𝚚𝚞𝚊𝚗𝚍𝚘 𝚗𝚞𝚘𝚝𝚘 𝚗𝚎𝚕 𝚖𝚊𝚛 𝚟𝚞𝚘𝚝𝚘
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Appoggio la mano sulla maniglia della porta di casa mia.
Sospiro, sfinito dall'ennesima giornata interminabile, mentre la abbasso, entro lasciando andare la tensione dai muscoli nel mio appartamento, lascio che il legno si richiuda alle mie spalle, le dita corrono al nodo della cravatta in un gesto istintivo, familiare, la pressione sul mio collo si riduce.
Guardo la stanza di fronte a me permeata dal buio.
Faccio in tempo giusto a sfilarmi le scarpe prima che la suoneria del mio cellulare inondi l'aria vuota spezzando la pace stantia di essere completamente da solo.
Aspetto giusto qualche istante, il tempo di raggiungere il divano e sedermi, prima di prendere il telefono in mano e guardare di chi sia la chiamata.
Quando mi rendo conto che è Iwaizumi, rispondo immediatamente.
È una delle poche persone che non ignoro quando arrivo a casa e taglio la mia vita e i miei problemi fuori dalla porta.
Mi porto il cellulare all'orecchio, adagio la nuca contro lo schienale del divano, stiro le gambe in avanti facendo attenzione a non colpire il tavolino di vetro troppo fragile per resistere ad un eventuale impatto col mio corpo.
– Pronto? –
– Ushijima, ciao. Hai un minuto per parlare? –
– Sì, sono appena tornato a casa. Devi dirmi qualcosa d'importante? –
– All'incirca. –
Io e Iwaizumi ci siamo conosciuti che lui aveva quindici anni, io ne avevo sedici, lui cercava disperatamente un posto e io cercavo disperatamente un amico.
Siamo sempre stati molto diversi ma anche molto simili, se da un lato lui è una persona piuttosto passionale e io sono tendenzialmente serio e pacato, dall'altro è pur vero che condividiamo l'abitudine a non parlare troppo, a fare prima di dire, a cercare sempre il risvolto pratico nelle cose.
Teoricamente lavora per me, Iwaizumi.
Ma nella realtà dei fatti, il nostro rapporto è molto meno professionale di così, direi invece che a legarci, più di una busta paga e una gerarchia, sia rispetto reciproco e forse anche un tantino d'affetto.
– Fai pure. –
Lo sento prendere fiato, so che mi dirà qualsiasi cosa debba dirmi senza mezzi termini e non lo metto in dubbio, quindi lascio che si prenda il suo tempo senza mettergli fretta, anche se non vedo l'ora di farmi una doccia e andare a dormire.
Passa qualche istante, rimango in silenzio, attendo pacificamente.
Quando parla, dice qualcosa che dentro di me già sapevo.
– Credo di voler rimanere qui. Credo... che questo posto abbia bisogno di me più della Shiratorizawa. Lui, ha bisogno di me più di quanto non ne abbia tu. –
– Capisco. – rispondo.
Fisso la televisione spenta di fronte ai miei occhi.
Non mi stupisce, quel che mi sta dicendo.
Non so nemmeno se m'infastidisca.
Forse m'intristisce un po'.
Iwaizumi è la mia guardia del corpo, o meglio, era, la mia guardia del corpo. So perfettamente di non aver bisogno di quel genere di assistenza, ora, ma all'inizio, quando ha iniziato ad esserlo, ero molto più giovane e mio padre era vivo e decisamente apprensivo. Me lo sono ritrovato a fianco, e da lì non se n'è mai andato.
Ho sempre sofferto la solitudine.
Quando ho smesso di essere giovane e ingenuo e indifeso, non ho smesso di soffrire la solitudine.
Non l'ho mai mandato via, proprio perché soffro la solitudine.
Ma...
Non sono cieco. Non sono stupido, non sono insensibile come molti dicono di me, non sono indifferente.
Quando Oikawa Tooru mi ha chiesto se potessi mandare Iwaizumi a lavorare per lui per un po' perché aveva bisogno di protezione e non si fidava di nessuno, quando Iwaizumi stesso nonostante la scorza dura che finge di avere mi ha detto che ci sarebbe voluto andare, ho saputo che non sarebbe tornato.
Ho saputo che quelle tre settimane di tempo che avrebbero passato insieme sarebbero finite per diventare la norma.
E nonostante qualcuno dei miei continui a borbottare che è Oikawa che tenta di farmi un dispetto, io so che non è questo, so che è molto di più, so che quei due si sono sempre guardati in un modo tutto loro, da quando si conoscono.
Avrei sperato che risolvessero senza che Iwaizumi se ne andasse.
Ma ora che se n'è andato e dice di voler rimanere là, io non posso oppormi al corso corretto delle cose.
– Per te è un problema se rimango qui, Ushijima? –
– Lo è, ma se te lo impedissi tu avresti un problema più grande di quello che io ho adesso, e sarebbe scorretto. –
Sospira, dall'altra parte della cornetta, lo conosco bene da sapere che espressione sta facendo, un po' esasperato, un po' stupito, un po' stanco.
– Mi dispiace darti così poco preavviso, davvero. Non mi aspettavo che sarebbe finita così, ma... –
– Io me lo aspettavo. Non ti preoccupare. Se tu sei contento così a me va bene. –
– Te lo aspettavi? –
Sostituisco la mano con cui tengo il telefono, lascio che quella che ora si è liberata penzoli nell'aria oltre il bracciolo del divano.
