Capitolo 4
Parma, 26 maggio 1731
La duchessa Enrichetta D'Este era adagiata sulla morbida poltrona di fronte al camino acceso. Nell'aria aleggiava un gelo che pareva essere un monito di sventura. Era pensierosa anche quella mattina, le mani accarezzavano distrattamente il ventre gonfio mentre gli occhi erano fissi sulla fiamma, ma non la stavano realmente guardando, perché erano distanti proprio come la sua mente. Da quando suo marito era morto non aveva fatto altro che pregare di avere un maschio in quel ventre gonfio. Lo sperava con tutta se stessa e sembrava che non potesse pensare ad altro.
Un lieve bussare alla porta l'allontanò da quell'estenuante tortura.
"Chi è?"
"Sono Giada, Duchessa."
"Entra pure."
Non appena vide apparire l'esile figura della sua dama, notò la strana espressione degli occhi e se ne allarmò.
"Cosa succede?" domandò assumendo una posizione vigile.
"Una lettera di vostra nipote" rispose la dama porgendole l'incarto.
La duchessa afferrò la lettera con una certa ansia e si avvicinò alla candela.
Cosa vuole ancora? Pensò rompendo il sigillo con violenza, come se quella forza potesse scalfire tramite una magia anche la regina di Spagna.
Fece scorrere incredula gli occhi su quelle lettere vergate da una mano ferma, riusciva ad immaginare il suo sorriso di scherno mentre scriveva quelle poche righe di suo pugno, tanto per mandarle un chiaro messaggio: non si sarebbe mai fermata.
La duchessa si portò una mano a coprire le labbra tremanti, mentre l'altra lasciava scivolare incredula quella minaccia.
La dama la raccolse.
"Cosa vi ha scritto per turbarvi tanto?" Domandò la dama affiancandola.
La duchessa scuoteva il capo senza riuscire a trattenere le lacrime.
"Posso, mia signora?" chiese ancora la donna, indicando la missiva.
La duchessa annuì un breve istante prima di perdere nuovamente il controllo.
La dama spostò lo sguardo e lesse con calma:
Cara duchessa,
questa mia, vuole essere un consiglio in virtù del legame di parentela che un tempo ci univa, voglio mettervi in guardia su quello che andrà ad accadere se continuerete ad avanzare sul sentiero in cui vi trovate ora. A breve verrete sottoposta, su mia insistenza, ad una 'ispezione corporale'.
Cara zia, vi duole se vi chiamò così? Il mio consiglio è di evitarvi un tale disonore e di lasciare a mio figlio il posto che gli spetta su quel trono.
EFM
Anche la dama pareva sconvolta, "Mia signora, cosa avete intenzione di fare?"
La nobildonna espirò più volte l'aria dai polmoni per calmare il tremito e riprendere il controllo. Era una duchessa, prima di tutto.
"Mi sottoporrò all'ispezione" rispose sicura, anche se la voce era un po' spezzata dal recente pianto.
"Ma Duchessa" la dama cantilenò la sua protesta "sarà una tale vergogna per la vostra persona."
La donna si volse a guardarla, gli occhi lucidi e brillanti di determinazione, "Non mi piegherò alle sue minacce."
"Ma verrete messa a nudo davanti..."
"Taci" l'ammonì spostandosi alla finestra.
La pioggia picchiava implacabile contro la finestra, sembrava schiaffeggiarla, e si sentiva stanca, percossa da quella furia come se non ci fosse il vetro a proteggerla.
Posò le mani sul ventre e disse, ora con voce chiara, priva di pianto "Questo bambino esiste e merita il suo trono."
"E se fosse una femmina vi sarete sottoposta ad una tale umiliazione per nulla?"
Enrichetta D'Este sapeva bene cosa avrebbe perso se il nascituro fosse stato femmina. Era consapevole che se fosse stata una bambina, il trono sarebbe passato al primogenito di Elisabetta come sanciva il trattato di Londra e lei, in quanto vedova, avrebbe perso il potere ottenuto con quella gravidanza e sarebbe stata cacciata da Parma.
Continuò ad accarezzare il ventre continuando a ripetere quella preghiera che ormai era diventato un mantra: Ti prego, sii maschio! Ti prego, sii maschio.
"Mia signora?" la chiamò la dama dopo un tempo indefinito.
La duchessa si volse a guardarla e, dopo una breve pausa, ordinò
"Fai convocare il Consiglio di Reggenza, devo dire loro quello che accadrà."
... 31 maggio ...
Stava seduta accanto alla finestra, lo sguardo puntato all'orizzonte e la mente imbrigliata tra logica e dovere.
"Duchessa, siete pronta?"
Enrichetta mandò giù un boccone amaro di saliva quando sentì quelle parole.
