Capitolo 12 - Paradiso
«Sbrigati, Mae-mae!»
La voce allegra e leggera di Hervé riecheggiò tra i tronchi del bosco. Era nitida e familiare anche se Maeriyel non la sentiva da anni - non davvero, fuori dalla sua testa. Neanche la sua immagine era sbiadita: la figura del ragazzino che si muoveva tra la vegetazione era tale e quale a come la ricordava, con il viso rotondo e i vaporosi ciuffi castani.
Maeriyel gli corse dietro, le trecce che oscillavano alle sue spalle. Aveva dimenticato quanto fossero pesanti i suoi capelli quand'erano ancora lunghi, o forse non era più abituata ad avere il corpo minuto di una bambina: il mondo sembrava strano, visto da una prospettiva così bassa, eppure Maeriyel riusciva a malapena a formulare quel concetto. Sembrava qualcosa di fumoso, inafferrabile, una consapevolezza su cui era impossibile soffermarsi troppo.
Saltò la grossa radice di un castagno e aggirò con uno scatto una giovane pianta di alloro, seguendo il rosso della maglia di Hervé che spiccava nel fogliame. Allungò una mano verso di lui, ma quando credette di averlo raggiunto quello sfuggì alla sua presa e scappò via, invitandola a seguirlo con un ampio gesto del braccio.
Maeriyel arricciò le labbra e deglutì a vuoto, avvolta da un'improvvisa sensazione di disagio. Hervé rideva, ma lei sentiva lo stomaco accartocciarsi e quando schiuse le labbra si accorse di non riuscire a respirare fino in fondo.
Riprese a correre, l'affanno che cresceva mentre i suoi passi diventavano sempre più veloci. Non riusciva a star dietro all'amico ed era sempre più complicato scorgere la chiazza rossa nella vegetazione che si infittiva.
«Hervé, aspetta!» chiamò, ma venne fuori un sussurro strozzato. Non riusciva ad alzare la voce, la gola era ostaggio dell'angoscia che stringeva le corde vocali tra le sue mani ossute.
E non riusciva più a vedere Hervé. Attorno a lei c'erano solo arbusti di more straripanti di foglie e frutti, mentre i petali gialli degli orociondoli pendevano sopra la sua testa, oscillando al vento.
«Hervé!»
Il cuore si agitò nel petto con una tale violenza che a Maeriyel sembrò volesse rompere le costole. Sentiva ancora la voce dell'amico, ma le sue risate e i suoi richiami si facevano sempre più distanti. Le fronde degli orociondoli erano così fitte che la luce non riusciva più a filtrare e i rovi bloccavano ogni passaggio. Fu costretta a fermarsi, ma loro non lo fecero: i rami scricchiolavano e spingevano foglie fruscianti e spine acuminate verso di lei, togliendole spazio, togliendole respiro, avvolgendola tra spire ritorte e grondanti di sangue.
Qualcuno l'afferrò per le caviglie e la tirò giù, strappandole un urlo. Maeriyel scivolò lungo quella che sembrava la tana di un coniglio, ma quando ruzzolò al suolo c'era erba fresca ad accogliere la sua caduta, e il sole era il padrone di un cielo sereno.
L'astro era così luminoso da costringerla a stringere gli occhi, anche quando sollevò una mano a schermare il viso. Si accorse solo allora di essere di nuovo adulta: le dita erano lunghe e sottili, le punte dei capelli le sfioravano il collo e la lunga treccia era leggera alle sue spalle. Quando chiamò il nome dell'amico ancora una volta, la voce non era più quella sottile e acuta di una bambina.
«Finalmente sei arrivata, Mae-mae.»
Non lo era più neanche quella di Hervé. Maeriyel non aveva mai sentito quella voce calda e limpida, eppure sapeva che apparteneva a lui; sorrise quando incrociò quegli occhi azzurri che avrebbe riconosciuto ovunque, anche se l'aspetto del ragazzo non era come lo ricordava. L'Hervé che le stava di fronte aveva l'altezza di un giovane uomo e il busto sottile coperto da una blusa di lino bianco. Il viso tondo era privo di barba e i capelli castani erano più corti, pettinati con una riga al centro. Teneva le labbra piegate all'insù in un sorriso tanto dolce da sciogliere qualunque angoscia ghermisse l'animo di Maeriyel.
Hervé allungò una mano verso di lei per aiutarla ad alzarsi, ma lei la ignorò: si tirò su in uno slancio e si gettò tra le sue braccia, circondandogli il busto. Lo stomaco si accartocciò nel timore che potesse sfuggirle di nuovo o svanire al suo tocco, che si ritrovasse ad abbracciare aria e polvere, ma non accadde: Maeriyel si aggrappò a lui e incassò la testa nell'incavo tra collo e spalla, stringendolo con tutte la sue forze. Le sfuggì un singhiozzo al sentire il tepore e la robustezza del suo corpo, e in un sospiro liberò tutte le sue paure.
