Daisy - Now
N/A: penso non sia uno dei miei capitoli migliori. Mi sento uno schifo, perché negarvelo? Se vi va, fatemi delle domande rispetto ciò che vorreste sapere di me, di ciò che scrivo o rispetto a quel che leggo e vi risponderò. Ho la bislacca necessità di pensare ad altro. Grazie.
Sempre convinta di non star gettando nel cesso un'esistenza da coltivare, ti sei apprestata a percorrere una strada che - a dirla tutta - t'è da tempo immemore stata stretta.
Ed è così anche adesso, mentre siedi a gambe incrociate nella tua stanzetta disordinata e illuminata quanto necessario. Poggi i piedi sulle maglie già indossate e ti sistemi sul pavimento freddo per beccare quel piccolo brandello di beatitudine che vai cercando.
Non hai paura di camminare in questo mondo da sola, te lo ripeti con costanza nelle tue membra addormentate, non hai chiesto di piacere loro.
Le mani armeggiano con la pelle nuda che gli indumenti lasciano intravedere, ti noti nello specchio che si erge proprio di fronte a te e decidi che non importa; indossi gli occhiali e riprendi fra le mani quei foglietti di carta che a stento riesci a contenere negli astrusi movimenti che adesso ti vestono.
Vorresti uscire, chiamare qualche tuo amico, ma c'è un'infima nausea - celere nascente disturbo - che ti corrode anche i muscoli delle cosce.
La bocca impastata, hai tolto gli orecchini di grandi dimensioni tuoi tipici. Hai lavato via il fondotinta, il correttore --- hai riposto nell'apposita scatola adepta alla scelta mattutina la maschera che t'eri affibbiata stamane, poco prima di uscire dalla villetta da famiglia barilla.
Non hai neppure afferrato dallo zainetto la roba che utilizzi per svagarti, lieve passatempo non nascosto. Non hai filtri, a nessuno è mai interessato davvero cosa tu facessi e questa piccolissima consapevolezza affonda con artigli poco ponderati nella tua carne liscia. Ti graffia, ti stringe e desideri che quel tormento non più leggero alle ovaie, salente verso l'intestino, soave dolorino che sottomette i tuoi sensi. Devoto disinteresse verso la vita che - come di rado accade - diviene una sorta di compromesso per una vendicativa risposta alla tua visione dei fatti.
Appoggi il capo sul letto dal materasso nuovo, le coperte sanno di lavanda ed immagini che tua sorella maggiore ti abbia fatto il bucato perché tu sei ancora decisa a rifiutarti.
Una mano fra i capelli e socchiudi le palpebre stanche reduci di troppe nottate; le labbra piene, le chiudi fra loro per evitare che il rigurgito che percepisci in gola possa venir fuori in suoni odiosi. Non sei stata tu, non assumi mai la responsabilità rispetto a ciò che combini, ma la colpa che dimora nella parte sinistra del tuo cuore risulta poco contenibile, piuttosto eccessiva. Non sai controllarla, non la manovri ed ha il sapore di poter divenire una monotonia fastidiosa e dolente.
Chiudi i palmi in pugni di effimera forza ed inizi a batterli al pavimento che - poco limpido - si trova ai lati delle tue gambe. Muovi i piedi, non badi di star stropicciando o strappando i vari capi di vestiario costosi. Impieghi un tempo breve per stenderti completamente a terra, rotolare quanto reputi sia di tuo bisogno e strillare contro il sentimento negativo che ti si impiglia nelle viscere.
È lì, sta frugando energicamente. Le aggroviglia, le sta come per strappare e le tira, le smanetta. Le scandaglia. Il tuo basso ventre duole enormemente quando singhiozzi i primi lamenti. Imprimi la tua resistenza nel raccogliere le ciocche tinte tra le dita e smuoverle con repentina vendetta nei riguardi di altri fastidi inopportuni.
Ti pieghi, prendi le punte dei tuoi piedi e ti fletti quanto più riesci --- fa male, quasi pari alla sensazione di rigetto che penetra le tue corde vocali, ammutolisce persino la tua voce bisbetica.
