222. Qualcosa che s'è cercato

N/A: piccola noticina pre-reale introduzione riguardo al fatto che ho notato solo prima di scrivere questo capitolo che Aleksander è in due capitoli con un ruolo importante nello stesso "giro", quindi... ops. Doveva succedere, prima o poi.
Mi sento pirla, ma vabbè.

Il vero motivo per cui faccio questa nota autrice è perché in questo capitolo ritroviamo l'allegrissimo passato di Roby.

Diciamo che l'argomento di questo capitolo è stato trattato in un capitolo della Bruroby "Love like you" e in questa storia solo accennato proprio di striscio in un vecchio capitolo.

Ma a me piace pensare, purtroppo, e quindi, tramite un ragionamento che è inutile riportare, mi sono detta che non era stata una situazione realistica quella creata.
Brutta, in qualche modo possibile, forse, ma non realistica.

Quindi ho deciso di cambiarla.
Ovviamente in peggio per il povero Roby.

E quindi questa è la "versione" aggiornata e finale su questo "frangente" della sua vita, fino a mio aggiornamento futuro (se ci sarà).

Quindi vi lascio al (relativamente) lungo capitolo con il disclaimer riguardo agli abusi sessuali presenti nel capitolo, come il victim shaming di chi subisce queste violenze.

Mi discosto, ovviamente, da qualsiasi imputare colpe alle vittime (come è visibile nel titolo), ma per il carattere di Roberto e i suoi rapporti interpersonali, era una risposta totalmente logica/prevedibile.

Quindi ora che siete avvisati (e quindi mezzi salvati), quindi vi lascio alla lettura!






Ci sono giorni in cui riesce a non pensarci. Anche per settimane o mesi, ormai.
Ma ci sono giorni, settimane o mesi in cui quei ricordi tornano con violenza, si aggrappano alla gola e vogliono solo trascinarlo nell'abisso su cui è sempre in bilico.

Oggi è uno di quei giorni.
Roberto è avvolto nel suo accappatoio, nel rifugio di camera sua, e semplicemente si guarda. Alcune volte vede solo la sua pelle bianca, che sembra ancora più chiara per i tanti peli neri che ci sono, che nasconde cicatrici e segni di secoli passati.

Altre volte non può non vedere e si costringe ad analizzare la sua pelle per quell'insieme di segni e cicatrici che accuratamente nasconde, come tutti. Eppure insieme s'arrabbia e si dispera e viene scaraventato in quell'abisso quando puntualmente pensa che i segni peggiori neanche esistono.

Sfiora con un dito la zona dell'interno coscia e, come tante altre volte, si chiede come mai sia dovuto succedere. Perché sia dovuto succedere.
(Perché lui ha accettato? No, no, lo sa, è solo una-)

Ma sa quando. Un quando vivissimo, chiaro, quanto astratto, estraniato.
Perché si rifiuta di ricordare l'anno preciso, il mese o il giorno. Ha passato anni ad accuratamente cancellare i volti e i giorni.
Eppure non può dimenticare quando.

Era sera ed era stato indetto un ballo nella reggia dei Savoia. I preparativi erano quasi finiti e stava sorvegliando gli ultimi ritocchi.

(Non aveva mai amato i balli, ma da quella sera sarebbero stati il suo incubo.)

E la sua duchessa, la sua capa, gli si era avvicinato e aveva richiamato la sua attenzione.
<Jacques François, ti devo parlare un attimo.> impose la donna.

Sapeva chi era, era ovvio. Ricordava il quando. Eppure ogni volta si costringeva a ricordare un volto senza faccia, una voce senza tono.
Anche se forse ciò lo spingeva verso il profondo; perché voleva schiacciare e oscurare il ricordo, e quindi veniva schiacciato e oscurato dalla sua stessa mente come ripicca.

Ciò non cambiava le sue parole, le sue scelte, quella sera.
(Né tutte le scelte successive)

S'era girato, eseguendo il solito inchino e rispondendo cortesemente: <Sono a sua totale disposizione.>
<Questa sera sarà presente una contessa della Provenza il quale marito ha una discreta posizione nella corte di Francia. Se riuscissimo a renderla nostra alleata, potremmo estendere la nostra influenza in un Regno potente ed essere protetti da esso. È un'occasione unica abbia accettato, non può essere sprecata. Per sollecitarla, conoscendo qualcosa su di lei, ti ho presentato nella lettera di invito come cugino della famiglia e uno dei più alti comandanti del nostro esercito. Ti ho, quindi, proposto come un possibile intrattenitore durante questa serata in cui non ha altre conoscenze, dato che il marito non ci sarà, e tu puoi fare da intermediario. Lei ne era entusiasta, quindi devi essere al meglio di sempre e fare tutto quello che ti chiede. Chiaro?> aveva spiegato la donna.

