuto piangere in camera senza paura di essere sentito."

Michele sente il cuore sprofondare ancora una volta nel petto.
Ricaccia indietro le lacrime e beve il caffè, che gli appare così amaro da quasi disgustarlo.

Potesse tornare indietro, lo inviterebbe nel suo appartamento, lo stringerebbe come farebbe un fratello maggiore, lo ascolterebbe e conforterebbe.

Si alza di scatto e butta la tazzina con il cucchiaino nel lavabo. Ci penserà a lavarli in quei minimi sprazzi di decoro personale.

Arriva in soggiorno.
Prende una coperta, nonostante sia quasi a maggio, e si avvolge in essa. Avanza fino allo scaffale sopra la tv, dove alcune foto ritraggono l'ultimo Natale passato tutti insieme.

Abita in una viuzza "privata" nella periferia di Roma, in una serie di mini appartamenti che all'esterno sembrano tante casette a schiera.
Soprattutto a opera di alcuni, si comportano come un'unica famiglia, proveniente da tutte le parti d'Italia, riunita nel cuore della nazione stessa.

Era diventato molto amico della famiglia Niro, anche perché il signore e la signora Niro erano spesso impegnati a lavoro e non volevano lasciare il figlioletto di 13 anni da solo.

Michele si era offerto da occasionale babysitter. Era un pugliese ventenne proveniente dalla provincia di Bari ed operaio nella vicina zona industriale, ma non gli erano mai dispiaciuti i bambini.

Si è legato al ragazzino all'istante, forse più velocemente di quanto questi abbia fatto con la sua coetanea Marie (originaria della Valle d'Aosta) e quelli più vicini di età della via, ossia Mario, Bruno e Giorgio, tutti e tre tra i 16 e i 18 anni.

Essendo il più importante confidatore di Franco, questi gli aveva raccontato all'inizio dell'anno nuovo come fosse ignorato a scuola dai suoi compagni e dai professori.

Allora il pugliese aveva avuto una idea delle sue, frutto del modo in cui era cresciuto: per applicare una idea in un posto, devi iniziare a praticarla fuori.
Quindi la idea era quella di volutamente ignorare Franco per permettergli di ottenere il coraggio di farsi notare.

Purtroppo aveva dimenticato la differenza di carattere fra loro due. Franco non ha mai osato, l'ha sempre lasciato fare. Il pugliese forse avrebbe dovuto pensare di smettere, ma la sua testardaggine ha avuto la meglio.

L'avrebbe fatto imparare a Franco, costasse quel che costasse; diventando incostante e spesso assente.
Ma il ragazzino non faceva niente, subiva, incassava i colpi senza ribattere.

Alcuni gli hanno chiesto spiegazioni, scioccati e confusi. Ha spiegato la sua idea e, anche se contrari, erano consci di non poterlo cambiare.
L'hanno avvertito, prima fra tutti Rita, eppure lui li ha snobbati, convinto dell'infallibilità del suo piano.

Quanto si sbagliava.

Rimane ad osservare quella foto di tutti loro insieme, con lui che tiene seduto sulle spalle Franco che sorride più radioso del sole.
Gli aveva regalato un set dei Lego, sapendo quanto ne fosse patito.

Lui, con la paghetta che prendeva settimanalmente, aveva risparmiato abbastanza da regalargli quella coperta che indossava.

Era una buffa coperta, molto morbida, con su tanti taralli e bicchieri di vino.
«Così hai un pezzettino di casa con te.» aveva ironizzato il ragazzino, sperando di salvarsi in corner davanti la reazione indecifrabile di Michele.

Almeno per i primi cinque secondi, perché poi l'aveva abbracciato fortissimo e ringraziato di cuore.
L'aveva usata tutta inverno.
E ora che è successo tutto quello, non vuole separarsene.

Non è un pezzettino di casa.
È un pezzettino di Franco, come il biglietto annesso, conservato nel primo cassetto del comodino come una reliquia.

Qualche lacrima viene assorbita dalla coperta.
Volge lo sguardo lì accanto e il cuore si scioglie e viene stretto in una morsa di spine insieme.