Forse quello era un sogno, nient'altro che il frutto della mescolanza tra ricordi e immaginazione, ma non le importava: era tra le braccia di Hervé, sentiva il suo profumo di terra stuzzicarle le narici e il suo fiato caldo solleticarle il viso, e tutto era di nuovo al suo posto.
«Mae-mae...»
«No» lo zittì lei, artigliando la stoffa della blusa. «Non andare via. Ti prego, non lasciarmi anche tu, non di nuovo.»
Hervé soffiò uno sbuffo leggero, allegro. «Certo che no, Mae-mae. Resterò sempre con te, ricordi? Non preoccuparti, non vado da nessuna parte.»
Maeriyel annuì, liberando un pesante sospiro. La tensione che le tirava i muscoli non si era del tutto sciolta, però; sembrava che i tendini si fossero annodati l'un l'altro e ben presto sentì il magone premere sulla gola, costringendola a singhiozzare.
«Scusa se ti ho chiamato scemo» gemette, stringendosi ancora di più a lui mentre le lacrime scivolavano sulle guance. Gli aveva parlato così tante volte, ma quella frase non era mai riuscita a pronunciarla. «Non lo pensavo davvero. Ero solo concentrata nel gioco, io non... Non volevo trattarti male, non volevo scacciarti. Io ti voglio bene, Hervé.»
«Lo so, Mae-mae, lo so» sussurrò lui, accarezzandole piano i capelli. Il tocco era così leggero sulla sua testa, come un tiepido vento di primavera. «Va tutto bene.»
«No, non va tutto bene. Nulla va bene da quando te ne sei andato.» Maeriyel schiuse le labbra per inspirare quanta più aria riusciva a raccogliere, ma il nodo nella sua gola era così intricato da spezzarle persino il respiro. I singhiozzi le scuotevano il petto e le lacrime bagnavano la blusa del ragazzo senza che Maeriyel potesse far nulla per fermarle. «Mi dispiace. Volevo riportarti nell'albero, volevo far crescere altri rovi, ma non... Ci ho provato, ma non ci riuscivo. Non riuscivo a muovermi. Avevo così tanta paura! Avrei solo dovuto allungare un braccio, solo muovere una mano, ma non ce l'ho fatta. Non ce l'ho fatta. Mi dispiace, Hervé, mi dispiace così tanto...»
«Eri spaventata, come lo ero io. Non devi scusarti di nulla: la colpa è della Chimera, non tua. Ciò che conta è che almeno tu sia riuscita a salvarti.» Hervè le baciò la fronte, tenendola stretta a sé mentre piangeva. Va tutto bene, continuava a sussurrargli, e Maeriyel si lasciò cullare dalle sue carezze e dalla sua voce finché non sentì il pianto chetarsi; solo allora si sentì pronta ad allentare la presa.
«Non pensare a quel giorno, Mae-mae. Abbiamo passato così tanti bei momenti, insieme: vorrei che ricordassi quelli.» Hervé le porse un fazzoletto, poi le accarezzò le guance e la invitò ad alzare lo sguardo. Le rivolgeva ancora quel sorriso dolce, affettuoso, e c'era una tale lucentezza nel suo sguardo da spingerla ad inclinare le labbra a sua volta. «Vorrei che potessi tornare a sorridere, come quando eravamo bambini. Come quando andavamo a caccia di sassi da far rimbalzare sull'acqua e tu mi aiutavi a raccogliere quelli più particolari e bizzarri. Come quando giocavamo alla Mietitura o a Saltalepre, o quando restavamo a guardare la fioritura del frutteto, o quando creavi quei cactus dalle forme buffe e noi dovevamo capire cosa fossero.»
Maeriyel ridacchiò, liberando uno sbuffo ilare che le allargò il sorriso. C'era allegria nei suoi ricordi, ma quella spensieratezza era venuta a mancare troppo presto: ora quella gioia aveva un sapore agrodolce, nostalgico: più Maeriyel pensava a quant'erano stati sereni quei giorni, più sentiva la tristezza corroderle lo stomaco. Il magone tornò a serrarle la gola mentre le labbra si piegavano all'ingiù, tirate in una smorfia sofferente.
«È stato tanto tempo fa» mormorò soltanto, chinando il capo.
«Come quando abbiamo ballato insieme, allora» suggerì Hervé. «È stato bello, per quanto breve. Sembravi così felice...»
Maeriyel aggrottò le sopracciglia, offrendogli uno sguardo perplesso. «Abbiamo ballato insieme?»
«Certo, alla Sagra di Haniel. Non ricordi? Hai creato un corpo apposta per me, perché potessi danzare con te.» Hervé sciolse l'abbraccio per sistemarsi alla sua destra, offrendole il palmo.