(Ricordava il suo nome, quello dei suoi genitori, dei suoi figli, la sua data di nascita e di morte. Eppure era "la donna". Poteva solo essere "la donna". Di più non avrebbe sopportato. Come aveva fatto, i primi tempi?)

E lui, stolto e ingenuo, aveva all'istante, rispondendo: <Come desidera.>
La duchessa gli aveva un piccolo sorriso: <Darai valore al nostro Ducato. A più tardi.>
<Arrivederci, mia signora.> aveva salutato.

(Così falsa, così crudele, sapeva; sapeva e voleva!, era solo colpa sua- (no, no, lui aveva avuto sempre una scelta. S'era creato il suo destino!))

Roberto apre la mano e l'appoggia nella sensibile zona. Stringe leggermente la presa e poi l'allenta. Non è abbastanza per lasciare un segno.
Non era mai stato abbastanza per segnare, eppure perché allora soffre più che per certe pugnalate o proiettili ricevuti?

Tutta la farsa era crollata con una domanda della contessa quella sera, durante il ballo.
<Prima che lei arrivasse, la duchessa mi ha descritto una stanza vicino a questa sala come un piccolo gioiello e sono curiosa. Potremmo vederla?>

Una finta innocenza, era tutto architettato fin dall'inizio e lui, eternamente stupido, aveva recitato il suo ruolo alla perfezione, illustrando: <Se desiderate allontanarvi qualche minuto dal ballo, ve la mostrerei con piacere. Viene utilizzata come luogo di ricevimento e conversazione con i parenti dei Duchi. Personalmente, la trovo più affascinante dell'ufficiale sala delle riunioni.>

Ed era entrato in quella stanza, rischiarata dalla luce lunare che filtrava dalle finestre.
La cosa peggiore era che fosse entrato di sua spontanea volontà.

(Se l'era meritato, non c'era altra soluzione).

<Purtroppo nella penombra perde molta bellezza.> aveva commentato, già pronto a trovare delle candele, ignaro del suo carnefice.

<Oh, anche così si vede che è di gusto raffinato. È possibile sedersi sul divanetto?> aveva domandato la donna.

(Anche di lei ricordava il volto, il nome, il tono. Ma non poteva rievocarli consciamente. Sarebbe significato lasciare ancora più spazio nella sua mente. E già vi troneggiava.)

<Certamente.> aveva risposto, conducendola al divanetto e sedendosi <È di vostro gradimento?>
La contessa s'era avvicinata (lui era stato complice, non aveva fermato niente, se l'era cercato!) e, mentre appoggiava una mano sulla sua gamba, aveva replicato: <Certo, specialmente in sua compagnia.>

E quella mano. Quella fatidica mano.
La prima.
Un simbolo.
Un suggellamento.

Roberto guarda la propria mano.
Era esattamente lì, era certo.
Però non aveva il cuore in gola come quella sera, non aveva le budella attorcigliate come mentre balbettava: <Ne sono onorato.>

Muove la mano, sempre più su, fino all'inguine.
Ma non è lo stesso, non ha le dita rugose ed anellate, non è più lì, mentre quella contessa lo guardava dritto negli occhi, uno sguardo vincente (aveva catturato la preda che s'era uccisa da sola, praticamente. Se l'era meritato).

Stringe la presa sull'inguine, mentre ricorda le parole dopo (e come potrebbe dimenticarle?): <Tristemente, non capita tutti i giorni di avere come compagno ad un ballo un così ben educato e importante giovane, nel fiore dei suoi anni.>

Alza l'altra mano e si sfiora il petto.
Non ha lo stesso impatto di quella sera, accompagnato dalle fatidiche parole: <E mi ricorda quanto ormai quel tempo per me sia passato. Ma forse, con un così bel giovane a riscaldare questa serata, potrei tornare a quei gioiosi tempi. Le va?>

Non ha la forza di far scivolare la mano in mezzo le gambe.
Ad emulare come quella mano l'ha accarezzato da sopra i pantaloni, vagamente stringendo la presa.

Ricorda come fosse ieri il disgusto, il terrore, la confusione provati, mentre scattava in piedi, scaraventando la donna lontano e fuggendo.

