𝚐𝚒𝚞𝚛𝚘 𝚛𝚒𝚝𝚘𝚛𝚗𝚎𝚛𝚘' 𝚍𝚊 𝚌𝚊𝚖𝚎𝚕𝚘𝚝

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Non torno al lavoro.

Anche se la voce ha detto che la partenza di Satori è programmata fra due ore e mezza, anche se so che dovrò aspettare, anche se probabilmente non è intelligente, non torno al lavoro, né a casa, né mi allontano di un metro da dove so che lo rivedrò.

Ci vado subito.

Trascinato dall'impazienza, da un lato, e dal timore che se non sarò lì immediatamente potrei perdermelo dall'altro.

Arrivo alla fermata dei bus, ancora deserta, in uno spiazzo desolato fuori città, e parcheggio la macchina, poi esco e mi siedo là, sulla pensilina, nel buio di questa stagione che teme di svegliarsi troppo presto, e allora tiene l'oscurità su di sé finché il Sole le impedirà di dormire.

Sto fermo.

Immobile, fermo, in attesa, nulla fa rumore attorno a me, non c'è nessuno, e nonostante sappia perfettamente che non è così, per qualche istante o forse qualche ora, non ne ho idea, mi sembra di essere l'unico uomo al mondo.

Non è che non ci abbia mai pensato, nella mia vita, a come sarebbe stato innamorarsi. Ci ho pensato, credo un po' tutti lo facciano, ma non mi sono mai dato troppe preoccupazioni in merito alla cosa. Ingenuamente immaginavo che sarebbe successo fra qualche anno, con una persona che mi somigliasse, che facesse il mio stesso lavoro, che fosse qualcosa di semplice e sereno e pacato.

M'immaginavo l'amore come qualcosa di lineare. Ti rendi conto che qualcuno ti piace, lo trovi fisicamente attraente, uscite insieme, fate sesso, andate a convivere, vi sposate, vivete tutto il resto della vostra esistenza felici e contenti. Fine. Niente di più, niente di meno.

Mi sa che avevo sottovalutato la questione.

Mi sa che mi ero perso tutta la parte in cui scegliere di come, quando, con chi, dove e perché innamorarsi, non è possibile.

Avevo supposto che innamorarmi sarebbe stata una cosa extra al modo in cui conducevo la mia vita, non avevo preso in considerazione di quanto tutta l'esperienza sarebbe stata distruttiva per le fondamenta di me, di quanto avrebbe potuto cambiarmi.

Però ora ne prendo atto.

Me ne rendo conto, e mi dico che ormai non posso più farci niente.

È andata così, e me la terrò così.

Non credevo che avrei dovuto fare delle scelte o un bilancio pro-contro della situazione, credevo che sarebbe stato come aggiungere un mattone sopra un muro già costruito, non smantellarlo per rimetterlo in piedi diverso, ma ora che è successo, non posso cambiare le cose.

Te o il resto, no?

Te o la mia sicurezza, te o l'integrità di non perdonare chi mi minaccia, te o le mie rigide regole tanto confortevoli.

Non pensavo che avrei dovuto scegliere.

Ma anche se non lo pensavo, io ho scelto comunque.

Ho scelto te.

Non ho paura di aver scelto te.

Lancinante, quel dolore di sapere che tu non ci sei. Più doloroso di uno sparo, più di una coltellata, e avendo subito entrambe le cose, lo dico con cognizione di causa. Non ho modo di allontanare la sofferenza, non ci sono antidolorifici, non ci sono medicine, e per quanto pare che il tempo lenisca le ferite, io soffro anche alla prospettiva di quello, che le ferite scompaiano, che mi dimenticherò di come sia bello stare assieme.

Ho creduto di te che fossi la prima persona che avessi incontrato a starmi accanto, in cima alla piramide alimentare, che potessi farmi compagnia da lassù, guardando in basso, godendo dell'aria fresca che si respira qui dove non c'è nessuno.

Mi sbagliavo.

Tu ed io non siamo insieme sullo stesso piano.

Tu stai sopra.

Se la posizione è determinata dalla possibilità di imporsi sull'altro, se più in alto stai più hai la capacità di comandare chi sta in basso, se chi ti guarda dal gradino inferiore è naturalmente portato ad essere debole nei tuoi confronti, allora tu stai sopra.