Non c'era che il suono del vento che smuoveva le foglie, attorno a loro, eppure Maeriyel poteva giurare di sentire le note del rondò suonate da una fisarmonica solitaria. Il sole scaldava la sua pelle come il fuoco della pira, gli alberi agitavano le fronde come energici ballerini.
Maeriyel afferrò la mano di Hervé. Per un attimo sentì sotto le dita la ruvida corteccia di Monsieur Tronco e sorrise; le sembrava così ovvio, adesso. Così naturale. Hervé era davvero rimasto con lei, come le aveva detto suo padre. Anche se era morto, non aveva mai abbandonato il suo fianco. Non l'avrebbe mai lasciata sola.
Danzarono insieme sul prato. L'erba solleticava le caviglie e l'ampia gonna color noce si gonfiava e vorticava ad ogni saltello e giravolta, come i petali di un fiore che sboccia. La presa di Hervé era salda, ma gentile; Maeriyel non si definiva un'amante della danza, eppure insieme a lui - senza la folla attorno a loro, senza rumori a disturbare la melodia della fisarmonica, senza le pressioni di sua madre e gli sguardi dei suoi compaesani - era piacevole.
Sarebbe stata felice se avesse potuto trascorrere in quel modo la Sagra di Haniel. Sarebbe stata soddisfatta se avesse potuto ballare con Monsieur Tronco per tutta la notte, senza interruzioni, senza imprevisti, senza...
Maeriyel si fermò, stringendo le mani al petto. Nei suoi ricordi, Boyaque le teneva strette così forte da impedirle di muoversi; la sua vicinanza la metteva a disagio, ma avrebbe accettato persino quello pur di fermare il tempo ed evitare quanto successo dopo.
Suo padre, i campi, l'orto. Che senso aveva possedere un Naru, se non riusciva a salvare neppure ciò a cui teneva? Che senso aveva essere vivi, se non poteva far altro che guardare mentre tutto il resto moriva?
Era stanca di sopportare e soffrire. Stanca di parlare a persone che si rifiutano di ascoltare. Stanca di essere incompresa, tradita, abbandonata. Stanca di vedere le sue speranze disgregarsi una dopo l'altra.
Stanca. Era così stanca.
Maeriyel si sedette sull'erba, rannicchiandosi con le ginocchia strette al petto. Avvolse le gambe con le braccia e vi affondò il capo mentre un singhiozzo sfuggiva dalle sue labbra.
«Non posso farlo, Hervé» mormorò, stringendosi nelle spalle. Il sole non era più sufficiente a scaldarla e brividi freddi correvano sulla pelle, nei muscoli e fin dentro le ossa, facendola tremare. Persino la musica si era fermata, e tutto permaneva immobile come un albero spezzato da un fulmine e caduto al suolo. «Non è rimasto niente per cui sorridere. È tutto morto, tutto quanto.»
«No, non tutto.» Hervé si sedette al suo fianco, accarezzandole una spalla con cautela. «C'è ancora vita lì fuori: ciò che hai giurato di proteggere ha ancora bisogno di te.»
«Non posso proteggere un bel niente» gemette Maeriyel, tirando su col naso. «È tutto inutile, torneranno a coltivare i campi e i miei sforzi non saranno serviti a niente. Si riempiono la bocca di bei discorsi, ma pensano solo al loro bene e a quello delle cose che interessano a loro, tutto il resto può marcire. Non si preoccupano nemmeno di cercare un'alternativa.»
«Loro non vogliono un'alternativa: così possono continuare a fare ciò che desiderano e sfuggire al senso di colpa, perché "la natura funziona in questo modo".» Hervé gettò fuori l'aria in un respiro pesante, e Maeriyel sentì il tocco della sua mano farsi più rigido. «Gli uomini sono i padroni del mondo: lo hanno plasmato a loro piacimento, hanno aggirato le leggi naturali in ogni modo, hanno dettato loro le regole. Quando però torna utile, quando non vogliono impegnarsi, allora "così stanno le cose" e nessuno può farci niente.»
Maeriyel sollevò lo sguardo, notando che i muscoli del suo collo erano tesi. Hervé teneva gli occhi azzurri rivolti all'orizzonte, ma sembravano andare oltre; in quello sguardo tagliente, Maeriyel rivide la sua stessa frustrazione. La stessa rabbia e il disprezzo che aveva maturato giorno dopo giorno, che bruciavano nel suo petto come una fiamma viva.
«Tu mi capisci, vero?» Maeriyel drizzò il busto e si aggrappò al suo braccio, unico appiglio per sopravvivere alla tempesta. «Riesci a seguire il mio ragionamento? Non pensi che dica assurdità o che sia pazza.»