– Iwaizumi, ci conosciamo da anni. Non sono un cretino. Mi sono reso conto che sei una persona completamente diversa quando si tratta di Oikawa. Avrei trovato più strano se fossi tornato qui come se niente fosse. –
Ridacchia, sospira di nuovo.
– Ah, quindi è così palese? Miseria, e io che credevo di nasconderlo bene. –
– No, non lo nascondi bene. Ma non vedo perché dovresti. –
Ricordo bene molti episodi, che sostengono questa tesi, e so per certo che anche se credevano che nessuno se ne sarebbe accorto, sono sempre stati chiari come la neve a riguardo.
Iwaizumi ha sempre lo sguardo torvo, l'espressione seria, dura, fredda in viso, da che lo conosco.
Perde questa sua caratteristica solo quando c'è Oikawa.
Il suo viso si addolcisce un po', non so nemmeno se lui lo sappia, e lo fissa come se sapesse chi è davvero, come se lo conoscesse, Tooru che è sempre stato un mistero per tutti, che è tanto sicuro di sé da far capire a chiunque che molto probabilmente nasconde più di noialtri messi assieme.
Non so per certo cosa sia successo fra loro prima e in queste tre settimane, ma so come andrà a finire.
La prospettiva mi rallegra per Iwaizumi, ma m'intristisce per me stesso, perché ora sarò solo e non so se mi ricordo come si faccia a starci.
Dallo speaker si sente parlare un'altra voce, di sottofondo, un po' confusa e non molto chiara, che dice qualcosa di simile ad "Hajime, torna a dormire, è tardi".
La risposta è "arrivo, un secondo", poi le parole tornano rivolte a me.
– Ok, mi sa che devo andare. Grazie davvero, Ushijima. Uno di questi giorni passo a prendere le mie cose. Non farti ammazzare senza di me. –
– No, non mi farò ammazzare. Buonanotte, salutami Oikawa. –
– 'Notte anche a te. –
Poi stacca la chiamata, io lascio cadere il cellulare sul divano, e torno a fissare quel poco che vedo del mio riflesso nella televisione spenta.
Dovrei alzarmi e prepararmi per andare a dormire, ma rimango fermo, immobile, a chiedermi cosa stia provando.
Sono molto onesto con le mie emozioni, e non so se questo sia un bene o un male, so soltanto che sono fatto così e non sono in grado di essere altro. Non nego, non nascondo, non invento, quello che provo è chiaro e deliberato, niente di più e niente di meno.
Credo che questo sia anche il motivo per cui non sono come gli altri che ricoprono la mia stessa posizione.
Credo sia il motivo per cui loro sono tormentati, e io no.
Io sono nato nella Yakuza, sono cresciuto nella Yakuza, morirò nella Yakuza. Ho fatto quello che ha fatto mio padre, quello che farà mio figlio mai dovessi averne uno, e non mi sono mai nemmeno una volta detto che forse non sarebbe dovuta andare così.
Se sono nato in un sistema che già esisteva, era perché quel sistema serviva a qualcosa. Se le cose che faccio io le faccio, è perché è necessario all'ordine del mondo che io le faccia. Non c'è da questionare, non c'è da pentirsi, le regole sono chiare e non me la prendo con chi le rispetta.
Mi sono sentito dire che sono senza cuore.
Non è vero, no, io non sono senza cuore.
Io sono semplicemente molto più onesto di chiunque altro viva nelle mie stesse condizioni.
Perché farlo e mangiarmi le mani per averlo fatto?
Perché fingere di essere un buon cittadino costretto dal corso degli eventi a fare qualcosa di illegale?
Io non sono un ipocrita, io non so nemmeno come si faccia, ad esserlo, io sono chiaro con me stesso e non cerco alibi per la mia coscienza.
Se lo faccio è perché questo devo fare.
Se fossi una vittima del sistema non sarei in cima alla piramide, e sono più che convinto che chi condivide il privilegio con me, pensi esattamente la stessa cosa.
Inserito nella mia famiglia dal caso, sono cresciuto in un mondo dove esistono prede o predatori e ognuno deve plasmarsi con le sue mani il proprio posto nel mondo, a costo di schiacciare gli altri per farlo.
Ci sono nato, così.
Ci morirò.
Non mi sento in colpa per il modo in cui sono stato tirato su.
È così e basta, e crocifiggermi per questo sarebbe soltanto una perdita di tempo.
Stiracchio le ginocchia, sfilo definitivamente la cravatta, la arrotolo fra le dita con calma anche se devo metterla a lavare e farlo non ha alcun senso, più per occupare le mani che per altro. Qualche volta mi sento come se fossero troppo vuote, non so come spiegarlo, e far fare loro qualcosa mi toglie quel fastidio di dosso.
Non mi ricordo a che ora devo svegliarmi domani mattina.
Guarderò l'agenda prima di andare a dormire.
Probabilmente dovrei comprare un libro nuovo, ho quasi finito quello che sto leggendo, e l'idea di rimanere senza mi mette un po' di ansia.
Passerò in libreria domani verso l'ora di pranzo, o manderò Goshiki a farlo, anche se più probabilmente sarebbe meglio chiederlo a Shirabu, mi sembra abbia gusti più simili ai miei in fatto di letteratura.
Devo andare a farmi cambiare la camicia che ho preso ieri.
Il taglio è strano, mi sta bene sulla vita ma mi stringe sulle spalle.
Forse dovrei andare a fare la spesa, domani, prima di tornare a casa. Non compro mai niente in anticipo perché qualche volta mi capita di bloccarmi con la testa ad uno specifico alimento ma non riesco mai a prevederlo, quindi aspetto che la fissa si crei, prima di sprecare soldi e cibo.