È una foto in primo piano su Franco, raggiante, pieno di felicità e speranza negli occhi. Una immagine che negli ultimi mesi non vedeva più così tanto.
Anche quando lo trattava "bene", notava il suo timore di essere improvvisamente non notato.

Gli ha strappato quella gioia, quella voglia di vivere, quella bambinesca speranza.
L'ha privato di tutto.

Stringe la coperta con forza e scappa in bagno, fissando quell'orribile pagina di diario, la peggiore da trascrivere e incollare là sopra.
Quella che più lo colpisce nel profondo e gli ricorda le sue colpe, il perché sia lì confinato in casa, con una condanna di 10 anni sulle spalle.

"11 marzo.
Basta, non ne posso più.
Che senso ha vivere, se per tutti sono un fantasma?
A scuola mi ignorano, ad atletica pure, a casa i miei si ricordano di me solo per i voti, i miei vicini hanno solo pietà di me...
Eccetto Michele.
Lui è l'unico che almeno è abbastanza sincero. Mi ignora la maggior parte delle volte, ma quando mi considera mi fa male.
Perché gli voglio bene, mi manca quel Michele che mi è stato subito amico, quello che mi ascoltava appena aprivo bocca. Torna ogni tanto e ogni volta temo quando non ci sarà più.
Lo so che mi odia e che ogni tanto è dolce solo perché gli faccio pietà. Non voglio fare pietà. Vorrei solo essere considerato. Amato.
Non mi merito tutto ciò?
Faccio così schifo?
Michele, perché mi hai fatto pensare di essere voluto? Mi hai fatto sperare per niente! Anche ora penso come un cretino che mi vuoi bene, da qualche parte dentro di te. Poi mi ignori e ci sto male.
Ho provato a vivere, ma la vita non mi vuole. Ci ho pensato tanto, davvero. È l'unica soluzione a cui sono arrivato. Non mancherò a nessuno.
Scappo questa notte e mi preparo per il gran finale, il 13 marzo. È il mio compleanno, almeno mi faccio un bel regalo. E lo faccio anche a tutti quelli attorno a me."

E ha fatto così.
Sulla sua tomba, il giorno e il mese di nascita e morte coincidono. Cambia solo l'anno, 14 anni di differenza fra i due.
Il giorno in cui ha compiuto 14 anni, ha deciso di abbandonare tutto.

Stava appena iniziando a vivere.

E lui l'ha ucciso.
A quell'età inizi a spiccare il volo verso il futuro e lui gli ha tarpato le ali. Le ha strappare e bruciate.
Franco ha rinunciato alla vita ancora prima di viverla.

Non potrà mai provare l'ansia del primo giorno di superiori, che appare un mondo nuovo.
Non potrà mai avere la sua prima cotta, quella che non dimentichi mai.
Non potrà mai avere una fidanzatina a cui dare il primo bacio.
Non potrà mai andare in discoteca a divertirsi.
Non potrà mai vincere una gara di atletica.
Non potrà mai diplomarsi.
Non potrà mai prendere la patente.
Non potrà mai scoprire il mondo là fuori che aspetta solo di essere ammirato.

Tutto per colpa sua.
Ha ucciso un'anima ancora buona, una che non aveva ancora vissuto.
E che non potrà mai vivere.

Ricorda quei due giorni d'inferno.

La sera dell'11 marzo i coniugi Niro erano ritornati e il figlio Franco era sparito.
Non rispondeva alle chiamate, non aveva detto niente a nessuno, era sparito senza lasciare traccia dietro di sé; eccetto per un biglietto recante la scritta "Addio".

I coniugi erano disperati e in fretta avevano chiamato la polizia, che però pigramente e svogliatamente aveva risposto che prima di quarantotto ore non potevano intervenire.

Tutti si erano messi a cercare nei dintorni e a chiedere a chiunque incontrassero del ragazzino, descrivendolo al meglio.

Ma la notte era stata infruttuosa e anche la giornata dopo fu identica. Erano praticamente tutti sull'orlo della disperazione, chi in modo più evidente chi meno.

Michele non era riuscito a dormire la notte, riuscendo solo a pensare che Franco era sparito e che l'ultima volta che si erano visti lui l'aveva bellamente ignorato.

Passò anche la notte del 12 marzo in bianco e non fu il solo.