«Sono loro che dicono assurdità. Non sanno contrastare la tua logica e perciò attaccano te. Non devi ascoltarli, Mae-mae: cercano solo di ferirti, non lasciarglielo fare.» Hervé posò una mano sulla sua, ma quel contatto non la infastidì. Il calore del suo palmo era piacevole sulla sua pelle, e le sue dita la avvolgevano con cura, senza pressione. La faceva sentire protetta, non in trappola. «Persone come tuo padre, col cuore buono, sono rare da trovare. Tutti gli altri sono egoisti e vigliacchi per la maggior parte: vogliono piegare tutto al loro volere, ma al tempo stesso vogliono essere ricordati come brave persone. Nessuno si preoccupa di esserlo davvero...»
«...ma solo di sembrarlo» convenne Maeriyel. «Così funziona a Vou-la-Forêt. Così funziona in ogni luogo.»
Hervé annuì, rivolgendole di nuovo lo sguardo. Quando incrociò gli occhi di Maeriyel, ogni traccia di astio sembrò svanire: per lei aveva solo sorrisi, e il cielo nelle sue iridi era sempre sereno. «Non è colpa tua, Mae-mae. Hai fatto del tuo meglio. Quantomeno tu hai provato a risolvere le cose, hai provato a salvare quante più vite possibile. Loro cos'hanno fatto, invece? Ti hanno guardata come se fossi un mostro quando hai ucciso quelle cornacchie, ma ti hanno offerto un'alternativa? Ti hanno aiutata a cercare un modo per tenere le bestie selvatiche alla larga senza fare loro del male?» Gettò fuori l'aria in uno sbuffo ilare, scuotendo il capo. «No, certo che no. Non hanno una soluzione, sanno solo dire: "anche loro devono mangiare, Mae-mae. Anche loro meritano di vivere".»
Maeriyel serrò le labbra, mordicchiandosi l'interno di una guancia. Soleil era stata l'unica a pronunciare quelle parole, ma quella critica si leggeva tra le righe anche nei discorsi di tutti gli altri, nei loro sguardi perplessi, nelle espressioni disgustate che trattenevano a malapena. Non l'avevano fermata, ma nessuno a parte Boyaque voleva averci a che fare: voltavano lo sguardo, quando Maeriyel ne parlava. Fingevano di non sapere per non dire cosa ne pensavano ad alta voce.
Per tutti era un mostro crudele, come diceva sua madre. Un demone che godeva nel versare sangue e impiccava tra i rovi delle povere bestie.
«Sai cosa mi hanno detto, dopo che ho ucciso quella Chimera?» sibilò Maeriyel, lasciando cadere lo sguardo sull'erba. Vide il sangue gocciolare piano dall'alto, picchiettare nella densa polla rossastra che si allargava lentamente sul terreno; il ringhio del Kimse non c'era più, restava solo quel picchiettio leggero a tenerle compagnia. «Mi hanno fatto i complimenti. Mi hanno detto che ero stata brava, forte e coraggiosa: hanno gioito per la sua morte, hanno detto che ti avevo vendicato e che la Chimera meritava quella fine. Nessuno ha detto "anche lei deve mangiare". Nessuno ha parlato di ciclo della natura. Se uccido una cornacchia sono un mostro, ma se uccido un Kimse sono un'eroina.»
«Non è ciò che uccidi il problema, ma ciò che proteggi.» Hervè le accarezzò il dorso della mano con il pollice, e con la coda dell'occhio Maeriyel lo vide rivolgere a sua volta lo sguardo sul prato. Il sangue, però, non c'era più: l'erba alta ondeggiava lieve smossa dal vento, godendo del sole che disegnava sfumature dorate tra i suoi steli. «Le piante non sono come noi: non hanno cervello, non hanno personalità, per chiunque non hanno valore come individuo. Ciò che conta è come possono esserci utili, perciò sono sostituibili: a nessuno importa se tagli un albero, puoi farne crescere uno identico con un solo seme. A nessuno importa mietere un intero campo, ti basterà seminarlo l'anno successivo.»
«Non come noi, ma sono comunque vive» obiettò lei. Una margherita rubò la sua attenzione e Maeriyel sentì il petto riempirsi di tristezza fino a comprimere il cuore. Allungò un braccio e sfiorò i petali bianchi con le dita, cercando sollievo nella trama leggera che carezzava tra i polpastrelli. «Non avranno un cervello o una personalità, ma hanno delle emozioni. Possono provare dolore e gioia; riescono a percepire il mondo, anche se in modo diverso dal nostro; così come gli animali, persino gli insetti. Sono tutte cose vive, tutte, non solo quelle che ci piacciono o quelle che ci tornano utili.»