Vedo ognuna delle cose che devo fare come una lista di frasi accostate da un quadretto vuoto, riempio lo spazio man mano che scorro nella mia testa, cerco di arrivare al fondo con calma.
Quando sarò sicuro di aver fatto tutto quello che dovevo fare oggi andrò a dormire.
Prima mi dovrò fare una doccia.
La farò, è all'ultimo posto nel mio elenco.
Arrivo al fondo, una sensazione di pace mista a soddisfazione mi invade quando mi rendo conto di non essermi perso nulla per strada, faccio per tirarmi su sulle cosce e dirigermi verso il bagno.
Il mio cellulare ricomincia a squillare.
Questa volta non è Iwaizumi, e storco il naso, intenzionato a lasciar perdere perché finalmente sono a casa, è tardi, gli imprevisti proprio non mi piacciono.
Però dopo che la chiamata si stacca, riparte da capo.
E allora, consapevole che se mi stanno chiamando due volte allora è proprio perché serve che io risponda, tiro su il cellulare e come prima, rispondo alla telefonata.
– Pronto? –
– Signore, mi sa che è successo un casino col debitore. – risponde una voce trafelata che lì per lì non riconosco.
Aggrotto le sopracciglia.
Stacco il cellulare per riguardare il numero.
Mi ricordo con qualche secondo di ritardo.
Ah, sì, quello che non mi paga da due mesi.
– Ti sa o è successo un casino? In tal caso, che casino? –
– È decisamente successo un casino. È... morto. –
– Suicida? Non è il primo, succede spesso, non vedo perché dovrebbe essere un casino. –
– No, non suicida. È completamente sventrato, signore, sembra che qualcuno l'abbia aperto da parte a parte. –
– Oh. –
Sbatto le palpebre, l'immagine si forma di fronte ai miei occhi.
Non mi fa senso, il sangue non m'impressiona e ho visto le viscere delle persone tante volte che manco quello mi tange più di tanto, però mi rendo conto che sicuramente non dev'essere un bello spettacolo.
– E c'è questo ragazzo, non so se sia un ragazzo, non so nemmeno se sia umano, che sta sul suo letto seduto tutto pieno di sangue. E continua a dire che l'ha ammazzato lui. Che ha finito di fare quello che doveva fare e ora gli va bene se noi lo prendiamo. –
Sento la mia fronte corrugarsi.
– In che senso non sai se sia un ragazzo? In che senso non è umano? Che cosa intende per "quello che doveva fare"? –
– Non riesco a capire se sia una femmina o un maschio, qualcosa di lui è terrificante, non ho idea di cosa intenda. Io... credo che lei debba venire qua di persona, signore. Non ha idea del casino. –
Sospiro.
– Non potete portarlo qua voi? Non sono dell'umore per uscire di nuovo di casa. –
– Ha un coltello in mano e... –
– Non siete armati? Legatelo e portatelo qui. –
– Io non... –
Mi alzo definitivamente dal divano. Appoggio la cravatta arrotolata sulla cassettiera dell'ingresso, studio la porta di casa mia, mi chiedo se davvero sia necessario.
– È spaventoso, signore. Io non mi avvicino. La prego, non me lo faccia fare. Qualsiasi cosa, ma non questo. Gliel'ho detto, non umano, non è... –
– I fantasmi non esistono, certo che è umano. Sto uscendo, comunque. Mandami l'indirizzo. –
– Grazie, grazie, la ringrazio, grazie mille, grazie di... –
Chiudo la telefonata, credo di aver afferrato il punto, rimetto la mano sulla maniglia della porta di casa mia.
Non mi piace, l'idea di aver dovuto completamente rivedere i miei piani perché è successo qualcosa che non mi aspettavo.
Ma non è la prima volta, certo la vita di uno Yakuza non è una vita regolare e priva di imprevisti.
Appianerò i miei nervi più tardi.
Sono anzi da una parte persino sollevato all'idea di aver qualcosa da fare, che sono consapevole che se mi fossi messo a letto, prima di dormire mi sarei sentito triste per Iwaizumi che non torna più.
Chiamo l'ascensore, aspetto che arrivi, lascio che le porte si chiudano alle mie spalle.
Spero solo di non dover uccidere nessuno.
Ho la camicia bianca, sarebbe un peccato sporcarla di sangue.
Guido fino all'indirizzo che mi è stato inviato in silenzio. È notte fonda, e per quanto Tokyo non sia una città taciturna nemmeno a quest'ora così tarda, rinchiuso fra i finestrini sento soltanto il pacifico rumore del motore e quello del mio stesso respiro.
Parcheggio di fronte al civico giusto, incastro la pistola sul retro dei pantaloni, infilo il cellulare nella tasca interna della giacca e prendo le scale per salire che sono solo un paio di piani.
La porta la trovo socchiusa, giusto uno spiraglio di luce che fende l'oscurità dell'androne, non aspetto e non indugio, entro senza farmi problemi.
L'uomo che mi ha chiamato, affiancato da un altro del quale, come quell'altro, non ricordo il nome, mi aspetta all'ingresso, distante un paio di metri da un'altra porta aperta, il viso dipinto di paura, terrore, agitazione. Sembra molto in ansia, si tortura le mani a vicenda, si morde l'interno della bocca, ha gli occhi sbarrati.
Ci sono delle impronte a fianco della stanza cui sta di fronte, scarlatte di sangue, il suo camminare nervosamente avanti e indietro ne trascina altre sulle piastrelle di fronte a me.
China il capo, quando mi vede.
Le sue gambe non smettono di tremare.
– Signore, non mi ero accorto stesse salendo. Buonasera. – dice, la voce ridotta ad un filo, puro orrore nel modo in cui la piega.
