Taylor - Past
N/A: questo capitolo è stato un parto atroce. Ma è il più lungo tra quelli al passato.
Carolina non ce l'ha fatta ai wattys - come era d'altronde ovvio - ma non sono per niente felice di essermi lasciata convincere ad iscriverla. Non mi sono mai considerata granché, ma queste botte fanno male alla mia già inesistente autostima. Un bacio xx
Ma quale onore, quale emozione. Siete abbastanza da poter definirvi un pubblico. Come? La storia? Ma certo! Perdonatemi, ma la verità è solita sfuggire agli occhi delle masse e per un attimo ho temuto di essere stata tediata da una qualche allucinazione.
Ad ogni modo, mi introduco in questa lugubre narrazione senza mai più interrompervi d'ora in poi! Pertanto, concedetemi, amanti degli errori, di presentarmi. Sono l'Idea e di mia consuetudine risulto vispa e carismatica, una gioia per i ricordi e le sensazioni. Non sono tra i rapsodi più oggettivi, ma prego perché io non travi i fatti con mie considerazioni.
Non continuo imperterrita nei miei soliloqui, inizio immediatamente col dirvi che quando Taylor conobbe Carolina dovette pensare che questa ragazzina con un libro diverso ogni giorno fra le mani ed un'eloquenza spietata fosse bislacca.
La vide introdursi nell'aula di inglese con la sacca marroncina - quasi sul beige - di pelle che le pendeva da una spalla, gentilmente coperta da un cardigan giallo, e le sue mani reggevano dei libri già rovinati. Sulle sue labbra spuntava un sorrisetto allegro, i suoi occhi gli parvero vispi e tutti, ognuno dei suoi tratti era determinato da una voglia matta di vivere.
Ricordò come le si incurvassero le spalle alla menzione del programma, come le si aggrottavano le sopracciglia a qualche pronuncia sbagliata e quanta bellezza ci fosse in una personcina piena d'amore per ciò che la circondava.
La avviluppava - o gli sembrò l'avviluppasse - uno spietato senso di appartenenza al mondo. E ne parlò, col suo capo, Taylor, quando non riusciva a smaltire l'energia che l'immagine di Carolina gli forniva.
«Come si combatte una testa?» chiese all'uomo dalla mascella serrata e la pelle scura. Lui si voltò e «Dipende dalla testa.»
«Una di quelle perse nelle idee.»
«Allora sei fottuto.» scherzarono insieme e non ebbe la minima cognizione di quelle parole che potevano divenire bastevoli rispetto l'intera faccenda che andò a ramificarsi per scelte improvvisate e mancanti di tatto.
Taylor era solito camminare a pochi passi da lei ed ammirava la positività che veniva emanata da un esile corpo con tutta la vita da consumare e rimpiangere. Credeva che - prima o poi - si sarebbe arresa. Pertanto, trascorse i pomeriggi della sua prima annata di studi ad osservarla sedersi scomposta da Chemical Romance mentre gustava tramite gli occhioni scuri un buon libro. Sedeva a pochi tavoli di distanza, non gli dispiaceva per nulla nascondersi e assorbire i piccoli dettagli che una figura tanto spontanea era in grado di donargli.
Amava sorridere quando la sua espressione si induriva e la presa al libro aumentava in una maniera nuova, neppure fosse imbestialita per gli avvenimenti scadenti. Adorava percepire ciascuno dei crepitii dati dai suoi stivaletti che battevano quando diventava nervosa per le pagine che scorrevano al di sotto del suo fugace sguardo.
Per quanto aveva sentito di Daisy e del suo gruppo, impegnate a deprecare i singoli atteggiamenti educati di Carolina, lui trovava di suo piacimento guardarla da lontano ed ammirare l'indissolubile legame che veniva a formarsi fra lei e della carta.
Si fomentava nell'apprezzamento di una persona che reputava essere così somigliante a lui, così buona, così disinvolta ed impacciata. Probabilmente vestiva della stessa arroganza, la stessa maligna che caratterizzava il suo fisico allenato per denigrare la fragilità che vedeva posarsi anche sulle spalle di lei tutte le volte in cui nelle aule le rivolgevano diavolerie.