«Loro non la pensano allo stesso modo, però.» Hervé sospirò, un soffio pregno dello stesso dolore che soffocava Maeriyel. «Una vita ha valore solo se c'è qualcun altro a darglielo: se a nessuno importa nulla, se nessuno soffrirebbe per la sua morte, allora è sacrificabile. E per chiunque la vita di una bestia vale meno di quella di una persona, ma più di quelle delle piante: nessuno creda valga la pena uccidere per salvarle.»
«Non vorrei doverlo fare neanch'io» disse Maeriyel, scivolando via dalla sua presa per avvolgere le ginocchia al petto. «Io vorrei salvare ogni cosa, sia il granocorallo che le cornacchie, ma non posso farlo. Non posso parlare con gli animali e convincerli a non superare i confini o a mangiare solo ciò che creo. Non posso controllarli, non posso alzare i miei rovi fino al cielo. Lo so, quello che ho fatto a quelle bestie è orribile, ma che altra scelta ho? Farei qualunque cosa per lasciar vivere anche loro, te lo giuro: darei persino la mia vita, se sapessi che basterebbe a sistemare le cose.»
Maeriyel singhiozzò. La voce grattava contro la gola e faticava a venir fuori; ridotta a un refolo sottile. Chiuse gli occhi per un po', lasciando che nuove lacrime attraversassero le sue guance, cercando di sciogliere attraverso lenti respiri il macigno che aveva sostituito il suo stomaco.
«Non sono stupida: so che senza Harvestide persino io sarei costretta a vivere come tutti gli altri o morire, ma io posso scegliere. Posso rompere questo ciclo infinito di morte, violenza e sangue, almeno a Vou-la-Forêt. E anche se non posso salvare tutti, ne morirebbero di più se lasciassi che la natura facesse il suo corso. Perché lo trovano così sbagliato, Hervé?»
«Perché l'equilibrio di cui parlava tuo padre non esiste.» Hervè parlò sottovoce, ma ogni sillaba fendeva come un coltello ben affilato. «La lepre mangia l'erba, noi mangiamo la lepre, e le nostre ceneri fertilizzano la terra: è un bel concetto, ma solo se lo guardi da lontano. Facile parlare quando sei in cima alla catena alimentare e contribuisci al ciclo con la tua morte naturale, quando non sei tu a doverti guardare dai predatori: se fossimo al posto dell'erba o della lepre, chiunque farebbe di tutto pur di cambiare le cose. Quando siamo noi ad essere minacciati, il ciclo della natura non esiste più. Distruggeremmo il mondo pur di sopravvivere, ecco la realtà delle cose.»
Maeriyel tirò su col naso, asciugandosi le lacrime. Cercò lo sguardo dell'amico, ma persino i suoi occhi azzurri non potevano offrirle alcun conforto; il cielo nelle sue iridi era in tempesta, attraversato da lampi di odio e rabbia.
O forse era solo il riflesso dei suoi. Era il fuoco del suo animo che levava fumo scuro nel cielo, bruciando tutto ciò che gli era stato dato in pasto - disprezzo, rifiuto, falsità e bugie.
Maeriyel lo sentiva ardere dentro di sé, là dove pensava non fosse rimasto più nulla. Suo padre aveva seminato qualcosa di buono nel suo cuore, ma Vou-la-Forêt l'aveva fatto avvizzire, aveva incendiato il suo ricordo e adesso quel germoglio era un albero in fiamme.
«Sono degli ipocriti, Hervé. Dei maledetti ipocriti, dal primo all'ultimo» Maeriyel sputò fuori quelle parole a denti stretti, pregne di un tale veleno che poteva sentire i muscoli del suo viso distorcersi in un'espressione di disgusto. «Mio padre credeva davvero in ciò che diceva, ma tutti gli altri? Mescolano ciò che è necessario con ciò che non lo è, si comportano come se non avessero scelta anche quando ce l'hanno. Distruggono le piante come se fossero oggetti, come se non fossero vive affatto: mio padre le aveva davvero a cuore, cercava di rispettarle nel miglior modo in cui poteva, ma era il solo. È necessario sradicare foreste per far spazio a tutte quelle costruzioni che ci sono in città? È necessario strappare fiori da regalare e mettere in un vaso? È necessario spezzare rami per arrampicarsi e vincere uno stupido gioco? Tutte scuse!»
Maeriyel si alzò, sentendo i muscoli tremare dalla necessità di muoversi. Camminava avanti e indietro, lungo le strade grigie di Vourôme e i freddi corridoi del Centro di Ricerca, e il Sihir le impregnava le braccia tanto da renderle pesanti ai suoi fianchi. Se lo scrollò di dosso con rabbia, agitando le mani mentre rami e foglie crescevano ovunque, spaccando pietra e vetro, rivestendo pareti, insinuandosi tra i suppellettili. Scricchiolavano e frusciavano, accompagnando il crepitio del fuoco, fino a ridurre ogni cosa in cenere.