Alla sera del 13 marzo, quando ormai mancava poco per finalmente smuovere la polizia e avere un aiuto più massiccio, Franco rispose all'ennesima telefonata di Rita.

Lei era nell'atrio di uno dei mini appartamenti, insieme a Michele e ai coniugi Niro.
<Franco!> esclamò la sarda, con le lacrime agli occhi dalla gioia di saperlo dall'altro capo della linea.

Si sentì in sottofondo un treno che passava a tutta birra, per essere sovrastato dalla voce tremolante del ragazzino: <Ci sono mamma e papà?>

<Sì, siamo qua, Franco!> asserì con disperazione la madre, quasi strappando il telefono dalle mani dell'altra donna.

<A che ora sono nato, oggi?> domandò il neo-quattordicenne, un vago trambusto in sottofondo.
Non era più il treno, piuttosto una sedia trascinata per terra.

<Cosa?> chiese la signora Niro, presa di contropiede.
<Oggi è il 13 marzo, il mio compleanno. Non lo ricordavi?> indagò con voce tremolante il figlio.

<Oh, sì, è vero! Lo ricordo, tesoro!> esclamò la madre, che aveva accantonato la data nella testa.
<Allora ti ricordi a che ora sono nato? Me lo dici spesso per scherzarci su insieme.> sussurrò Franco, la voce ricolma di tristezza.

<Sì, alle 19:49, i nostri numeri fortunati.> rispose il padre, fino ad allora rimasto muto.
<Guardate l'orario.> sussurrò il ragazzino.

Michele levò il braccio e guardò. Erano le 19:49.
<Franco, cosa hai intenzione di fare? Dove sei?> lo interrogò, mentre un orribile presentimento si era depositato nel petto.

Dall'altro lato del telefono ci furono vari istanti di silenzio, poi la voce il ragazzino parlò di nuovo: <Michele...?!>
<Sì, Franco, sono io!> esclamò il pugliese, ignorando il tono di voce ferito altrui.

Aggiunse: <È da quando sei scappato che ti stiamo cercando appena possiamo! Torna, Franco, dovunque tu sia! Torna indietro, per favore! ... Mi manchi.>

<Ora. Ora ti manco, eh?!> strillò improvvisamente Franco da attraverso il telefono.
<Franco, fa respiri profondi-> provò ad istruirlo Rita.
<No, basta! Non ne posso più di questa recita. Mi farò il regalo migliore possibile, addio!> e il molisano chiuse la chiamata.

<Cosa-? No! No, no, non è possibile!> urlò la madre, la peggiore delle ipotesi che l'assalì.
<Si è sentito un treno, è vicino le rotaie. Cerchiamo dove passano treni ancora funzionanti, prima qua attorno e poi sempre più lontano.> comandò Rita, chiamando o messaggiando gli altri per avvisarli brevemente.

Michele scattò verso la sua motocicletta,  quel pensiero di prima che lo attanagliava con una morsa sempre più stringente.

La fortuna sorrise loro un istante.
Quando chiesero di lui in un motel vicino dei binari, la donna che lo gestiva annuì, commentando che avevano impiegato più tempo di quanto creduto per ritrovare lo scappato di casa.

Aprì la porta della stanza in cui Franco alloggiava con la chiave passepartout.
Al seguito vi erano Rita, Michele e i coniugi, giunti appena ricevettero la notizia dal pugliese.

La scena davanti a loro li agghiacciò.
La signora Niro scoppiò in un pianto isterico, invece il marito tentò di richiamare il figlio mentre si avvicinava su gambe malferme.

Rita si coprì il volto e pianse, mentre Michele si ritrovò paralizzato sul posto. Le gambe erano cemento, la testa girava, la scena era un pugno alla bocca dello stomaco e il mondo gli era crollato addosso, ferendolo con mille aghi sulla schiena.

Sopra una sedia calciata a terra, penzolava il corpo di Franco, appeso per via di una corda attorno il collo, attaccata al soffitto attraverso un infisso dove prima stava una luce.

Il volto era cianotico, le labbra leggermente schiuse, le palpebre calate, l'esile corpo che appariva ancora più fragile.
Il signor Niro, nella futile speranza data dalla disperazione, rimise la sedia in piedi, vi salì e staccò la corda dal soffitto con il coltellino che si portava sempre dietro.