Rispondo con un cenno del capo.
– Dov'è? –
– Là dentro, in camera da letto. Faccia attenzione, guardi che... –
– Non farti problemi inutili. – taglio corto, superandolo di un paio di passi.
L'odore che proviene dalla porta aperta è ferroso, sporco e acido.
Sangue, è sangue.
Dev'essere morto da poco, la putrefazione ha un sentore più dolciastro.
– Non si è mosso di lì? –
Scuote la testa, il mio interlocutore, in un gesto quasi forsennato.
– Rimane fermo. Continua a dire che... –
– Sì, questo me l'hai già detto. Entro, allora. –
Mi avvicino ancora e farei quel che ho detto, se non sentissi una mano stringermisi contro il polso con foga, irruenza, panico.
Strattono via il braccio e giro la testa.
L'uomo pare aver appena visto la Morte in persona.
– Stia attento, deve stare attento, magari chiami qualcun altro, le giuro che... che... –
– È una persona. Una sola persona. È ridicolo che abbiate così tanta paura di qualcuno che alla fine è solo una persona. –
– Ma... –
Abbasso le sopracciglia, stringo lo sguardo.
Non voglio perdere tempo.
Se c'è un problema da risolvere, lo risolverò.
Finisce qui.
Di tutta questa scenata non c'è bisogno.
Trattenuto dalla mia espressione, l'uomo perde le parole, lascia cadere le braccia, china di nuovo il capo.
– Ha ragione, mi scusi. Faccia pure. Se ha bisogno di noi siamo... qui fuori. – capitola, poi, permettendomi di fare finalmente quel che devo fare.
Mi sistemo il polsini sotto la giacca, do di nuovo loro le spalle e guardo la stanza di fronte a me.
Entro.
In silenzio, entro.
La luce è accesa anche qui, è più soffusa ma illumina perfettamente lo scenario, l'odore di sangue è più acre, la stanza è disordinata, disseminata da schizzi e gocce scarlatte sui mobili e sulla tappezzeria.
Il corpo è sul tappeto, nel bel mezzo di un intricato disegno floreale, il modo in cui è conciato neppure fa pensare che prima potesse somigliare ad un essere umano, è come me l'avevano descritto, sventrato dal collo all'addome, aperto in due perché si vedano cose che dovrebbero rimanere all'interno.
Nemmeno storco il naso.
Solo smetto di guardarlo, alla ricerca del vero problema, i miei occhi che s'inerpicano su per le gambe di metallo di un letto, sul materasso sfatto, sul sangue che tinge le lenzuola, su un paio di gambe chiare incrociate sotto ad una persona che non riconosco e che non vedo perché a chiunque dovrebbe sembrare un fantasma.
Non è un fantasma.
Non è così spaventoso.
È solo...
Qualcosa che ancora non avevo mai visto.
Ha una maglietta addosso, ma non i pantaloni, i capelli sono di un colore scuro, sanguigno, ha gli occhi grandi la pelle bianca, le dita lunghe e sottili che giochicchiano con la punta di un coltello da caccia, ha le mani, il viso e i vestiti ricoperti di sangue.
Mi sorride, quando mi vede.
Il modo in cui lo fa potrebbe in effetti sembrare inquietante.
Ma a me, che non mi faccio inquietare, sembra solo tremendamente onesto.
– Hanno dovuto chiamare il terzo? Dio, quei due sono dei cagasotto, non credevo di essere così spaventoso. – dice, col tono di voce che si flette in un modo che non suggerisce aggressività, ma che ricorda più quello di qualcuno che si diverte.
– Non lo sei. – rispondo.
– No? –
– No. Non vedo cosa di te possa essere spaventoso. –
Sorride di nuovo, stringe la lama fra i polpastrelli, poi indica con un gesto del capo il corpo a poca distanza da noi.
– Anche tu qua per lui? –
– No, non per lui, mi hanno già detto che è morto. Per te. –
– Per me? –
Annuisco, fermo di fronte al suo viso che rimane un attimo interdetto, poi riassume le fattezze divertite di prima, lascia perdere.
Intervengo di nuovo.
– Non so se sai chi sono. Sono Ushijima Wakatoshi, della... –
– Della Shiratorizawa, sì. Sono piuttosto sicuro che nessuno in questa parte della città non sappia chi sei, ragazzone. –
– "Ragazzone"? –
– Certo non sei una ragazzina. –
Ci penso su un secondo.
Non è che abbia torto.
In effetti.
– Tu chi sei? –
– Mi chiamo Satori. –
– Satori come? –
– Satori Tendō. –
Non l'ho mai sentito.
Non lo conosco.
– Sei un ragazzo o una ragazza? –
– Nessuno dei due. Entrambi. Vai tu a capire. –
– Come ti parlo, allora? –
– Usa il maschile, tanto è la stessa cosa. Non me ne frega niente. –
– Ok. –
Una goccia di sangue gli cade dai capelli sul materasso, la seguo con lo sguardo, mi rendo conto quando riporto gli occhi su di lui che non si vede la differenza fra il colore scarlatto dei suoi capelli e quella del massacro che pare aver appena compiuto.
Anche i suoi occhi, con questa luce, sembrano dello stessa tinta.
– L'hai ucciso tu. Perché? –
– Perché se lo meritava. –
– Chi sei tu per dirlo? –
Alza le spalle, sembra la cosa quasi non gli importi.
– Nessuno. Ma se lo meritava lo stesso. –
– Spiegati meglio.
– Non vorrai mica star qui tutta la notte ad ascoltare la mia storia, ragazzone. –
Incastro le braccia conserte al petto, gli faccio un cenno col viso.