«E non lo fanno solo con le piante, no: che dire degli animali? Proteggiamoli, ma solo se sono carini o se ci tornano utili. Prego, ammazzate pure tutto il resto: un cinghiale? Sarà un'ottima cena. Una volpe? Avevo proprio bisogno di una nuova pelliccia. E un serpente? Sia mai che decidesse di mordermi, stacca la testa a tutti quelli che vedi. Ma giù le mani dal mio cane: oh, allora sì che diventi una persona orribile» ringhiò quelle parole con tale disgusto che le sentì vibrare fin dentro il petto, alzando la voce. Era stanca anche di trattenersi, e lasciò che le frasi dapprima sussurrate mutassero in grida rabbiose. «E le persone? I sekken sono cattivi, Mae-mae, vogliono farci del male. No, è l'imperatore a essere folle; forse entrambe le cose, forse nessuna. Nel dubbio, uccidiamoli; uccidiamoli tutti. Questo va bene, vero? Questo è buono e giusto, questo è quello che fanno gli angeli e gli eroi!»
Maeriyel pestò il suolo, prendendo fiato. Aveva urlato così forte che la gola le faceva male e respirava come se avesse corso per chilometri interi. Il sudore le appiccicava i capelli sulla fronte e sul collo, mischiandosi al Sihir che aveva creato attorno a lei un'intera foresta - no, non una foresta qualunque; Maeriyel conosceva gli alberi del bosco sulle colline di Vou-la-Forêt così bene da poterli chiamare per nome. Ricordava ogni arbusto, ogni fiore, ogni cespuglio d'erba.
«Nulla di tutto questo ha senso, Hervé» Maeriyel si voltò, ma non dovette cercare la sua maglia rossa nella vegetazione: lui era lì, camminava al suo fianco anche quando non poteva vederlo. Ascoltava le sue parole, l'aveva sempre fatto sin da quando erano bambini. «È tutta questione di prospettiva, capisci? E loro continuano a cambiarla. Continuano a cambiare logica, motivazioni e ragionamenti in base alla situazione. A nessuno importa del ciclo della natura, a nessuno importa dell'equilibrio. C'è sempre qualche giustificazione, qualche eccezione. Questo sì, questo no, questo va bene, questo è terribile. Loro decidono chi vive e chi muore ogni giorno, ma quando lo faccio io sono un mostro. Necessario, necessario... È solo una scusa. Abbiamo bisogno di mangiare, di proteggerci dal freddo, di costruire ciò che ci serve per vivere... ma tutto il resto? Fa parte del ciclo anche uccidere un topo perché è entrato in casa? Condannare a morte una persona perché ha rubato qualcosa? Devastare un intero orto per una stupida vendetta?»
La voce si incrinò, sciogliendosi tra le labbra tremanti. Maeriyel sbattè le palpebre e la foresta non c'era più: di fronte ai suoi occhi si ergeva dal terreno solo un sottile fusto morto, una piccola pianta di basilico che non era sopravvissuta all'estate.
Le sfuggì un singhiozzo mentre si avvicinava a quei resti, inginocchiandosi sul terriccio umido. Era stato il vento a spezzare quella vita, come l'aneurisma aveva spezzato suo padre.
A volte succede, Mae-mae.
Una disgrazia. La morte faceva parte della vita, per quanto dolorosa fosse: quello poteva accettarlo.
Ma quando alzò lo sguardo non restava più nulla. Non c'era più vita, solo piante strappate e ammassate come cadaveri, e tra le foglie secche e i rami spezzati giacevano i corpi di suo padre, di Hervé e persino il suo, con la pelle pallida e gli occhi vacui rivolti al cielo. Gettati al suolo per concimare la terra, ma a cosa sarebbe servito se avevano ucciso anche tutto il resto?
«Non avrei dovuto attaccare Eliette. Non volevo farle del male, io... L'ho pensato, ma non volevo farlo davvero; doveva restare nella mia testa, solo nella mia testa.» Maeriyel si strinse nelle spalle, stropicciando le labbra in una smorfia. Il petto faceva male, ma non smetteva di bruciare anche se persino il senso di colpa si era estinto; restavano solo i postumi, la puzza di bruciato e di fumo. Cenere, nient'altro che cenere, in grado di concimare solo il suo dolore. «Loro lo hanno fatto apposta. Era l'orto di mio padre e loro lo sapevano. Lo sapevano, Hervé! Hanno strappato via ogni cosa solo per ferirmi, per farmi soffrire, e mia madre dice che me lo merito. Dice che sono un demone: non sono più neanche sua figlia, sono un demone.»