Tu hai il controllo, tu puoi importi su di me, tu puoi comandarmi, tu puoi rendermi debole.

Non è una speculazione, non è nemmeno il pensiero di qualcuno che soffre.

È un puro e semplice dato di fatto.

Non mi ferisce.

Saperlo, non mi ferisce, non mi spaventa, non mi mette ansia.

È giusto così, e se è così è perché non poteva essere altrimenti, e non m'illudevo di poter vivere per sempre al di sopra di tutto, mi aspettavo che prima o poi qualcuno avrebbe preso il mio posto. Certo, credevo sarebbe stato un successore che io avessi addestrato, eventualmente magari un figlio, un parente di qualche genere, ma il fatto che alla fine sia stato tu, non mi risulta poi così improbabile.

Dopotutto, non è così che funziona l'amore?

In realtà non lo so, come funzioni. Non lo so per gli altri, sto imparando a scoprirlo anche per me, certo non ho una risposta univoca e completa alla questione.

Però mi rendo conto che per me amare è anche essere devoto e allora io ti sono devoto, e ti sono sotto, e ti sono uno scalino più in basso, perché questo è come mi sento in grado di amare e questo è come ti amo.

Non ho scritto a nessuno dei miei sottoposti cosa io stia facendo, non ho disposto alcun piano difensivo se dovesse andare peggio del previsto, non ho minimamente cercato di proteggermi.

Mi sentirei dire che sto facendo una stronzata, che sono un idiota, che sto correndo pericoli che non dovrei correre, e saprei che è tutto vero e pur essendo tutto vero non me ne importerebbe comunque.

Loro ragionerebbero mettendo su due piani diversi il mio amore per te e ogni altro elemento della mia vita, perché non ti amano come faccio io, e non riuscirebbero a capirlo, ma siccome del mio destino sono l'unico fautore, io che ti amo, io che riesco a capirlo, questa decisione la prendo da solo.

Se la scelta è tra la mia vita e te, Satori, io preferisco te.

A me va bene.

A me va...

Inizia a piovere.

Non è una pioggia torrenziale, giusto lo sfilare di piccole gocce magre sulla tettoia di plastica sopra la mia testa, il rumore ripetitivo all'inizio mi disturba, ma dopo un attimo inizia a rilassarmi.

Fisso l'acqua che cade di fronte a me in silenzio.

Non so se Satori sia ancora nel posto dove è stato questi giorni, se sia già uscito, ma spero che abbia preso un cappotto, o magari l'ombrello. Fa un po' freddo e mi dispiacerebbe se si prendesse il raffreddore o la febbre. Quando lo vedrò glielo chiederò, come si sente, credo di avere un ombrello in macchina, se non dovesse averlo glielo porterò.

Spero che abbia mangiato, nell'ultima settimana.

Mi sono accordo che ha un'alimentazione un po' irregolare, secondo il mio dottore è importante mangiare in maniera ordinata, ho provato a dirglielo, ma forse nella solitudine se n'è dimenticato.

Dovrebbe anche smettere di bere tutte le bevande energetiche che gli piacciono tanto. Comprendo il gusto di una ogni tanto, anche a me le sigarette piacciono una ogni tanto, ma la regolarità del gesto è dannosa e non vorrei che stesse male.

La salute è importante.

Gli dirò anche questo.

Aspetto zitto, in quella che sembra una frazione di spazio dove non si muove nulla tranne la pioggia, mi rendo conto pensandoci, che il dolore al petto, ora, non c'è.

Quindi mi fa male solo se non ci sei?

Mi fa male solo se non ci sei.

Se invece so che ci sarai non mi fa male, anche se magari succederà qualcosa di brutto.

Ho capito.

È una cosa quasi... quasi carina, credo.

Continuo a fissare l'asfalto.

Che giorno è oggi?

Sarà il mio ultimo giorno?

Ho rimpianti?

No, non credo di averne. Ho progetti e speranze, come tutti, ma rimpianti no. Ecco, forse avrei dovuto cambiare i fiori sulla lapide di mia madre, sono dieci giorni che non vado, ma suppongo che mi seppelliranno accanto a lei se dovessi morire, qualcuno lo farà al posto mio.

Il testamento lo sa Shirabu, dov'è, l'ho cambiato ma l'ho rimesso a posto, quindi non dovrebbero esserci problemi.