Prese il figlio in braccio e lo richiamò più e più volte, la voce sempre più rotta e ridotta ad un sussurro.
Ma non si poteva fare niente, solo un vero e proprio miracolo che mai sarebbe arrivato avrebbe potuto cambiare la situazione.

Franco era morto.
Si era suicidato, impiccandosi.
Lontano da casa, il giorno del suo 14° compleanno.

Michele avanzò per la stanza su gambe traballanti, non riuscendo a metabolizzare, non volendo metabolizzare.
No, no, Franco non era morto, era tutto solo un brutto incubo da cui si sarebbe risvegliato in fretta.

Ma non si svegliò mai.

Voltò lo sguardo per la stanza, non riuscendo a sostenere la vista del corpicino senza vita fra le braccia del padre disperato.

Vide un foglio poggiato sul letto.
Si avvicinò e lo prese.
C'era scritto: "Sono scappato per vedere se alla fine ne avrei avuto il coraggio. Se lo state leggendo, vuol dire che ce l'ho fatta. Vi ho finalmente tolto il peso di far finta ci teneste a me.
Mamma, papà, ora non dovrete preoccuparvi delle spese troppo alte.
Rita, ora non dovrai più preoccuparti di un lamentoso bambino.
Marie, ora potrai stare con i tuoi veri amici senza sentirti in colpa.
Michele, ora non dovrai più sforzarti per fingere di essere l'amico di un idiota lamentoso.
Addio."

E allora Michele crollò a terra, piangente, stringendo quel pezzo di carta come se ne dipendesse la sua vita.
Fecero chiamate su chiamate, avvisando gli altri fra le lacrime e avvertendo la polizia.

Il ragazzino fu fatto portare via da un'ambulanza, per condurlo nella camera mortuaria del più vicino ospedale dopo una breve autopsia.

La polizia aprì un'inchiesta per capire se qualcuno potesse averlo potuto istigare al suicidio.
Rita non dovette pensarci su due volte per dire il nome di Michele. Tale ipotesi venne sostenuta leggendo la lettera e svariate pagine del diario di Franco, in cui Michele, sempre con una traccia di tristezza o disperazione, veniva citato.

Il pugliese non negò niente.
Ne era totalmente conscio, per quanto fosse orribile.
Aveva ucciso Franco, quando avrebbe voluto solo aiutarlo.

Era un mostro della peggior specie.

L'avvocato che gli diedero comunque fece un decente lavoro, facendogli prendede 10 anni invece di 12 e di poterli spendere ai domiciliari, invece che in carcere.

Ma tanto nessuna pena sarebbe stata mai abbastanza per farlo sentire meno in colpa.
Come si faceva a vivere con la coscienza di aver ucciso un'anima innocente?
Lui non ce l'avrebbe mai fatta, ma avrebbe tentato fino in fondo.

Beh, forse non così in fondo.

Apre il mobiletto vicino lo specchio e ne estrae una lametta di quelle cambiabili per rasoio. Ormai non lo usa più, sta lasciando la barbetta crescere.
Nessuno lo può vedere, può lasciarsi andare.
Gli ha dato un altro scopo, ben più nobile.

La osserva come spesso ha fatto in quelle settimane.
Due righe nette e morirebbe dissanguato in poco tempo. Recidendo le arterie soprattutto, dato che non hanno valvole come le vene.
Il sangue scorre all'interno forte e veloce, come un fiume.
Può rendere quel fiume un lago quando vuole.

Rialza lo sguardo e la pagina di diario è il suo memento.
No.
Non può farla finita.
Non merita di lasciare il mondo così facilmente. Merita di soffrire, di versare lacrime e sangue.

Franco è morto per colpa sua, per il dolore che lui gli ha causato.
Non ha il diritto di buttarsi tutto alle spalle.

Inoltre, non rivedrebbe il ragazzino dopo la morte.
Se esiste un mondo al di là della morte, Franco merita di essere fra i buoni, fra i puri. Si è ucciso, sì, ma sono stati gli altri a ridurlo così.
È stato lui a spezzarlo e frammentarlo.

