Elizabeth - Now

La tua sanità è manomessa, l'hai fatto tu. Sono ore, quelle che stai trascorrendo sola nella tua stanza. Ti stendi, ti alzi, apri la finestra e permetti che la disperazione di questi attimi voli via.

Leghi i capelli, li sciogli. Gli abiti, li hai tirati tutti fuori dall'armadio e ti sei spogliata. Desidereresti scuoiarti e liberarti anche della pelle -- ardita, soffocante. Teste dei tuoi atti. Ma blandisci il contatto con te stessa e doni un ennesimo sguardo alle due lettere posate sulla scrivania di legno bianco. 

Tua madre ti ha chiamata per la cena, ieri sera. Tu non hai risposto e lei ha lasciato perdere. Non ti ha svegliata, come sempre, stamane e non si è preoccupata se tu fossi andata o meno a scuola. Tuo padre a stento sa che esisti, nel tempo libero. E te lo ripeti, lo utilizzi persino come scusante: non è che sei stata male solo tu, Carolina! Anche io ho il mio. La detesti, non risulti davvero pentita per ciò che hai causato. Neppure ti interessava, vuoi soltanto che il senso evapori, svanisca e che resti un orribile ricordo dei tuoi anni da adolescente.

Le ragazze ti scrivono, ma tu intendi ignorare le distrazioni. Vorresti che le parole venissero fuori esattamente come oro colato dalle tue dita curate e che si riversassero intime ed infime sul foglio di carta stropicciato.

Provochi al tuo animo ulteriore pentimento e noti che il cellulare squilli; compare il nome di tua madre e ti affretti a rispondere, riscaldando la voce, «Mamma.» ma è comunque tesa, distante, impacciata a lacrime e distrazioni.

«Elizabeth, tesoro, resterò fuori questa sera. Ho da fare. Tu hai bisogno di qualcosa?» respiri a fatica, cerchi di agguantare (pensando di riuscirci) il petto e di gettarlo al di sotto dei tuoi piedi scalzi. Scuoti la testa, sedendoti e giocando con la bretella del reggiseno.

«Perfetto, allora --» si sbriga a chiudere, la sua voce ti suona pimpante.

«In realtà,» la interrompi, non tenti di dichiarare il falso coi tuoi toni: sei devastata, malignamente sottomessa ai ricordi, e vorresti parlarne.

«Sì, zuccherino?» stava per attaccare, ma fingi di non rendertene conto.

«Ho bisogno di raccontarti una cosa.»

«Non puoi aspettare che torni a casa?» si pone contrariata. Fai un cenno di assenso, ma rimangi davanti allo specchio, che mostra il disordine della stanza, la tua gestualità.

«Non ci metterò molto.»

«Allora? Parla.» vuole che ti dia una mossa.

«C'è -- anzi, c'era una ragazza con cui frequentavo alcune mie lezioni e lei --» le tue tonsille cedono e ti sembra di percepirle nello stomaco. I discorsi ti si fermano al cuore e provi a non piangere. Lei parla con una sua collega, dall'altro lato.

«Puoi invitarla a cena, tesoro.»

«No, mamma, io --»

«Salutamela e dille che anche domani va bene. Ciao, stellina.» non ti accorgi che ha attaccato e «E' morta.» ma lo getti fuori ed ascolti il beep beep della chiamata terminata.

Allontani lentamente il telefono dall'orecchio, la biancheria che indossi ti sta stretta ed impieghi il passaggio di un tempo breve per buttare a terra il cellulare nuovo che i tuoi ti hanno acquistato.

Adesso, non va più bene. Adesso, cerchi mancanza di superficialità. Adesso, desideri che qualcuno ti parli e riempia il silenzio che scandaglia i tuoi pensieri. Essi diventano nudi e crudi. Non capisci, vuoi soltanto che ti si annebbi la vista -- ma succede e non l'avevi previsto.

Gridi, strilli e urli. Cacci l'odio per l'assenza dei tuoi genitori che tanto ti nuoce. Cacci l'indifferenza che ti appartiene. Cacci la consapevolezza che nulla è più terrificante dell'essersi etichettata nella banalità.

Un'impetuosa nausea discende dalla bocca impastata lungo la trachea, poi al petto, allo stomaco, all'intestino, infine nelle tue viscere aggrovigliate. La ritrovi nelle dita dei piedi. È corrosiva, è devota alle lacrime. Ma ti imponi di non piangere.

Allora, ti sbrighi, spalanchi la porta del bagno e cadi di fianco al cesso, incominciando a rimettere tutto ciò che non hai mangiato. Rimetti tutto. Rigetteresti nel water di porcellana anche Elizabeth, se fosse possibile, per ritrovare un granello genuino di te.

E ti aggrappi, le ginocchia iniziano a dolorare mentre con le mani stringi il bordo freddo. La tua bocca non riesce a far scendere altro; allora tu sputi. Troverai qualcosa in quel liquido. Qualcosa di piacevole. Piacevolmente migliore della giovane che, alzando il capo, col viso pallido e i capelli smossi, vedi allo specchio. Devota all'invidia, hai rovinato i tuoi tratti più gradevoli. Il tuo fisico ora è come desideri, ma ti sei svuotata. È finita, Beth, mi guardi perché io abbia un ammanco e dimentichi di rammentartelo: ma hai terminato. Non hai più maschere da indossare, hai giocato un ruolo bramabile in una messinscena che ti ha fatta causa della morte di una ragazza. Pietà, chiedi.

Ti sollevi, ti reggi al mobilio del bagno dai decori floreali. La vasca è a tal punto delicata, coi bagnoschiuma perfettamente sistemati, così ogni cianfrusaglia presente. È tutto adorabile.

Giri la manopola del rubinetto e con i palmi ti sciacqui il volto sudato --- mantieni un tatto che solca, profondo, cosicché gli errori scivoleranno via. Fosse così semplice, Elizabeth, e non staresti toccandoti attraverso un misero riflesso di uno specchio appannato.

Lineamenti carini, ti definiscono la ragazza più bella del terzo anno. Ma dietro i tratti, oltre la superficialità della quale solamente sei composta, risiede nullità.

Ma un vuoto differente, mia derelitta, un vuoto concreto. Esistenziale. Tu sei vuota. Non svuotata. Ed è tanto triste riconoscersi ridotta al fantasma di se stessa, non trovi?

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