Liberazione

Sarà stata forse una mia distrazione o forse, nel tempo che passavo con lei, qualcosa era cambiato, fatto sta che alla fine lasciai stare.

Passò qualche settimana prima che mi decidessi a tornare a trovarla regolarmente. L'averla affamata non mi diede ciò che mi aspettavo di provare. Vederla magra, con gli occhi scavati, labbra screpolate, capelli sfatti e altro ancora, mi diede una fastidiosa morsa allo stomaco.
Fra l'altro non sembrava per nulla arresa. Gli dovevo dar conto della sua forza d'animo che brillava nei suoi occhi anche in quelle condizioni pietose.
Tornai così a occuparmi di lei giornaliermente, però mi fu subito chiaro che qualcosa in lei era cambiato. Era guardinga e non si lasciava avvicinare. Sembrava una gatta a cui avevano dato un calcio Non si fidava.
Ciò nonostante continuai a comportarmi bene con lei.
Non avevo intenzione di liberarla, pur volendo non potevo per ovvie ragioni.
Eravamo entrambi condannati, lei mia prigioniera e io a occuparmene. Era meglio rendere quella convivenza quantomeno sopportabile.
« Voglio vivere tranquillo. » Dissi un giorno mentre aspettava che andassi via per mangiare. Almeno ora sembrava non sospettare più che la potessi avvelenare.
« Non posso e non voglio liberarti. Mi occuperò io di te e se vorrai qualcosa ed è nelle mie possibilità te la farò avere. » Ciò implicava quindi anche regali e cose che migliorassero la sua condizione, come libri, film, giochi. Non so il perché ma ora volevo soddisfarla per avere il suo benestare.
Lei resto lì a osservarmi senza proferire parola. Inutile dire che non arrivò mai una richiesta da parte sua. In realtà sembrò aver perso completamente la voce.
Capii che quel Mosto che avevo dentro era soddisfatto così. Capendo che non l'avrebbe né spezzata né piegata si era accontentato di averla in gabbia, al buio della cantina, lontana dal Mondo a cui apparteneva.

Occuparmi di lei era una buon passatempo, la vedevo come un animale selvatico. Iniziai a passare molto tempo con lei e, visto che non parlava, mi dedicai all'Arte oratoria.
A volte avevo anche un po' di appetito nei suoi confronti, del resto era davvero bella, aveva anche ripreso colore, lucentezza e tono fisico, ma non la sfiorai mai neppure con un dito. Era strano, ma non ho mai pensato di abusare di lei, neppure quando ero preda del mio stesso Mostro. Non la picchiai neppure a essere onesto.
Lessi di tanti come me, mi documentai a dovere sull'argomento e scoprii tante torture, ma nessuna fu applicata. Nessuna mi sembrava all'altezza di Bambi.
Pensai anche di inventarne qualcuna, ma desistevo sempre. Col minimo sforzo avevo già attenuto il giusto appagamento. Tenerla lì, dipendente da me, era la tortura più infida che potessi realizzare. Letteralmente, se mi capitava qualcosa lei era spacciata. A quanto pare, il Mostro dentro di me era anche pigro e non amava essere plateale. Se si appagava con così poco perché sforzarsi più del dovuto?
Tutto quel tempo con me non le sarebbe tornato indietro. Avrebbe perso tappe della sua vita inerme, impotente.
I giorni divennero settimane, poi mesi e infine anni. Non le facevo mancare nulla tranne la cosa più importante: la Libertà.