– Non vedo perché non dovrei. –
– Oh, ok, se lo dici tu, allora... –
Lascia cadere il coltello sul materasso, slega le gambe dall'incastro in cui le aveva connesse, le stiracchia di fronte a sé. Sono lunghe, disseminate di piccoli nei, ha le caviglie sottili, qualche piccolo segno sulla tela bianca.
– Tre anni fa quel bastardo di mio padre si è ammazzato impiccandosi nel bagno di casa un giorno totalmente a caso, senza avvisaglie, senza dire niente, così, di punto in bianco. Questo stronzo e i suoi amichetti si sono presentati mentre piangevo al funerale per dirmi che aveva un debito, e già questo non lo sapevo, e che ora che era all'altro mondo avrei dovuto pagarlo io. –
– L'hai ammazzato perché non volevi pagare? –
– No, ho pagato. Ogni centesimo. –
– Come? –
– Puoi immaginartelo, ragazzone. –
– Non sono bravo a immaginare le cose. –
Ride piano, è un suono sottile, appena accennato, piacevole all'udito.
– Il lavoro più vecchio del mondo. Ho fatto la puttana. –
– Oh, ho capito. –
Non provo nulla nei confronti di quello che mi ha appena detto. Forse dovrei provare pena, forse disgusto, ma non è la mia vita e non sono solito avere opinioni sul modo in cui gli altri si ritrovano a campare.
– Tre mesi fa ho esaurito il mio debito. So che può non sembrare ma alle medie me la cavavo bene con la matematica, interessi e tutto sapevo quanti soldi dovevo ridare loro e glieli ho ridati tutti. Dopo averlo fatto ho chiuso le gambe, ho preso la mia roba e ho cercato di andarmene perché davvero non avevo più voglia di avere a che fare con quella vita. –
– Mi sembra logico. –
– Anche a me lo sembrava. Tranne che il bastardo e la sua combriccola di figli di troia non erano d'accordo e hanno ben pensato di ritrascinarmici dentro mettendomi le mani addosso e riempiendomi di botte quasi fino ad uccidermi. –
Aggrotto le sopracciglia.
– Ma se avevi ripagato il tuo debito allora perché avrebbero dovuto? –
– È la stessa cosa che mi sono chiesto io. L'ho anche chiesto a loro. Hanno iniziato a parlare di come io fossi loro proprietà e stronzate del genere. Diciamo che ad un certo punto ho capito che non mi avrebbero mai lasciato andare. –
Riprende il coltello fra le mani, questa volta stringe l'elsa, punta la lama verso il cadavere.
– E allora ho deciso che l'unico modo per risolvere il problema era eliminarlo letteralmente. Ora che li ho ammazzati sicuramente non sono più loro proprietà. –
– Ammazzati? Più di uno? –
Annuisce.
– Venticinque. In realtà i bastardi erano ventiquattro, uno era un cliente abituale che mi ha spento una sigaretta sul collo una volta, la cicatrice fa schifo, mi ha fatto incazzare. –
Venticinque morti?
Come mi sono passati inosservati venticinque morti?
Se ci fossero stati venticinque cadaveri sventrati mi sarei reso conto prima che c'era qualcuno che li stava facendo fuori.
– Non ti scervellare, ragazzone, lo sento da qui che sei confuso. Chiedi, non ho niente da nascondere. –
– Li hai ammazzati tutti così? Col coltello? –
Scuote la testa.
– No, no. Tanto che c'ero mi ci sono divertito. Dopo un po' ci prendi gusto, sai. Il primo ho aspettato che si addormentasse dopo aver fatto sesso e l'ho soffocato nel sonno, il secondo l'ho impiccato, il terzo e il quarto li ho presi insieme e gli ho dato fuoco, a qualcuno ho sparato ma non ricordo a chi, uno mi pare di averlo pugnalato, a un altro gli ho fatto bere la candeggina, quello prima di questo l'ho annegato nel suo aquario per i pesci. –
Sbatto le palpebre.
Sì, questa dell'aquario me la ricordo, me l'ha detta qualcuno la settimana scorsa.
Con tutta la gente che crepa nel giro di vite in cui viviamo, mai avrei pensato che fosse collegato ad altri morti.
Beh, per il modo in cui vivo, l'unica cosa che riesco a pensare è che questo Satori ha talento, nel fare quello che fa.
Si rivolge di nuovo verso al cadavere aperto.
– Quello là è l'ultimo. Ho finito. Ora non m'interessa più. –
– Non t'interessa più? Non avevi detto che volevi andartene, quando tutto fosse finito? –
Annuisce.
– Sì, volevo, ma... non lo so, questa cosa di vendicarmi mi ha preso così tanto che ora che non c'è più mi sono dimenticato cosa volessi diventare prima. –
– Capisco. –
Punta la lama del coltello contro di me, più per riferirmisi che per minacciarmi, credo, la agita in aria mentre parla.
– Per questo non me ne sono andato quando sono arrivati quei due. Avrei anche potuto farli secchi e darmela a gambe, ma sinceramente non ne vedo tanto il senso. Forse il fatto che non sappia cosa fare significa che non devo fare nulla, no? –
– Potrebbe darsi, sì. –
– Ecco, la pensiamo allo stesso modo. –
Molla di nuovo l'arma, piega il busto in avanti, stira le braccia sopra di sé, le lascia ricadere in grembo. Anche quelle sono magre e lunghe, chiare, quasi intonse, i polsi sono ossuti, ha delle belle mani, anche se ha le falangi disseminate di cerotti.