«Oh, Mae-mae...» Hervè le fu subito accanto. La avvolse tra le braccia e la strinse al petto, accarezzandole le spalle e i capelli. «Non meriti niente di tutto questo. Sei quanto di più lontano da un demone che possa esistere.»
«Io sto solo cercando un modo per far vivere tutti in pace» singhiozzò Maeriyel, aggrappandosi di nuovo a lui. Non sentiva lo stomaco contorcersi, come quando era Boyaque a toccarla: non c'era nessuna fastidiosa scarica a scuotere le membra, nessuna sensazione di disagio a bloccarle il respiro. L'abbraccio di Hervé era pregno di affetto, così piacevole da farla sospirare. «Se ho ucciso l'ho fatto per una ragione, l'ho fatto solo per proteggere. Loro avrebbero fatto lo stesso se quelle cornacchie avessero minacciato i loro parenti, i loro animali, persino i loro oggetti. Sterminerebbero uno stormo intero solo perché i loro versi li infastidiscono, perché sono io quella pazza, crudele e pericolosa?»
«È questo mondo ad essere sbagliato, non tu.» Hervé si allontanò un poco, inchiodando lo sguardo al suo. «Se la natura così com'è fosse giusta e buona, perché il Signore della Luce ci avrebbe chiesto di vivere in contrasto con essa? Perché ci avrebbe dato la ragione, se non per controllare l'istinto e trovare una soluzione a ciò che non funziona? Abbiamo il potere per rendere Halka il nostro paradiso. Abbiamo la capacità di pensare e immaginare, abbiamo la scienza, abbiamo i Naru. Il Signore della Luce ci ha fornito ogni mezzo per farlo, ci ha chiesto di farlo, ma l'influenza della Dama della Notte è troppo forte. Per questo il Lucente è dovuto scendere a patti con loro: ha dovuto promettere una ricompensa e minacciarli con una punizione, per farsi ascoltare. Sapeva di non poter fare altrimenti, che non c'è soluzione se non improgionare e costringere anche loro.»
«Se gli animali sono una causa persa perché non possono capire, gli uomini sono persino peggio: loro non vogliono capire» disse Maeriyel, liberando un sospiro stanco. «Ho già offerto Harvestide e non ha funzionato. Mi temono, ma non come temono il Signore della Luce: io non sono una dea, e loro lo sanno. Non servirà a nulla. Non riuscirò mai a convincerli, vero?»
«Mi dispiace, Mae-mae.» Hervé le rivolse un sorriso amaro, asciugando le lacrime che le rendevano le guance ancora umide. «Hai fatto del tuo meglio, ma una persona sola - persino un Dotai - non può cambiare il mondo. Se anche fossi riuscita nel tuo intento, sarebbe stato solo per qualche anno: senza Harvestide, gli esseri umani non hanno altra scelta. Dopo la tua morte sarebbero comunque tornati a coltivare i campi, e il paradiso per cui hai lavorato tanto sarebbe andato distrutto.»
«Perciò siamo condannati» sussurrò, e il sole si incupì coperto da nuvole che gettavano un'ombra lugubre su di loro. «La lepre mangia l'erba, noi mangiamo la lepre, e le nostre ceneri fertilizzano la terra... Questo ciclo è la nostra gabbia, e noi siamo tutti in catene.»
«No, non tutti: tu puoi dominare il Sihir, puoi affidarti ad Harvestide. Non hai bisogno di seguire alcun ciclo, puoi vivere come preferisci. Sei libera, Maeriyel.» Il sorriso tornò a illuminare il viso di Hervé, piegando le sue labbra con una tale gioia che sembrava sul punto di scoppiare a ridere. «Non curarti degli altri. Hai dato loro la possibilità di scegliere e l'hanno sprecata, ma tu puoi ancora mantenere quella promessa. Puoi ancora proteggere questo luogo: hai questo potere per una ragione, Mae-mae; le piante parlano a te perché sei l'unica che può far sentire la loro voce, e so che non le deluderai.»
Le mani di Hervè scivolarono lungo le sue spalle, accarezzandole le braccia fino ai polsi. Maeriyel trasalì quando la prese per mano: poteva sentire il tepore del suo corpo, il suo fiato sul collo, ma si accorse che gli occhi neri della Chimera non riuscivano a raggiungerla. L'orociondolo non era la loro prigione, ma la loro tana; le fronde oscillavano sulle loro teste facendo dondolare i fiori gialli, eppure Maeriyel non aveva paura. Sarebbero stati al sicuro, nascosti da quei tronchi e protetti dai rovi di more che li avvolgevano docili. Sarebbero stati al sicuro finché fossero rimasti insieme.
«Hervé» lo chiamò, sentendo la voce cedere. Le ci volle qualche istante per trovare le parole, inspirando ed espirando con attenzione. «L'orociondolo non era abbastanza grande per coprirti. Sei abbastanza magro per entrarci, ma troppo alto: senza i miei rovi, Eliette ti avrebbe trovato subito.»