Iniziò a nascere un certo affetto nei confronti di quella che era ormai una donna muta e ciò aumentò il mio volerla tenere rinchiusa, così che fosse tutta per me. Divenni abitudinario, ormai era una routine averla sempre con me. Era il mio animaletto da compagnia. Pensavo che la mia vita fosse del tutto completa. Potevo dire di avere una vita degna di questo nome.
Poi quel giorno aprii la porta dello scantinato e lei non c'era più.
In un attimo mi sentii venir meno le forze, il respiro si bloccò e ogni parte del mio corpo fu come pietrificato dall'incanto di Medusa.
Lei non c'era.
Scappata senza lasciare traccia, come se non ci fosse mai stata.
Il primo pensiero non fu che lei potesse denunciarmi, fu che lei non era più il mio animaletto. Era libera e poteva tornare a sbeffeggiarmi.
La rabbia montò in me, il Mostro si destò come assopito da un profondo sonno. Tutto andò a brandelli, il silenzio era rotto dal continuo frantumarsi di oggetti. Ero livido. Lei non poteva essere davvero scappata. Neppure il suo odore c'era più.
Ma come avesse fatto e quando mi è ancora oggi un Mistero.
Che mi fossi rammollito e distratto abbastanza da lasciarle una via di fuga?
Controllai ogni millimetri di quel posto. Non c'erano tracce della sua fuga e di certo non mi ero immaginato la sua permanenza lì.
Tuttavia, la denuncia ancora non mi preoccupava. Se non aveva lasciato traccia della sua fuga, non c'era modo di condurla lì e poi ero, non so il perché, convinto che la sua parola contro la mia non sarebbe valsa a nulla. Io ero un povero malato terminale senza forza, come avrei potuto fare tutto quello di cui lei mi avrebbe accusato?
No, a me importava di altro. Dovevo sapere com'era fuggita e dove fosse andata a nascondersi.
Mi sembrava di impazzire e sentivo le membra dolermi, il petto pesante, ogni respiro una lancia al cuore.
La mia Bambi non c'era. Svanita nel nulla.
Distrutto mi lasciai scivolare con la schiena contro un muro madido di subire. Scivolai a terra, un ginocchio piegato e l'altro steso, le mani al volto.
Gridai in silenzio finché la gola bruciante non mi impedì di continuare.
Quando ormai decisi di ricompormi portai la testa e schiena al muro, lo sguardo amareggiato e un lieve ghigno. In fondo non valeva la pena prendersela così tanto, era dopotutto solo un capriccio.

Gli occhi erano fissi sullo schermo, ancora non ci credevo. Lei era lì, ma non sembrava la stessa persona che avevo rinchiuso nello scantinato, di cui mi ero calorosamente occupato per anni.
Stavo ascoltando quell'intervista in loop da un'oretta ormai. Più la sentivo e più mi sembrava così assurda, così irreale da mettere in dubbio persino il fatto che io l'avessi davvero tenuta prigioniera nel mio seminterrato.
Mi sentivo preso in giro. Non solo non mi aveva denunciato ma raccontava una storia per nulla veritiera. Mi stava trattando come un inutile parentesi della sua vita.
Che fosse quella la sua vendetta? Non poteva del resto essere altrimenti. Era tornata fiera e spavalda, padrona della sua vita e tutti le scodinzolavano intorno. In più, dopo tutto quel tempo sembrava che ancora di più gli altri la volessero. Quello che le avevo fatto sembrava averle dato più forza, l'aveva resa più attraente, desiderabile.
Come uno stupido, ammutolito dall'orgoglio che ringhiava forte attraverso le fauci di quel mostro che avevo dentro, andai successivamente a presenziare a una sua intervista pubblica.
Quando i nostri occhi si incrociarono ebbi la sensazione che lei mi stesse aspettando. Per quei brevi attimi tutto fu inghiottito da buio, i rumori risucchiati dal silenzio, le persone svanite in una coltre nuvolosa, solo due luci bianche illuminavano le nostre figure dall'alto, poi lei mi sorrise prima di darmi le spalle e spegnere quell'incanto.
La rabbia montò dentro di me a tal punto che strinsi i pugni fino a far penetrare le unghie nella carne delle mani e farle sanguinare mentre la mascella era serrata e un lembo del labbro inferiore imprigionato fra i denti a sangue.
Ero inerme, impotente, incapace di poter fare qualsiasi cosa. Ora era totalmente in simbiosi con le luci riflettenti. Era impossibile trovarla da sola, riuscire di nuovo a catturarla. Stavolta mi avrebbero scoperto.
Ma perché non denunciarmi? Voleva dimostrare che ciò che le avevo fatto non era valso a nulla? Se così era, ci stava riuscendo.
Più appariva ora in una intervista ora in uno spot pubblicitario e più mi buttava in faccia il suo essere sempre stata splendente, ora più che mai.
Passarono mesi in cui restai chiuso nella mia casa, a volte giorni interi nel mio stesso scantinato, a cercare una prova del fatto che lei fosse stata davvero in quel posto, che io davvero l'avessi tormentata, tenuta prigioniera, ma non trovai mai nulla.

