If I could fly

  "Pay attention, I hope that you listen 'cause I let my guard down.
Right now I'm completely defenceless"

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"If I could fly, I'd be coming right back home to you. I think I might give up everything just ask me to..."

Lawrence spalancò gli occhi mentre le dolci note di quella canzone senza titolo si allontanavano sfumando nell'aria fino a scomparire. L'aveva sognato di nuovo.

Lawrence, per gli amici "Larry", non conosceva i suoi genitori.
Erano morti, gli avevano detto, e non aveva parenti in vita, per quello era finito in un orfanotrofio.

Aveva provato e riprovato a ricordarseli, ma non ce l'aveva fatta.

C'era però quella canzone che sognava ogni notte, cantata da una voce maschile calda e bellissima, che gli piaceva associare alla figura senza volto di suo padre.

Spesso sognava anche due occhi verdi come smeraldi, che lo guardavano con una dolcezza che non aveva mai visto negli occhi di nessuno, quasi ultraterrena. Lo stesso facevano due occhi azzurri.

Nei suoi incubi, invece, quegli occhi assumevano sguardi ansiosi, preoccupati, disperati. Si inumidivano e lacrimavano. Larry si sentiva male e si svegliava ansante, sudato, un peso gli opprimeva il petto, un nodo alla gola lo soffocava.

Si sentiva perso, spaventato, provava un logorante senso di disperazione ma, allo stesso tempo rassegnazione. Come precipitare da un grattacielo; si ha paura, non si vuol morire, ma mentre il proprio corpo fende l'aria e le proprie grida terrorizzate ci fracassano i timpani, siamo consapevoli che non sopravvivremo.

Negli ultimi tempi stava succedendo fin troppo spesso, come ogni anno quando si avvicinava il suo compleanno. Anche per questo si era deciso a frequentare lo studio della psicologa della scuola, voleva capire, liberarsi di quel peso.

Quella mattina, Lawrence fu felice di aver sognato la canzone, quando accadeva stava bene e si rilassava.

Le lenzuola scivolarono lungo il suo addome e gli ricaddero in grembo mentre si metteva a sedere, grattandosi un occhio e cercando a tastoni l'interruttore.

Quando lo trovò accese la luce e lanciò uno sguardo all'orologio. Erano le nove del mattino, non si fece prendere dal panico perché era Domenica, e poteva alzarsi quando voleva, bastava che fosse entro le dieci, perché oltre le dieci e mezza non sarebbe più stata servita la colazione.

Lawrence si alzò dal letto scostando le coperte e si diresse verso l'armadio.
La sua stanza non era enorme, ma era piuttosto spaziosa per essere singola; le pareti erano bianche candide, c'era solo una finestra che dava sul giardino della struttura, ma illuminava bene; addossato ad una parete c'era il suo letto da una piazza e mezzo, lungo l'altra l'armadio di legno chiaro; sotto la finestra una piccola scrivania, cosparsa di libri e fogli accartocciati, ai cui piedi giaceva abbandonato uno zaino nero.

Larry prese l'accappatoio e i vestiti che aveva intenzione di indossare quel giorno, infilò i piedi nelle scarpe poi uscì dirigendosi verso i bagni.

Quell'istituto era enorme, un labirinto di corridoi dalle pareti bianche decorate da qualche quadro ogni tanto, il pavimento in parquet coperto da un tappeto rosso dai bordi d'oro, che gli davano un aspetto quasi regale.

I bagni si trovavano al terzo piano, doveva scendere poco. Anche questi erano enormi e tenuti bene. Un muro separava i gabinetti dalle docce, e dalla parte di queste ultime il bianco monotoni di tutte le pareti veniva sostituito da piastrelle color crema, e questo a Lawrence piaceva, perché rompeva l'ordinario, la monotonia di quel posto.

Velocemente si spogliò, appese i vestiti e l'accappatoio fuori dalla porta della cabina e si buttò sotto al getto d'acqua tiepida, chiudendo gli occhi e distendendo i muscoli, mentre gli ritornava alla mente quella canzone.

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