S'era rifugiato nei giardini e aveva rigettato tra alti cespugli.
Lo stomaco si muove come in ricordo, il corpo trema come quella sera.
Ancora si chiede le stesse domande.

Quella donna voleva davvero…?
Perché lo voleva in quel modo?
Come mai aveva pensato fosse d'accordo?

Ma era stato d'accordo, no?
Aveva seguito tutto alla perfezione.
Ma non era potuto scappare dalle sue responsabilità il giorno dopo, quando la duchessa di Savoia l'aveva svegliato tra urla e rimproveri, ancora in vesti notturne.

Era stata terrificante e insieme terrificata dalle conseguenze possibili se lui non avesse rimediato ai suoi errori.
E come aveva potuto rifiutare?

C'era il rischio di una guerra, anche solo di una stupida vendetta, contro i Savoia e contro le sue genti.
Non poteva permettere succedesse, non quando era stato compiacente, non quando se l'era cercata.

E così era andato nelle stanze della nobile provenzana, pronto come ad un patibolo.
Era stato accolto e senza troppi giri di parole la donna l'aveva invitato a sedersi sul letto e spogliarsi.

Con mani tremanti s'era slacciato la camicia e, a metà strada per togliersela, l'umana l'aveva attirato a sé e s'era seduta a cavalcioni su di lui, togliendogli la camicia e tastando il petto.

Roberto imita i gesti. Una mano su un pettorale, che stringe la poca carne presente per, lesta, scendere di poco e sfiorare con le dita ruvide il capezzolo.
(Prova ribrezzo, ma non quanto in quel momento, non prova quel terrore attanagliante, che l'aveva strozzato e immobilizzato)

L'altra mano gli afferra i capelli e gli tira indietro la testa, mentre ricorda, come se fossero ancora lì, un paio di labbra che reclamano il suo collo, baciandolo, leccandolo, mordendolo.

(È catartico ricercare, anche se non riesce a ri-provare, quell'accecante terrore che spingeva la bile su per la gola, quel pizzicorio agli occhi, quelle scariche strazianti date dai gesti altrui.)

E smette.
Lascia stare il proprio petto, districa la mano dai capelli, imbottiglia di nuovo tutto e stringe le mani in grembo, a pugno, mentre ricorda come è scappato.
Come ha evitato quel che si meritava.

Perché aveva strillato <Basta!> con il suo potere e la donna s'era immobilizzata, gli occhi vitrei, vittima della sua influenza.

Poteva scappare, aveva trovato la via di fuga!
Ma la donna avrebbe ricordato di non essere stata soddisfatta. Non poteva sbagliare di nuovo.
Quindi poteva esserci solo una soluzione, una soluzione che lo facesse scappare da quello che si meritava, ma punendolo insieme.

Con voce tremolante, con il cuore impazzito, al limite di un infarto, aveva sussurrato, usando il suo potere: <Usami. Toccami dove vuoi, ma non nelle parti basse. Datti piacere. Vieni e addormentati. Per te avremo copulato.>

E con quegli occhi vitrei, la donna aveva sorriso come la sera prima, predatrice, pronta ad attaccare.
E l'aveva usato.
(No)

S'era lasciato usare.

Era stato il minimo.
Non era stato abbastanza uomo da prendersi le sue responsabilità, dall'accettare pienamente le sue conseguenze, doveva avere una qualche punizione.

S'era meritato quei tocchi, i commenti, i gemiti contro le orecchie, e non era stato abbastanza.
Perché non era stato violato, anche se lo meritava. Anche se se lo era cercato.

E come prima, sfiora e stringe la pelle dove sa che quella donna l'ha toccato.
E gli occhi pizzicano come quella mattina, la vergogna è la stessa, il ricordo e la messa in scena si sovrappongono mentre Roberto cerca di sbrandellare, stravolgere e sbiadire quel ricordo, di farlo diventare qualcosa che voleva, che ha sempre voluto.

Perché se l'è cercata, avrebbe dovuto essere più attento agli indizi, tirarsi indietro dall'inizio, perché dopo era solo colpa sua.

E così prova ad offuscare, trasformare e stracciare quel ricordo, simbolo di tutte le volte dopo.

S'era evoluto, aveva capito dei trucchetti, ma ogni volta iniziava nella stessa maniera. Con quelle parole, quel sussurro, quel tono strozzato e la consapevolezza di essere solo una puttana che non si prendeva le sue responsabilità.