Ci fu un giorno, in particolar modo, dove la vide rannicchiarsi sugli spalti del campo e guardarsi attorno con fare isolato. Come se fosse reietta, si stabiliva nei limiti che reputava pregni di un'atmosfera che le si addiceva. Ed allora curvava non poco le spalle, stringeva il libro e faceva sì che i capelli le coprissero le guance arrossate sulle quali cadevano lacrime irrisolte.
Quel pomeriggio, con una penna tra le mani, dall'altro lato del campo, preso a scrivere di quanta bellezza trapelasse dalla miniatura di quella ragazzina, si domandò perché né Josh né Catherine accorressero.
Un po' si rammaricò, desiderò starle accanto e fu quando lei si sollevò, asciugando con la manica del suo maglione giallo la tristezza che le trapassava il volto, che le corse incontro e «Stai bene?»
Lui era apatico - in questo modo credevano di poterlo definire - ma si stava preoccupando per la ancora bambina in piedi su degli spalti zozzi. Si sentiva sola, lo poteva assaporare nell'aria. Probabilmente l'era pure venuta voglia di pregare.
Distolse lo sguardo dopo che le parole interessate lasciarono la sua gola e a lei bastò quel gesto per sorridere, «Grazie, Taylor.» soltanto disse, superandolo con i soliti libri fra le mani e cominciando ad incamminarsi verso l'uscita della palestra all'aperto.
«Ti piace Fitzgerald?» le urlò a pieni polmoni.
Si voltò, spaesata, «Lo adoro. Piace anche a te?»
«Sono un po' ignorante riguardo l'argomento. Ma potresti parlarmene.» risero entrambi. Lei pareva accendersi ogni sillaba di più, faventava la desolazione che l'aveva percorsa e quegli occhioni marroni le brillavano senza sosta.
«Non c'è molto da spiegare rispetto un libro, ritengo. Posso svelarti la trama o ciò che di convenzione viene pronunciato: ma la maglia è il resto. Tutto il resto, Taylor.»
«Puoi prestarmelo e io troverò la magia.» annuì, l'altra, alle frasi avventate che di certo non componevano quel ragazzino introverso quanto lei.
«Stai attento a non innamorarti di Daisy; ne rimarresti secco.»
«Allora mi innamorerò di tutto il resto.» ridacchiò. Aspettava che lei si voltasse, ma Carolina prese un respiro e l'andò ad abbracciare. Di quegli abbracci suggestivi, intriganti, pieni di gratitudine. Carolina permise che Taylor non ricambiasse la sua stretta solamente perché era consapevole che quella era la sua maniera di dimostrare affetto.
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Quella mattina, circa di due settimane dopo, Taylor abbandonò gli allenamenti dieci minuti prima per correre in doccia e poi per strada, non badando alle auto intrise nel traffico e alle bestemmie di coloro che di mattina presto non erano inzuppati di voglia di vivere.
Quella mattina superò il gruppo di Daisy senza nemmeno rivolgerle un saluto - eppure lei gli piaceva parecchio - e non perse un attimo. Trovò il corridoio che Carolina era solita percorrere e la trovò in una camicia a fiori, a testa abbassata, mentre avanzava fra gli altri studenti.
«Daisy è una stronza.» non la salutò, le porse il libro e le regalò il sorriso più stravagante e grato che possedeva. Lei si concesse una risata accesa e «L'amore non va sempre d'accordo col buon senso.»
Sollevò gli occhiali dal naso, Taylor, ed iniziò a compiere i passi insieme a lei, non curandosi della folla che gli stava intorno. «No, non è innamorata. Non può aver amato Gatsby e Tom contemporaneamente.»
«So che è assurdo, Taylor, ma abbiamo due versioni differenti.» inclinò il capo, ma non cercò di far mutare la sua idea. Ammetteva che nell'arte ce ne fossero di diverse e Taylor, questa cosa, la trovò strabiliante, «Io credo che nell'amore non ci siano valori esclusi. Egoismo fra questi. Daisy era innamorata ed egoista. Il secondo sentimento, più sadico e radicale, è prevalso sul primo. Amava Jay, ma amava anche Tom. Può apparire assurdo: ma non c'è un solo amore.»
Taylor aggrottò le sopracciglia e le rughe facciali divennero ben evidenti, «Ma - le si parò davanti con le mani ben sollevate ed una fatidica camminata all'indietro, - se è amore vero allora metterai da parte l'egoismo. Più che egoista, credo che Daisy sia narcisista.»