Lui sì invece che si merita l'Inferno, con le sue fiamme e le sue torture eterne.
Avrà tutto il tempo per stare nell'oltrevita, tanto vale dannarsi il più possibile finché respira.

Si toglie la coperta, che appoggia con religiosa cura sul mobile a cassettoni accanto a sé.
Tiene con fermezza la piccola lama nella mano destra e l'appoggia sul braccio sinistro.

E poi incide un piccolo taglietto in orizzontale, appena sotto il polso.
Il taglio brucia e il sangue cola incurante dalla ferita.
Michele strizza gli occhi, singhiozzando.

Supplica: <Scusa Franco, scusa.> come se questi potesse sentirlo.
Si fa un secondo, un terzo, un quarto taglio e così avanti, fino a riempire il braccio di segni, fratelli di quelli dei giorni precedenti.

Tutto il braccio è una pozza cremisi e il pugliese continua a piangere e ad invocare il nome del ragazzino.
Sa che non lo può ascoltare, sa che non gli può rispondere, ma lui lo chiama.

Desidera un miracolo, una qualche salvezza, un'assoluzione della pena che porta nel petto.
Allo stesso tempo ripudia quella redenzione, non l'ha guadagnata, non può essere felice dopo le sue colpe.

Si inginocchia, creando una pozzanghera a terra e sporcandosi, ma è incurante e insofferente a tutto quello che non sia il proprio dolore.

E lo chiama, non smette di farlo.
Non vuole smettere.
L'ha ignorato troppo a lungo e anche se è tardi non vuole negare la sua esistenza.

Non lo vuole accantonare come ha fatto in passato, in nome di quel becero e contorto piano.
Se potesse tornare indietro, non darebbe ascolto al suo orgoglio.

<Franco> continua a ripetere in un mantra, ora più flebile, ora più disperato, ora più invocante, ora più rabbioso, ora più singhiozzante.

E non smette, mentre il sangue scorre pigramente, mentre le lacrime gli offuscano la vista, mentre il senso di colpa lo schiaccia.

Tutta quella sofferenza è ciò che lo tiene in vita.

•~-~•

Con di nuovo la coperta stretta attorno a sé come un mantello, ma che invano tenta di schernirlo dalle sofferenze della realtà, torna in camera propria e si siede sul letto.

Il braccio pizzica nonostante l'acqua fredda versata per svariati minuti e il cotone sterile applicato e tenuto fermo da una garza.

Lo disgusta il braccio ridotto in quello stato, per cui fissa l'altro, anch'esso pieno di segni.
Respira lentamente, desiderando per un singolo istante di smettere di respirare per sempre senza accorgersene.

Ecco, ora è come dovrebbe essere.
Sofferente, colpevole, assassino.
Non è impietosito da se stesso, non è dispiaciuto, né pensa di star sbagliando.

Uccidersi così lentamente è la giusta punizione, perché vuole provare il dolore causato a Franco.
Uno strazio lento, incostante, trascinato, accumulato e schiacciante.

Vuole arrivare al suo limite e finalmente spezzarsi, per sempre.
Ma anela percepire ogni singolo piccolo crack propedeutico alla rottura definitiva.

Sposta lo sguardo sulla scrivania, dove ha messo il regalo fatto a Franco.
Una felpa che desiderava da tanto e che era consapevole la sua famiglia non potesse comprargli. Aveva risparmiato a partire da prima di Natale, per comprarla una settimana prima del suo compleanno.

Ha anche scritto un biglietto, lì attaccato, recitante: "Tanti auguri Franchino! Sorridi che sei fantastico quando lo fai e nel mentre illumini pure una stanza, altro che l'Enel. Spero tu possa essere tanto felice e che questo mio pensiero ti piaccia.
100 giorni come questo, Michele."

Di giorni come quel 13 marzo ci sarebbero stati, ma solo nella sua testa, perché Franco aveva deciso di appartenere al passato.
E Michele non avrebbe mai dimenticato lo sporco assassino che era diventato.

N/A: molto gioioso, eh? =D
Lo so, sono felice quanto un funerale.

Ma spero che, nella tristezza, vi sia piaciuto, perché io non sono totalmente soddisfatta, ho emozioni contrastanti a riguardo.

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