Lui sollevò le spalle. «Può darsi.»
«Non ti eri mai nascosto lì, prima di quel giorno» comprese Maeriyel, assottigliando lo sguardo. «Hai mentito, vero? Quello non era il "tuo posto".»
Il sorriso di Hervè si allungò, tingendosi di una nota più dolce, divertita. «No, non lo era.»
«Perché sei venuto, allora?»
«Perché c'eri tu.» Hervé si chinò su di lei, accarezzandole una guancia. Era così vicino che i contorni del suo viso si mescolavano assieme, così come i loro respiri. «Il gioco era solo una scusa: non mi interessava vincere, volevo solo starti accanto. Non ho mai avuto il coraggio di dirtelo, ma per me sei sempre stata speciale.»
Maeriyel deglutì. Il suo cuore batteva rapido, in modo diverso dal solito; sembrava rimbalzarle nel petto, ma era piacevole. La scaldava come il sole d'estate e la faceva sentire leggera come una foglia trasportata dal vento.
«E tu sei sempre stato il mio preferito» sussurrò.
Lui sorrise. «Speravo di sentirtelo dire.»
Maeriyel chiuse gli occhi quando Hervé le sfiorò le labbra in un bacio leggero, stringendo le dita che teneva intrecciate alle sue. Si avvinghiò alla sua blusa, mentre lui le affondava una mano tra i capelli e le cingeva il busto. Maeriyel non sapeva descrivere il sapore delle sue labbra, ma le piaceva; era qualcosa di sconosciuto e familiare al tempo stesso, e schiuse le sue per assecondare quei movimenti morbidi e lenti, assaporandone ogni istante.
Non sentiva il desiderio di spingerlo via, come accadeva con Boyaque; quel contatto non le toglieva il fiato. Invece, sembrava che soltanto adesso fosse in grado di respirare.
«Maeriyel» sussurrò Hervé, a un passo dalle sue labbra. Il suono del suo nome era così dolce, pronunciato da lui, che Maeriyel avrebbe voluto ascoltarlo all'infinito. «So che è difficile, ma devi andare avanti. Dipende tutto da te, mon coeur: sei l'unica che può risolvere le cose. Lo farai?»
Maeriyel riaprì gli occhi e sospirò di sollievo nell'incrociare quelli azzurri di lui. In qualche modo, sapeva di cosa stava parlando. Nel suo sguardo riusciva a leggere tutto ciò che la sua bocca non aveva pronunciato, vide il vero quesito che si celava dietro quelle parole e vide anche la soluzione.
Che farai quando qualcuno deciderà che le tue regole non gli piacciono più, Mae-mae?
Maeriyel annuì e sorrise, stringendosi al petto di Hervé. Non aveva più timore di quella domanda.
Presto tutti avrebbero conosciuto la sua risposta.
CENERE AL DIO DELLA CENERE ah no, ho sbagliato.
FINALMENTE UNA GIOIA! ...Ed è falsa :') Sogno? Allucinazione? Trip di acidi?
Almeno nella sua immaginazione Maeriyel trova un po' di pace tra le braccia di Hervé, tirando fuori il suo lato romantico. Lato che non era mai venuto fuori prima dell'episodio con Boyaque, ma siamo assolutamente certi che sia solo un caso e non stia affatto cercando di sovrascrivere quanto successo, sicurissimi, è tutto perfettamente sano e naturale 👀
Come "proiezione" della mente di Maeriyel, le offre appoggio e conforto: chissà se il vero Hervé avrebbe reagito allo stesso modo, se fosse cresciuto... Non è stato facile far filare tutto senza un vero contraltare per le idee di Maeriyel, dato che Hervé è d'accordo con lei, ma sono soddisfatta del risultato e spero anche voi +_+
Come già detto in passato, non puoi convincere Maeriyel a livello morale, perché ribaltare la situazione è facile: lei ha torto, ma ha anche ragione. A fare bei discorsi siamo bravi tutti, dall'esterno, dall'alto è tutto facile; giudichiamo lei per portare all'estremo la sua ideologia, ma noi facciamo di meglio? Forse come persone, nel nostro piccolo, ma guardando le cose in grande?
No. Facciamo schifo (:
E Maeriyel (oltre che essere ancora una ragazzina) non è Brycen: non riesce a vedere gli errori nella sua logica perché le contro-argomentazioni vengono portate avanti da persone che non sono migliori di lei, e questo la spinge solo verso un estremo ancora più estremo, tanto da rifiutare l'essenza stessa del mondo. Una chiacchierata con Brycen le servirebbe proprio...
Intanto vi lascio con l'altra parte del disegno del ballo, in cui Monsieur Tronco è sostituito da Hervé :3
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