«O semplicemente umana. Non c'è una vera motivazione d'amore. Come puoi dire che esiste un amore vero ed uno che invece non lo è?» resto senza parole.
«Intanto, Gatsby è un coglione.»
«Gatsby è l'uomo più innamorato dell'intera letteratura di ogni tempo.»
«Ed opprimente. Ma sei una donna: dov'è Darcy?»
«A rannicchiarsi fra i sorrisi di Lizzie. Lascialo lì.» scoppiarono a ridere nel bel mezzo del corridoio, accordando di sedersi uno accanto all'altra durante la lezione di matematica.
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Continuarono così gli ultimi due mesi del primo anno e gran parte del secondo, nonostante durante l'estate si fossero messi in contatto di rado.
A Taylor pareva mancare la non assenza di silenzio e a Daisy sembrava mancasse qualcuno che l'ascoltasse.
Pervennero più somiglianti di quanto mai qualcuno avrebbe potuto pensare e arrivati a quel punto - come spesso accade in queste storie - qualcosa dovette rompersi.
Avreste detto - miei diletti - che non ci fossero crepe. Pranzavano insieme, fra le pieghe di un nuovo romanzo ogni giorno e tra le chiacchiere talvolta superflue, prive di afflizione. Percorrevano spesso i grigi spazi insieme e sedevano accanto, senza forzare la loro armonia. C'erano momenti di pace, non amicizia.
Invece, qualcosa si infiltrò ed iniziò a rannuvolare lo splendente rapporto che vigeva fra i due. Daisy - che portava fede al suo nome e v'assicuro che la mia collega Autostima ha omesso questo dettaglio per lasciarlo alle mie mani sociopatiche - notò come Taylor s'era allontanato da lei. Come non fosse più benevolo se si trattava di spigarle qualche materia o lasciarla avvicinarsi più di troppo. Lui s'era stancato, lei credette che non c'era un punto finché non l'avesse messo di suo pugno.
Così, prese a dare le attenzioni che il ragazzotto alto e muscoloso desiderava veementemente. Lo coccolava, lo abbracciava spesso o gli sedeva sulle gambe - anche se era impegnata in una relazione - e fingeva abbondantemente di tenere alla sua opinione.
Ed era una mattina, nella classe di matematica, che Taylor esplose la prima volta. Si accingeva a terminare il secondo anno e Carolina non era a conoscenza di un dettaglio che lui fece pesare come fondamentale.
«Rappresenta il flusso di coscienza.» stava spiegando a Jennifer il brano da analizzare di letteratura e il ragazzo dai capelli scuri intervenne, spontaneamente, «Come l'Ulisse si Joyce.»
Carolina diventò pensierosa, mordendo le sue labbra e non ricordando effettivamente quel romanzo. Si sistemò di sbieco, «Non l'ha scritto Joyce?» lei scrollò le spalle. Impiegò poco per controllare sul cellulare e «L'ha scritto Joyce.- il suo tono s'era inasprito e la ragazza non ne concepiva il motivo - Parli di flusso di coscienza, ma non sai che Joyce ne fosse il fautore. Ti definisci esperta di letteratura, ma non conosci Joyce.»
Carolina accennò ad una risata, provò a falsificarla e nascondere le lacrime che già tentavano di scendere aborrite. Ma quando capì che non fosse uno scherzo, provò a rispondere «Non mi definisco esperta di arte. Ho una discreta conoscenza --- »
«Intanto non conoscevi l'Ulisse di Joyce.» terminato l'ultimo suono di quella parola, incominciò ad ignorarla per l'intera mattinata e nel trascorrere del pomeriggio, sul gruppo della classe di matematica, si sistemò comodo nel lanciarle frecciatine al riguardo.
S'era decisamente frantumato qualcosa, ma Carolina non ebbe la lungimiranza di raccoglierlo e andar via prima che terminasse per sgretolarsi anche la parte rimanente.
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Il secondo anno finì in battutine ed occhiatacce nel corridoio, sembrando piantare un punto a quel benestare e ci fu qualcuno particolarmente compiaciuto di questa situazione demenziale.
Si apprestò a giungere il terzo anno e Carolina stava raggiungendo una piccola ed ingannevole dose di felicità in una relazione. Connor, sono certa avrete sentito questo nome, e proprio lui quel giorno --- sciocca!, sbadata che non sono altro. Non importa cosa fece Connor, ma Carolina s'era ritrovata innervosita nell'aula di letteratura e Taylor entrò, osservandola mordere l'interno guancia e battere le dita sul banco.