– Mi hanno detto i tuoi uomini che il figlio di puttana ti doveva dei soldi. Immagino che ora passerò io i suoi guai, visto che l'ho ucciso prima che potesse ridarteli. –
– In realtà non lo so. Non mi è mai capitata una situazione del genere. Non so nemmeno io cosa fare. –
Piega la testa, ha il collo lungo e sottile.
– Beh, sei tu il grande capo, t'inventerai qualcosa, no? –
– Sì, ma ci devo pensare un po', prima. –
– Fai con comodo, io non ho davvero niente da fare. –
Cerco di ragionare sulla questione. Guardo Satori che si sposta sul letto fino a stendercisi sopra e ci medito su, metà della testa rivolta alla questione del debito, l'altra metà catturata dal modo in cui si muove.
Ha qualcosa di armonioso, addosso.
Il linguaggio del corpo di molte persone che conosco mi sembra sconnesso, incomprensibile, mi mette addosso la sensazione di avere un qualche cosa fuori posto che non riesco in nessun modo a riordinare, è un fastidio che riesco ad ignorare, ma nella mia testa rimane comunque.
Lui no.
Non so perché.
Però mi accorgo mentre penso che ha quattro nei, uno su uno zigomo, uno sopra il labbro, uno a lato del collo e uno sulla clavicola scoperta dalla maglietta troppo larga, che fanno zig zag sulla sua pelle, e che la linea che creano mi è semplice e confortevole da seguire.
Quando qualcosa di simile al dilemma che sto vivendo mi viene in mente, mi pongo il quesito se effettivamente le situazioni siano paragonabili.
Non ne sono certo.
Forse è meglio chiedere un parere.
– Qualche mese fa stavamo dietro ad un debitore che doveva un sacco di soldi anche al Nekoma. L'ha ucciso Kenma, ma io non ho richiesto indietro i soldi a Kenma. Credi che la situazione sia simile? –
Satori mi guarda.
– Non lo so, sinceramente. A parte che Kenma del Nekoma non è esattamente nelle mie condizioni, ma poi non è che a me questo bastardo dovesse dei soldi. –
– Sì che te li doveva. Ti ha costretto a lavorare per lui anche se avevi esaurito il debito, no? Te li ha rubati. –
– Se la metti in questi termini potrebbe essere, sì. –
– Però dirti che va tutto bene e andarmene mi dà comunque una strana sensazione, non so sia la scelta giusta. –
Stringo le labbra, scorro con gli occhi di nuovo sulla linea dei suoi nei, destra, sinistra, di nuovo destra e di nuovo sinistra, mi sembra che qualcosa mi stia grattando un punto che prudeva dentro al cervello.
– Magari potresti lavorare per me. Senza debito, normalmente. Giusto per ridarmi qualcosa in cambio dei soldi che ora non posso più riprendermi. –
I suoi occhi si piantano sui miei.
– Io non faccio più sesso per soldi. –
– No, non il sesso. Quello a me non interessa. La parte di te che ammazzi venticinque persone, m'interessa. –
Le sue sopracciglia prima si alzano, poi si abbassano. La sua espressione pare per un istante stupita, ma torna com'era subito dopo.
– Vuoi che venga nella tua grande grossa associazione mafiosa a uccidere gente? Sul serio? Non siete già strapieni di persone che non vedono l'ora? –
Alzo le spalle.
– In realtà no. Nel senso, a sparare a qualcuno sono buoni tutti, ma l'unica persona che era in grado di far parlare chiunque e di uccidere per bene si è licenziata un paio d'ore fa, il posto è vacante. –
Mi segue con lo sguardo, mi squadra.
– E non hai paura che un giorno poi io prenda in mano tutte le armi che mi darete e ti mandi dall'altra parte, ragazzone? –
– So come difendermi, ma grazie per l'interessamento. –
– Oh, ok, se ne sei convinto. –
Ne sono convinto, sì.
Sono anche convinto del fatto che se poi lui dovesse effettivamente uccidermi, rivelandosi più scaltro, più intelligente e più abile di me con le armi, allora a quel punto per la semplice legge del più forte sarebbe giusto che io morissi.
Sono arrivato in cima dimostrandomi meglio degli altri.
Questo non preclude che qualcuno possa essere meglio di me, e l'ho sempre saputo.
Satori mi studia, me e la mia espressione, ruota indietro le spalle, piega le ginocchia, si mordicchia il labbro.
Io cado una terza volta nei tratti spezzati composti dai suoi nei.
– Non ho mai torturato qualcuno per ottenere informazioni, solo per il gusto di farlo. Non so se sono capace. –
– Io penso che le due cose non siano poi tanto differenti. Credo che tu ne sia capace. –
– E non uccido bambini. Se ti serve qualcuno che uccida dei bambini non sono la persona giusta. –
– No, non mi serve che tu uccida bambini. –
Sbatte le ciglia, sono scarlatte, come i capelli.
– Non sono sicuro di riuscire a seguire gli ordini. Non sono mai stato bravo ad ubbidire, se lo fossi stato non sarei qui adesso. –
– Dovesse succedere ci saranno conseguenze. Se pur essendone consapevole dovessi decidere di fare di testa tua, le pagherai come chiunque altro. –
Le regole sono regole, e valgono per tutti.
Se punendo la sua insubordinazione dovessi rivelarmi io più in pericolo di lui, allora la stessa insubordinazione che ci connette sarebbe rivolta dalla parte sbagliata.
Io non ho paura di lui.
Se mai dovessi averne, saprei che il mio posto non è più quello che pensavo fosse.