E si sentiva in colpa ogni volta che quella duchessa di Savoia, e chi dopo di lei, si congratulava.
Perché non aveva fatto niente.
Mentiva e raggirava, uscendone solo con qualche graffietto.

E allora perché quei ricordi lo opprimevano a secoli di distanza?
Perché agognava avere dei segni sul suo corpo, per avere una scusa per soffrire, per essere sicuro di non esserselo immaginato?

Perché non merita niente.

Non aveva meritato la preoccupazione di Marie allora, sospettosa quando aveva rifiutato ogni contatto iniziato da lei per minimo un mese, quando l'aveva fissata con distante orrore quelle volte che lei accorreva in camera sua perché attirata dalle urla nei suoi incubi.

Marie che lo fissava tra consapevolezza e costretta ignoranza ogni volta che si rifugiava nel suo letto in cerca di conforto e con la speranza di darlo, ritrovandosi di fronte un finto uomo al limite dell'isteria.

Non che fosse stata una novità che Marie s'intrufolasse nel suo letto.
Era iniziata tempo addietro, un modo della giovane di trovare cameratismo e affetto. E Roberto non aveva potuto negarglielo, non quando Marie aveva bisogno di Jacques François e lui aveva avuto bisogno di Marie.

Aveva avuto bisogno di quella normalità, per quanto una parte di sé ne fosse terrorizzato. Aveva necessitato quell'appiglio più dell'aria.
E Marie pure.

Forse era per quello che erano andati avanti con il loro teatrino, anche se lui era sempre spaventato e lei sempre più esageratamente affettiva, nella ricerca di un'abitudine da poter esasperare, sì, ma non spezzare.

Ironicamente, quelle mattine in cui ricadeva in parte nelle tristi memorie perché Marie s'era intrufolata di notte e accoccolata a lui senza il suo consenso, erano state tutto quello che l'avevano tenuto a galla quei primi tempi.

Poi s'era abituato.
Più o meno.
Finché Rita non era arrivata e aveva spezzato tutto, minacciando i Savoia che, per la prima e unica volta, erano rimasti spaventati dalla sarda e avevano seguito i suoi ordini.

Ma il terrore era rimasto, gli incubi lo tormentavano e veniva ricatapultato in quell'Inferno ogni mattina in cui trovava Marie nel suo letto.
E non solo.

E anche se aveva costretto i ricordi ad oscurare qualche dettaglio, erano sempre lì, pronti, per attaccarlo.

Come questo giorno.

Roberto s'accorge di come è ridotto solo quando delle dita gli sfiorano la fronte.
Apre gli occhi, rossi, doloranti e stanchi, e dopo lunghi secondi mette a fuoco la figura di Rita.

È diversa e insieme identica alla sera in cui l'ha trovato mentre scappava dalla situazione in cui s'era ficcato da solo.
Quella notte era stata furibonda, gli occhi accecati da una rabbia quasi primordiale, potente ed inarrestabile, mentre gridava e strappava di forza la donna dal suo corpo, scaraventandola a terra.

Era sembrata pronta ad ammazzarla con le sue stesse mani, lentamente, lì.
S'era fermata perché l'aveva implorata lui e quella rabbia era diventato dolore.

Ed è lì.
Quel dolore.
Il dolore del vedersi negli occhi e nel corpo di qualcun altro.

<Non sei solo.> sussurra Rita, come quella sera una volta scacciata la terrorizzata umana.
Roberto tira su con il naso e invano prova a mettersi seduto, mentre la testa è pesante e le membra sono stanche dal troppo tempo passato in posizione fetale.

(Come c'era finito? Non importava. Piangeva per qualcosa che s'era cercato, perché aveva fatto la prostituta e poi s'era tirato indietro.)

E Rita lo aiuta, gli porge dei boxer che già, pronta, aveva in mano, e si gira per dargli un minimo di privacy.
Roberto se li infila e velocemente sfiora la spalla di Rita, che si gira e lo stringe e lo fa stendere sul letto, sotto le coperte. E lui allora si concede di farsi cullare il sonno dalle delicate carezze di Rita e dai suoi dolci sussurri nell'orecchio.

Rita è l'unica donna vicino a cui riesce ad addormentarsi e poi risvegliarsi senza andare in panico.

Rita è l'unica che sa quando sta sprofondando nelle oscurità dell'abisso e che riesce a riportarlo sul bilico, ogni singola volta.




N/A: ... mi sono sentito io una merda mentre lo rileggevo.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top