Aveva accettato l'ispezione con coraggio, almeno così le avevano detto, ma ora che era arrivato il momento si sentiva tremendamente amareggiata.
"Duchessa, stanno aspettando."
Espirò nel tentativo di dominare il tremore, come aveva sempre fatto, ma quella volta l'angoscia era talmente grande da toglierle il respiro.
"Duchessa?"
"Maledizione, non datele il tormento" si intromise Giada, facendo da scudo alla sua padrona con il corpo "non avete un po' di cuore?"
"Eseguo gli ordini" borbottò il giovane con evidente imbarazzo.
Giada si girò verso la donna, "Mia signora?"
La Duchessa sollevò gli occhi e guardò la dama con un'espressione nuova, un misto di rabbia e sconforto che non aveva bisogno di essere spiegata.
"Va tutto bene, Giada, sono pronta."
Accettò il sostegno per alzarsi e percepì il calore di quella presa che voleva solo darle conforto.
Si incamminò verso la stanza della vergogna stringendosi nella vestaglia come se quel gesto potesse renderla invisibile e quando fu dentro, non poté fare a meno di notare il pubblico numeroso. Di nuovo l'angoscia l'avviluppò come un corsetto stretto.
Una donna dai capelli scuri avanzò in quel silenzio imbarazzante " Venite, Duchessa" l'accompagnò al lettino mostrando un sorriso buono.
La nobildonna ringraziò che ci fosse quella donnina ad aiutarla.
Mentre si preparava a quell'invasione, cercò di focalizzarsi sui presenti per capire chi fosse dalla sua parte.
Osservò:
Don Bernardo Espellente: indifferente. Il marchese di Monteleone: indifferente.
Neri Ligoi per la Spagna: interessato.
Il consiglio di reggenza, tutto: imbarazzato.
Dorotea Sofia di Neuburh: soddisfatta, quasi giuliva.
Ditemi qual è il frutto e vi dirò qual è la pianta! pensò fremendo dalla rabbia.
"Vi ho fatto male?" domandò uno dei tre medici incaricati per l'ispezione, che in quel momento stava trafficando tra le sue gambe.
La Duchessa scosse la testa, ma non osò parlare per paura che l'arpia e il pubblico capisse il suo cedimento. Sentiva il volto in fiamme e il cuore sfuggirle nel petto dalla furia per quel sopruso, ma rimase ugualmente in silenzio con gli occhi puntati al soffitto cercando di scacciare il senso di afflizione.
Seguì le immagini degli affreschi studiandoli nei minimi dettagli nella speranza che quello che dovevano fare fosse fatto in fretta e quando sentì finalmente il loro verdetto unanime, volse la testa all'angolo della camera che sapeva vuoto, non voleva che le osservassero in viso. Era assurdo forse pensarlo in quel momento, ma si sarebbe sentita molto più esposta se fosse successo.
La donnina che aveva mostrato un po' di cuore le apparve dinanzi con un espressione benevola, "Abbiamo finito, Duchessa, ora lasceremo la stanza e informeremo chi di dovere del vostro stato interessante."
Enrichetta non riusciva a rispondere, sapeva che voleva essere un modo per consolarla, ma quelle parole non fecero altro che aumentare il proprio disagio. Strinse i denti smettendo anche di respirare, in quel momento voleva solo essere lasciata in pace.
Quando comprese di essere finalmente sola chiuse piano gli occhi aprendo lievemente le labbra per lasciare all'aria l'agio di riempirle i polmoni. Non si disperò come aveva immaginato, no, anche nella disperazione in cui versava riusciva a mantenere un irreale contegno. Le lacrime le scivolavano dagli occhi in un pianto silenzioso, ma in qualche modo dirompente.
Giada entrò nella stanza appena le fu possibile. Non chiese neanche il permesso, era la prima volta che lo faceva, nonostante i dieci anni passati al servizio della nobildonna tra Modena e Parma.
La trovò distesa sul letto, supina, immobile, con il volto rivolto all'angolo buio. Se non fosse stato per il respiro corto, avrebbe pensato che fosse morta per la vergogna.
Si avvicinò piano, notando il volto paonazzo e deformato da quel pianto carico di mortificazione.
Giada non disse niente, cosa poteva mai dire alla sua signora? Presa da tale tristezza cadde sulle ginocchia, il tappeto morbido ne attutì la violenza, ma anche volendo non avrebbe sentito che un lieve fastidio, perché la sua mente era rivolta a lei. Le strinse la mano con affetto e si unì al pianto silenzioso della sua padrona. Giada non era una duchessa e non comprendeva il significato di quelle scelte, ma era una donna e la vergogna per quell'accaduto invece la capiva bene.
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