«Nervosa?» lei gli sorrise.
«Arrabbiata.»
«Questi sì che sono problemi.» poteva promuoverlo come se fosse stato uno scherzo, ma l'acidità che trasparì dalle sue corde vocali non permetteva potessero esserci incomprensioni.
Il tempo si districò allo stesso modo rispetto l'anno precedente, ma ci fu una particolare discussione che fomentò Carolina e la costrinse a trattenere le lacrime.
Si discuteva riguardo determinate cose in classe e la politica si risolse quasi quanto l'argomento giornaliero da superficializzare.
Ognuno espresse la propria opinione - Elizabeth non aveva idea di cosa si stesse parlando - e quando toccò a Carolina, le solite ed imperterrite risate non cessarono di aizzarsi, scomode e degne di una lode astrusa di negatività. «Io credo che se si dimezzassero - o, meglio, si tagliassero determinate spese dello stato da potersi definire superflue, riuscirebbero ad ottenere dei risultati. Come gli show - scusate la banalità - che pagano milioni di dollari i presentatori e questi soldi vengono presi dalle nostre casse. È questione di priorità.»
«Certo, diamo la colpa a James Corden.» il tono aspro di Taylor fu di inevitabile udito. Carolina si voltò con fare interrogativo e «Non mi riferivo a lui, ma --- »
«È un discorso stupido, Carolina. Non puoi prendertela con un conduttore come se fossi un quarantenne disoccupato. Qual è il prossimo step? I politici sono tutti corrotti, al rogo! - diversi risolini avanzarono e lei dovette tenersi saldamente alla sedia per non esplodere - È un discorso superficiale ed inconcludente.»
«È una mia idea.» la voce a tratti la tradì e tutti già si aspettavano una crisi della ragazza piangente.
«È un'idea stupida.» la professoressa interruppe la discussione con la sua entrata in classe e Carolina ebbe necessità di tutta la fermezza che riuscì a racimolare per sollevare la mano, chiedendo il permesso per andare al bagno.
Fu una volta che s'era chiusa la porta alle spalle che aprì il rubinetto dell'acqua e bagnò il suo viso sudato ed arrossato. Un po' inumidì il cuoio capelluto, un po' cercava di riprendere a respirare in un battito consono. Non s'era mai sentita stupida: non tra le persone che potevano vantare chissà quale intelligenza, ma mai stupida. Non aveva mai percepito di star abusando della sua capacità di ragionare e la consapevolezza che le frasi argute di di Taylor avevano iniettato in lei la sgretolava man mano. Si teneva al lavabo sudicio per non perdere l'equilibrio e portava il palmo libero ai capelli per tirarli.
Ascoltò la sua voce nella testa, ascoltò i suoi discorsi, quel che diceva, e bramava di tappare la sua bocca con un nastro adesivo per non sbagliare a considerare. Vestiva, d'improvviso, i panni di una idiota incapace di riflettere e non poté che ammettersi come improvvisamente nulla. Quel che fino ad allora l'aveva fatta ritenere positiva nei confronti degli altri - la sua dialettica, l'eloquenza spontanea che la vivacizzava e quel suo imparare non metodico - d'un tratto le parve inutile. E l'inutilità le pesò come un macigno sullo stomaco.
E andando a proseguire lungo il terzo anno, accadde ciò che devastò ulteriormente la progressiva umiliazione della ragazza dagli occhioni castani.
Poteva essere una mattina - e son certa che l'Autostima vi ha manomesso anche questo dettaglio per far sì che lo coccolassi io quanto meglio riuscirò fra le grinze disattente della mia penna - e Carolina ed alcuni compagni erano in fila, pronti per sostenere un piccolo esame che avrebbe dato loro dei crediti.
Così, dialogavano fra loro e nessuna parola era stata cambiata fra i due beniamini di questa piccola parte di una storiella ben più estesa; nessun contatto fino a che la figura di Daisy - ritardataria come sua consueta abitudine - si fece largo fra le altre e dopo diverse chiacchiere, il commento che uscì fu spontaneo e per niente malizioso: «Sei in anticipo, Daisy.» un sorriso di egregia bontà o in quel modo lei avrebbe voluto apparisse, perché ciò che seguì fu di dispendiosa recrudescenza verso la celere affermazione.