– Spero che tu sappia che i tuoi amichetti non saranno contenti quando mi presenterò nel posto dove lavori. –
– Perché non dovrebbero esserlo? –
– Perché stai letteralmente offrendo una posizione che credo tutti si sarebbero fatti il culo per avere ad una puttana da marciapiede che si è rotta il cazzo dei bastardi che la tenevano richiusa. –
Lascio che le sue parole mi si assorbano in mente, ci penso su.
Sì, non credo che abbia torto.
Qualcuno dirà che sono impazzito, e che ho aperto una faglia ad uno sconosciuto folle e sanguinario che ho trovato seduto a leccarsi i baffi sopra un cadavere che dovevo rendere tale io.
Ma a me non interessa la lettura emotiva o ipotetica di tutta questa storia.
A me interessano i fatti, com'è sempre stato.
Iwaizumi se n'è andato, e se mi mancherà l'amico che era, a quello che dirigo mancherà la freddezza con cui lavorava.
Li conosco, gli altri, li conosco bene. Shirabu è freddo, ma è troppo rigido, Semi crede in quello che fa ma non riesce a vedere le persone come problemi da risolvere, non ha quell'impassibilità, Goshiki è sveglio, ha talento in tante cose, ma lo vedo che gli tremano le ginocchia quando deve imporsi su qualcuno.
Questa creatura che sembra uscita da un mattatoio di fronte ai miei occhi, non ha niente che la fermi.
Sta qua, tranquilla, calma, rilassata, a parlare con me senza nascondersi, senza chinare lo sguardo, prende atto di quello che fa come se fosse qualcosa che era necessario fosse compiuto, è coperta di sangue ma si vede che è a suo agio nel farlo.
La diffidenza nei confronti del fatto che sia un assassino, è fuori luogo.
Io stesso ho fatto fuori ben più di venticinque persone.
E sul fatto poi che abbia venduto il suo corpo, io davvero non credo di aver nulla da sindacare.
Persone con cui faccio affari, con cui lavoro e che rispetto frequentano gente come lui.
Per me che uno sia da un lato o dall'altro, non fa alcuna differenza.
– Sto offrendo una posizione a qualcuno che ha fatto fuori venticinque persone in tre mesi, Satori, senza un aiuto, senza una mano. Persone che sapevano che saresti arrivato a prenderle e comunque non sono riuscite a difendersi. –
Alza gli angoli della bocca.
Non parla.
– A ragion veduta, è anche vero che qualcuno come te è da tenere d'occhio. E non saprei come farlo meglio che tenendoti vicino. –
– Potresti uccidermi, così non sarei più una minaccia. –
– Sarebbe un'occasione sprecata. –
Allunga i polpacci sul materasso, ruota la testa facendo schioccare le articolazioni, incastra le caviglie sul bordo del letto e si spinge avanti.
Quando si mette su in piedi mi rendo conto che nonostante la sua conformazione corporea sia esile e sottile, è alto.
Una decina di centimetri meno di me, ma decisamente sopra la media.
Ho la malsana tentazione, che respingo, quando mi si avvicina, di appoggiare un dito e non solo gli occhi sui quattro nei che gli adornano il viso e il collo.
Non farlo è un po' fastidioso.
Ho la sensazione che se lo facessi mi sentirei più a mio agio.
– Dicono tante cose di te, in giro, Ushiwaka, ma dal vivo sei tutto diverso. – commenta poi, il mento tirato un po' in su per guardarmi negli occhi, le dita che giocano con il colletto della maglietta.
– Non so cosa tu abbia sentito sul mio conto, quindi non so cosa risponderti. –
– Dicono che sei uno stronzo. E che incontrarti è spaventoso. –
– Non credo di essere uno stronzo. Non credo nemmeno di fare paura. –
Si scosta via una ciocca di capelli dal viso, il gesto gli lascia una striscia di sangue sulla fronte.
– Uno dei bastardi ce l'aveva a morte con te, lo sai? Ha detto che sei stato tu a fargli tagliare le dita. –
– È possibile, è il primo avvertimento per qualcuno che non rispetta gli accordi presi. Lo dico, però, prima di accettare un qualsiasi accordo. Non è mia la responsabilità, una volta che l'ho fatto presente. –
– Non sei tu, sono loro? Questo stai dicendo? –
– Sto dicendo che è una semplice relazione di causa-effetto. Non ha senso che qualcuno si lamenti delle conseguenze, se lui stesso ha deciso di volerle affrontare. Bastava rispettare la parola data. –
– Fossero tutti chiari come te il mondo sarebbe un posto molto più facile in cui vivere. –
Non so se lo intenda scherzando o seriamente.
Lascio perdere.
Satori stringe le braccia conserte al petto.
– Quindi, ricapitolando tutto. Tu vuoi che io venga a lavorare per te e che ammazzi chi mi dici di ammazzare. Senza nessun debito di mezzo, quindi se mi stanco e decido di andarmene me ne vado senza problemi. –
– Esatto. –
– E devo fare tutto quello che mi dici tu. –
– Mentre stiamo lavorando sì. All'esterno del lavoro non mi riguarda. –
– Quando sono per i cazzi miei posso fare quello che mi pare? –
– Nei limiti della norma. Senza attirare l'attenzione. –
Stringe lo sguardo.
– No omicidi fuori da lavoro, solo omicidi a lavoro. Ho capito bene? –
– Benissimo. E non è solo uccidere la gente, non voglio che tu faccia stronzate in generale, nemmeno farti beccare oltre i limiti in autostrada, se ti schedano è un problema e quando non sei con me io non posso proteggerti. –
Salta con gli occhi diretti contro i miei.