Sai che tua madre è con certezza al piano sottostante, si crogiolerà nella sua arte ed ignorerà la secondogenita che lotta contro se stessa e l'educazione screanzata che ha ricevuto.
«Zitta.» sibili, il tono perviene soffocato, spoglio, «Devi stare zitta.» so che ti riferisci a me, mi guardi con gli occhioni scuri che ti lacrimano e ti spezzi al di sotto di un tetto che ha ospitato per anni quattro teste complici ed indifferenti, ognuna oziosa e avanzante di tantissime pretese. «Non voglio sentirti, cazzo. Si è buttata lei. Cazzo! Si è buttata lei da quel diavolo di ponte. Devi --» ora balbetti, biascichi le informazioni con la lingua impacciata risultato di saliva e lacrime. «Zitta.» e le mani alle orecchie, dondoli sul tuo corpicino arrovellato e rinchiuso in un guscio di rancore trattenuto, «Zitta.» piangi.
La senti, quella fitta che pare separarti in due, mentre tiri i tuoi soffici e altrettanto rovinati capelli fra le mani sudaticce. Ti pieghi sul pavimento in disordine di camera tua, è insito in te lo svago di un dispiacere nuovo, cui raramente hai assistito. E vedi in te quella malsana e morbosa fragilità, sta emergendo e vorresti placarla: come delle onde che si infrangono via via - man mano che prende piede la tempesta - più atroci, più denigranti. Nausea. Sale quel rimettere, attraversa la gola e riscende. Colpevolezza, poni sulle tue spalle per la prima volta il peso delle tue azioni.
Tuo padre tornerà stasera, vestito delle sue infedeltà e si sentirà dire da tua madre che è comune tu torni alle tre. Che è lui ad essere ancora convinto tu sia una brava ragazza.
Tuo padre tornerà stasera e magari avrà del rossetto ancora sbavato sul collo ambrato, la camicia la indosserà spiegazzata e tu fingerai di non vedere tua madre afferrare il whisky, atto precedente all'andare a letto, e dimenticare i suoi problemi.
Ma dapprima gli racconterà che usi i soldi della palestra per l'erba, per vestiti nuovi e gli sussurrerà che Dalilah è tanto una ragazza perbene. Che Dalilah lavora e studia. Dalilah è fidanzata da due anni e «Che ragazzo cortese.»
Poi fingeranno di non ricordare di conoscere così tante cose della donna che cerchi di emulare con disperazione e siederanno a tavola, dimenticando di avvertire le figlie quando la cena a domicilio sarà arrivata alla porta dalle pareti odoranti di insulti, di tristezze e sbagli annullati da una pessima memoria.
E resta pure a sfiacchirti in uno dei pochi piagnistei che ti concederai nel corso di questa vitaccia che conduci e resta coinvolta con i tuoi errori rinchiusi nella casa delle bambole.
Tua madre ti sente, ti ascolta piangere e sbattere i piedi al pavimento - d'altronde camera tua si trova esattamente sopra il salotto - ma penserà che ti occorrano altri soldi. Tuo padre te li lascerà sul tavolo domattina senza salutarti come sua consuetudine.
Ora sei sola, non c'è ubriacata che regga, frivola conoscenza che possa tenerti compagnia. Sei sola ed impieghi pochissimi attimi per sollevarti e metterti a sedere col sedere dolorante al pavimento freddo. Prendi lo zainetto, con veloci movimenti afferri cartina ed erba, preparando quel che ti distrarrà.
Ordinerai la camera un altro giorno, adesso non ti va e può rimanere in questo modo: un caos. Intanto, però, asciugando le lacrime, avvicini la canna alla bocca e dimentichi - con la tua pessima memoria - di lettere, tristezze e contrapposti pensieri. Falsifichi un sorriso e posi per una foto di instagram, ignorando spudoratamente il groviglio di organi che vacilla in te. Ti dimentichi.
Ma allora spiegami perché persisti nel piagnisteo nel tuo bel castello di ombre.
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