«Ma che cazzo vuoi, Carolina? Cosa? Ma chi cazzo ti ha chiesto niente? Ma la smetti?»
«Daisy, voleva essere una battuta.» la riprese che la voce già le vacillava in gola, la sentiva sconsolarsi nelle pieghe di umanità che la componevano.
«Ma chi cazzo le vuole sentire le tue battute? Ma non rompere le palle.»
«Carol, lasciala stare.» la prese per un braccio Molly, allontanandola dalla discussione inviperita quando la ragazza si poneva per rispondere.
Carolina si mortificò e corse via, ritrovando in poco Taylor sulle scale, accanto al suo instancabile compagno di corsi, Jeff. I due parlottavano ed entrambi aggrottarono l'espressione nel vedere una ragazzina piangente camminare a passo rapido.
«Che è successo?» Jeff si presentò preoccupato, fermandola prima che salisse le vecchie scale per rinchiudersi nel consueto bagno al piano superiore. La bloccò per le braccia e fece sì che Carolina lo guardasse e scoppiasse nuovamente. «Che diavolo -- »
«Qualcuna delle sue compagne le avrà detto qualcosa di cattivo.» suggerì Taylor. Si passò una mano nei capelli brunastri e le lanciò una velocissima occhiataccia al di sotto degli occhiali neri, risedendosi con tranquillità.
«Ho fatto una battuta sciocca,- era solita singhiozzare, la rendeva più capace di controllare le varie sfumature di rabbia che si ergevano in lei durante eventualità di differente tipo, ma mai come quel giorno Taylor detestò quei lamenti, -Ma Daisy mi ha urlato contro ed è stato orribile. Non le avevo detto niente io --- io non le avevo detto niente.» inghiottì gli eccessi di saliva e con la manica della felpa asciugò i residui salmastri e freddi cedevoli sulle guance.
«Sarà stata nervosa.» Jeff la fece sedere e le dedicò il sorriso più sincero ed affettivo che rimbeccò nel repertorio. Racimolò tutte le maniere dolci ed educate che possedeva consapevole della sensibilità della ragazza.
«Io non ce la faccio più, Jeff.» sussurrò, abbassando lo sguardo, «Credo di star soffocando. Questo è bullismo.» ci aveva riflettuto bene prima di addossare alla causa un nome tanto prorompente e ricco di significato, non da svalutare. C'aveva pensato in doccia o a tavola, in silenzio o nel baccano, seduta e in piedi. Non era di certo suo volere vestire una situazione di un'etichetta che non le apparteneva, ma decise che poteva definirsi esatto.
Jeff provò a replicare, ma uno sbuffo - seguito da una non corretta risata - lo interruppero, «Bullismo? Non è che se stai sul cazzo a quattro ragazze automaticamente è bullismo.» si irrigidirono tutti e tre.
«Sono piuttosto attenta alle parole che uso.» tono piatto, diffidente. Ciò nonostante, s'accendeva in lei una scintilla di adrenalina incontrastabile.
«Non mi pare. Oh mio dio,- la scimmiottò con fare provocatorio -Due ragazze mi odiano e sono vittima di bullismo. Che tragedia.» le si rivoltarono le idee nello stomaco e percepì una malsana voglia di rimettere le sue opinioni sul pavimento.
«Cresci, Carolina.» non accettò di ascoltare altro, semplicemente si alzò ed andò di nuovo via. Questa volta, non permise a nessuno di fermarla --- non che alcuno desiderasse di interrompere quell'aggressività che rigirava come un coltello in se stessa.
Ritrovò la porta conosciuta del cesso e vi si chiuse all'interno, dapprima sciacquando le lacrime che scendevano impervie e poi dandosi a schiaffi perché stupida.
«Andiamo, cogliona!» strillò e si regalò un altro palmo in pieno viso, «Che cazzo piangi? Eh? Cosa cazzo piangi, Carolina?» e le parole spuntavano nella sua gola come gemme e si alienavano nella rabbia più complessa nel momento in cui venivano fuori dalle sue labbra rosee.
Le iridi scure erano spalancate, c'era una terribile sensazione germogliante in lei: si districava dalle genuine, piantava le stesse radici nei margini più deboli e ossei di quell'esile corpicino e tiravano. Tiravano, tiravano, tiravano! Che parevano dilaniare - queste benedette radici - l'intera fede nei fatti da quell'anima instabile.