– Proteggermi? –
– Proteggerti, sì, certo. Il mio ruolo non è solo quello di dare ordini a chi mi sta sotto, è anche quello di proteggere. Non esisterebbe la Yakuza se non ci fosse qualcosa da guadagnare oltre che qualcosa da perdere. –
– Mh, non è che tu abbia torto, in effetti. Ok, sì, ha senso. –
Rimane fermo, io lo imito, per un attimo mi squadra e io squadro lui.
Destra, sinistra, di nuovo a destra, di nuovo a sinistra.
Chissà se toccarli è piacevole quanto guardare.
Chissà se questa sensazione che ho fra la pelle e i muscoli di qualcosa che si contrae e si restringe facendomi prudere l'interno del corpo sparirebbe, se li toccassi.
Dovrei smettere di fissarlo, più lo guardo più sento il bisogno di farlo.
Scioglie le braccia, piega il capo, osserva la mia espressione con interesse.
Non so come faccia ad accorgersi del mio fastidio, non credo nessuno se ne fosse mai accorto prima.
– C'è qualcosa che ti mette a disagio, Ushiwaka? La nostra soluzione ancora non ti soddisfa? –
– No, non è questo. –
– Cos'è, allora? –
Teoricamente so che non dovrei rispondere.
So che le persone non sono tutte fatte come me e che qualche volta quando mi esprimo sembro solo strano e fuori di testa.
Però mi dico che se il bisogno di farlo è così forte, non vedo perché cose che so ma che non capisco dovrebbero fermarmi.
– Posso toccarti? –
Non sembra scioccato, solo divertito, quando fa spallucce.
– Non ti fa schifo? Sono pieno di sangue, per la miseria. –
– No, non mi fa schifo. Allora, posso toccarti? –
– Sì, fai pure. –
Rilassato dall'aver ottenuto il permesso, so che non si possono toccare le persone senza chiederlo e ho temuto non volesse, alzo una mano fra noi.
Quando appoggio il polpastrello sul suo viso mi rendo conto che ha la pelle liscia, e da così vicino è ancora più chiara, ancora più bianca.
Porto le dita più in giù, dallo zigomo al labbro superiore, poi giù verso il collo, in direzione opposta verso la clavicola.
Quando lascio cadere la mano il fastidio è scomparso.
Mi sento molto, molto più a mio agio.
La mia faccia sorride da sola, come fa ogni volta che la somma di tutte le cose che mi disturbano viene spazzata via dalla mia mente.
Satori non dice niente, non commenta il mio gesto, solo osserva il mio sorriso con più attenzione ancora.
Poi annuisce.
– Ok, ho deciso. Va bene, vengo a lavorare per te. Però sappi che non ho una casa, non ho un telefono e ho perso la maggior parte dei miei documenti o in discoteca o sui mezzi. –
– La casa non è un problema, la maggior parte delle persone vive comunque sotto l'ufficio. Il telefono nemmeno, qualcuno te ne darà uno. I documenti non saprei che farmene, se non servono a te sicuramente non servono a me. –
– Va bene, ok. –
Accenno un gesto col capo, guardo per l'ultima volta i suoi nei, poi indietreggio.
Chiamo gli uomini fuori dall'ingresso.
Quando entrano nella stanza sono terrorizzati come lo erano prima, con le ginocchia che tremano e l'orrore negli occhi.
– Trovategli una stanza e un telefono. Dategli il mio numero. Spiegategli domani mattina come arrivare nel mio ufficio. –
Quello con cui avevo parlato prima mi guarda come se avessi appena insultato sua madre.
– Eh? –
– Devo ripetere o è un "eh" di stupore? –
Balbetta qualche parola, prendo fiato per ridire quello che ho appena detto ma vengo interrotto prima.
– Il ragazzo... devo portarlo da noi? Dargli il suo numero? Signore, ma di cosa sta... –
– Non è un ragazzo, si chiama Satori, sì, è esattamente quello che devi fare. –
– Ma perché dovremmo... –
– Da ora lavora con noi. –
Gli si sgancia la mascella dal cranio, rimane a bocca aperta, la voce muta dallo stupore e gli occhi spalancati.
Passa con lo sguardo da me a Satori inebetito, non dice nulla, suppongo la questione sia chiusa.
Mi giro verso la persona alle mie spalle.
Si sta asciugando i palmi delle mani insanguinati sulla maglietta.
Mi sorride a trentadue denti.
– Ciao, Ushiwaka, allora ci vediamo presto. Fai il bravo quando non ci sono. – dice, agitando piano la mano da una parte all'altra.
– Io faccio sempre il bravo. E non mi piace che le persone che lavorano con me mi chiamino con quel soprannome, per favore, non usarlo. –
Stringe le labbra in una linea.
Annuisce.
Sorride di nuovo.
– Ok, Wakatoshi, come preferisci. –
Lo guardo.
Muovo la testa per salutare.
Esco dall'appartamento.
Mentre il suono delle suole delle mie scarpe che impattano contro i gradini mi risuona nelle orecchie, mi rendo conto che mi sento di nuovo le mani vuote.
Avrei dovuto toccarlo prima di andarmene.
Ora dovrò dormire con il fastidio di non averlo rifatto.
Dio, in fondo dovrei rivederlo domani, potrebbe non essere così drammatico.
Spero, a questo punto, solo che la notte passi in fretta.
─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.──
cerco di essere molto breve di non ammorbarvi perché tanto ci vediamo domani quindi ecco non mi dilungo
vi chiedo solo
vi è piaciuto? am i still able to write this !au?
tra l'altro mi scasso ushiwaka il mafioso più chill della storia quest'uomo è un mood io nella vita come ushijima ti prego insegnami fra come fai io voglio essere TEEE
niente basta
fine
un bacino ci vediamo domani sisi :D
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