Quando la incontrai ebbi come un tuffo al cuore. Erano passati davvero tanti anni, troppi, così tanti che io ormai ero irriconoscibile, quasi lo spettro di me stesso. Del resto, per quelli come me non vi è mai miglioramento, solo un lento peggiorare perpetuo fino alla fine che sembra giungere sempre troppo tardi.
Era da molto che ormai non pensavo a lei. Non aveva senso e col tempo ebbi altro a cui pensare.
« Scusi signore, può ridarmi la palla? »
Quella voce così delicata eppure così frizzante, quegli occhi così decisi e profondi, quella fierezza nel suo portamento.
Non ebbi alcun dubbio, somigliava troppo alla madre, perché lei non poteva essere di certo. Sembrava una Bambi in miniatura, una bimbetta non più di undici/dodici anni, ormai quasi un'adolescente.
« Certo, ora te la prendo. » Risposi abbozzando un sorriso gentile dirigendomi verso la palla che era finita in un angolo del giardinetto. Forse avrei dovuto davvero far alzare una recinsione, ma non mi sono mai piaciute. Già mi sentivo in gabbia di mio.
Negli anni persino la bestia che avevo dentro di me si era ormai affaticata a tal punto da aver tramutato il suo ruggito di rabbia in un angosciante rantolo di dolore.
Presi quella palla che si usa generalmente per la pallavolo e la accostai alla piccola che sprizzava innocenza e forza a ogni respiro.
« Marshall cosa fai? Non disturbare il signore. »
Quella voce... Alzai lo sguardo di scatto e la palla rotolò via dalle mie mani. Lei era lì.
« Non devi infastidire gli estranei. Mi scusi tant... » Disse con tono gentile prima di bloccarsi di colpo appena posò lo sguardo sul mio viso.
I nostri occhi si incrociarono e benché avessimo quasi la stessa età io sembravo decisamente molto più vecchio dell'età che avevo. Eppure, ciò nonostante, a giudicare dalla sua espressione, compresi che mi aveva riconosciuto. Del resto, quello che c'era stato tra noi non poteva essere dimenticato così facilmente. Noi due ricordavamo eccome quel periodo.
« Non è un nome da maschietto? » Dissi cercando di smorzare quel momento imbarazzante.
Erano passati così tanti anni che ormai non provavo più quello che all'epoca mi aveva spinto a farle del male.
Bambi ci mise un po' a riprendersi. Negli anni lei era svanita dai riflettori e la notizia del suo ritorno fu presto dimenticata come quella della sua sparizione, così non ebbi neppure modo di sapere cosa avesse fatto. Sapevo solo che si era trasferita, ma non sapevo con esattezza dove.
« E' in onore di una persona a cui ho voluto bene ma che non ho potuto aiutare. »
Sul suo viso si dipinse un sorriso limpido, senza rancore, quasi compassionevole.
Quelle parole mi gettarono nelle mie stesse viscere. Compresi che lei non mi aveva mai odiato e forse, una parte di lei, era rimasta ancorata a quel periodo, ai sentimenti che in qualche modo erano sopravvissuti, nonostante tutto, nei miei confronti.
« Comprendo... » Risposi in un sussurro.
Vidi che stava per dire qualcosa mentre si portava una ciocca di capelli dietro l'orecchio, ma le labbra si schiusero per un attimo e si richiusero in ancora meno tempo quando la piccola con lei iniziò a strattonarle il jeans mugolando come ogni bambina fa quando cerca le attenzioni del genitore.
La vidi accucciarsi alla piccola e giocarci un po' nel tentativo di tenerla buona.
Erano praticamente uguali, a parte forse il colore dei capelli leggermente più scuro e il naso un po' più a punta. Al dire il vero, più la fissavo e più mi rendevo conto che in lei c'erano anche i tratti del padre.
Istintivamente volsi lo sguardo in giro, in cerca di una figura maschile, quasi come se iniziassi a temere per la mia vita. Magari non aveva detto niente a nessuno, ma al compagno di vita...
« Non c'è. Al momento lavora e tornerà stasera. »
Come anche in passato, sembrò che lei mi leggesse nella mente. Non potei non rilassarmi a quell'affermazione. Ero vecchio, non mi sarei potuto difendere dalla furia di un uomo che aveva tutto il diritto di vendicare la propria compagna per un torto di anni prima.
« E non sa nulla. » Continuò lei. « Perché non c'è nulla da sapere. » Non c'era rancore, odio, era serena, pacata.
Quelle ultime parole furono come lance. Era la prova che lei avesse dato a tutta quella storia un significato superfluo, o almeno ci provava, ma ancora di più che teneva a me a tal punto da portarsi con sé quel segreto di anni.
Ero troppo stanco persino per accusare il colpo, così semplicemente la guardai.
« Alcune cose a volte sembrano solo dei sogni a occhi aperti. » Risposi pacato per poi volgere lo sguardo alla piccola Marshall che teneva la sua palla con un braccio e con l'altro era ancorata alla gamba della madre.
Non seppi mai cosa voleva dirmi prima che la piccola richiamasse la sua attenzione né ebbi la forza di chiederglielo. L'attimo dopo lei fece un leggero cenno di saluto spronando la piccola a fare altrettanto e mentre io le salutavo con la mano e un sorriso rassegnato sul volto loro andarono via. Stavolta non l'avrei davvero più rivista.

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