Percuotevano senza misura l'impatto col riflesso che osava detestare --- infallibile e orrendo guardarsi allo specchio che si mostrò pari al più atroce dei mali.
Le sue mani andavano a incastrarsi con le punte disordinate dei capelli mori e le lacrime non avevano idea di cosa significasse il cessare: indisturbate solcavano le guance pallide della ragazza e nessun grido poté attenuarle. «Non vedi che sei ridicola? Cazzo, cazzo, cazzo- e tirava con foga la capigliatura, desiderando di strapparla dalla testa, -Cazzo, cazzo!» batté un pugno al muro ed impiegò poco a constatare che una parte di quei suoi capelli ribelli era imprigionata fra le grinze sudaticce del suo palmo tedioso.
Sentì di dover rigurgitare ed indietreggiò, coprendo con l'altra mano la bocca vomitevole e camminando, camminando. L'odiosa immagine dei suoi capelli si impossessò della sua mente e in poco fu a terra, a piangere disperatamente, con le gambe accostate al petto, ed una voce debole a tal punto che nessuno si accorse di quella personcina accovacciata ed in preda al discernimento di se stessa.
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L'ultima fattezza che vi farà disperdere il vostro tempo - so che andate di corsa: un lettore è sempre di fretta. Sempre. - riguarda un puntuale evento che va a collocarsi ad esattamente tre giorni prima di quel fatidico giorno. Carolina era così spenta, era impossibile che chi ci tenesse, non se ne fosse accorto. Ma paradossalmente appariva più alleggerita dei giorni precedenti, dei mesi precedenti. La risata era più sbiadita, ma accesa, quasi a sbirciare verso un'esagerazione. Era secca, un'enorme risata secca e nessuno -- nessuno se ne rendeva conto.
Quel giorno s'era decisa - prima di andare a scuola - di acquistare uno dei suoi album preferiti. Non era palesemente il tipo adatto a quella musica, però si era ritrovata a sperare di poter ricostruire i brandelli della sua esistenza ripartendo proprio da lì. Non si curò dei dollari spesi o del fatto che lo avesse con costanza attivo sul cellulare: ne aveva l'inconsueta necessità.
Lo teneva stretto fra le sue mani - quel bell'album rosa confetto - e camminava mentre un sorriso sincero le vinceva le rughe intristite. Era talmente spensierata, che pensò nulla potesse rovinarle quell'abbondanza di sensazioni positive.
Lo appoggiò sul solito banco quando entrò nell'aula di matematica e non badò che le persone lo vedessero: si sentiva bene dopo giorni.
Fu allora che avvenne: un piccolo e minuzioso fatto. Taylor sedeva dietro di lei e subito affianco Jeff. Entrambi si accertarono del raggiante sorrisetto sboccato, ma soltanto uno parlò. «Sei felice?» lei annuì, l'altro sorrise di rimando.
«Quanto ti è costato?»
«Venti dollari, ma sono contenta. Lo volevo.» Jeff fece cenno col capo per indicare avesse percepito quell'ondata di energia.
Carolina si sedette, aprendo il pacchetto e rigirando fra le mani l'album che avrebbe ascoltato tutto il pomeriggio. Era disinteressata verso il rimanente, desiderava dedicarsi a ciò che credeva non potevano contestarle: i gusti.
«Soldi buttati.» la voce risuonò distaccata e fredda. Lei si voltò con fare interrogativo, «Hai speso venti dollari per un album di merda.»
«A me piace.» strinse i pugni, Taylor rise.
«Ma fa schifo lo stesso.»
«Se l'ho ascoltato tutto questo tempo e non m'ha fatto schifo, penso di --- »
«Vuoi dire che hai speso questi venti dollari per musica che hai sul cellulare? Sei stupida, allora.»
«Tay.» Jeff lo richiamò, si aspettava una reazione alla Carolina. Si ritrovò a sperare che arrivasse, ma lei semplicemente sorrise e si voltò, mettendo da parte l'album che avrebbe - poi - buttato nel cestino di camera una volta arrivata a casa.
Ed improvvisamente, dopo aver scelto di gettarlo nella pattumiera in lei non nacque alcun senso nuovo o illegittimo: non teneva fra le mani che una testa svuotata.
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