Spero che non facciano morire le mie piante, sono solo piante, ma in qualche modo provavo nei loro confronti una strana forma d'affetto.

Mi sistemo i polsini della camicia sotto la giacca.

Alzo il capo per guardare il cielo.

Sospiro, rilassato, a rendermi conto che se dovessi morire, morirei senza aver dimenticato nulla.

Il pensiero mi rilassa.

La prospettiva non mi spaventa.

Morire con la tua immagine stampata negli occhi, chiuderli su di te, avere come ultimo, finale ricordo il tuo viso, cadere divorato da chi io stesso ho ammesso starmi un gradino sopra, non mi spaventa.

Anzi mi rallegra.

Credo sarebbe una bella morte.

E se ti dovesse rendere felice, io l'accetterei volentieri.

Sorrido, tra me e me, da solo, mentre aspetto sotto la pioggia che batte sulla tettoia, sorrido e sento la tensione che si scioglie dalle spalle, il cuore che batte più forte, la gioia che mi si espande dentro.

Mi piace, amare.

Sì, mi piace tanto.

Sono così contento, che tu mi abbia concesso di scoprire com'è.

Non mi giro subito, quando sento i passi avvicinarsi a me uno dietro l'altro, sto giusto un secondo fermo a godermi la sensazione. Quando poi il rumore delle suole sull'asfalto bagnato si fa più forte e s'interrompe accanto a me, allora prendo fiato con calma, e mi giro.

– Wakatoshi? –

– Ciao, Satori. –

È sempre più bello. Obiettivamente è meno curato, ora, ha i capelli arruffati e gli occhi gonfi e le unghie mangiate quasi fino all'osso, la punta del naso è rossa, intirizzita dal freddo, qualcosa nel suo viso pare più scavato. Però è sempre più bello, sempre, sempre più bello.

Il suono della sua voce mi calma una sete che non credevo di provare, il fatto che sia qui, corporeo, vivo di fronte a me rilassa un'ansia di cui neppure sapevo il nome, guardarlo, sentirlo, rendermi conto che c'è, conferma ogni mia aspettativa.

Sì, ne vali la pena.

E ne vali la pena di tutto.

Io sto così bene, quando ci sei anche tu.

È fermo, rigido, non sembra sapere cosa fare, io vorrei dire tutto e non riesco a dire niente e allora respiro, e cerco di andare con ordine.

La prima cosa che faccio è togliermi la giacca del completo.

Ha solo la felpa.

Oggi fa freddo.

Quando mi avvicino lui mi fissa e non so cosa intenda nel modo in cui mi fissa ma non mi blocca, e allora gliela appoggio sulle spalle, poi torno un passo indietro, per mantenere una distanza che non so se vuole, ma credo di dovergli concedere.

Quando torno col volto sul suo mi rendo conto che ha gli occhi lucidi.

Tento di prendere fiato per parlare, ma mi precede.

– Tu sai tutto, vero, Wakatoshi? –

Annuisco.

– Tutto no, ma gran parte sì. –

– Sai per quale motivo mi sono avvicinato a te, no? –

– Lo so, Satori. –

Ha ancora gli orecchini addosso.

Gli stanno bene.

Dovessi averne l'occasione vorrei potergliene regalare altri.

– Mi odi, Wakatoshi? Sei qui per dirmi che mi odi? Per uccidermi? –

– No. Nessuna delle tre cose, no. –

– E allora cosa sei qui a fare? –

– A pagare le conseguenze che ho detto che avrei pagato. –

Piange.

No, non piangere.

Non piangere, non sono qui per farti piangere, sono qui per dirti che hai vinto e che io desidero che tu sia felice.

Sono qui per fare quanto in mio potere per darti quello che vuoi.

Sono qui... per te.

– Io mi sono innamorato di te, Satori. Sono qui per dirti questo. – dichiaro, nell'aria vuota di un posto dove non c'è nessuno tranne lui, scandendo bene le parole, cercando di fargli capire cosa sto dicendo.

– Lo so che non si dovrebbe dire così presto, però da quanto ho capito in realtà si può fare un po' quando ti pare, quindi ecco, io lo sto facendo adesso. –

– Wakatoshi, ma cosa stai dice... –

– Che sono innamorato di te, questo sto dicendo. –

Satori piange più forte, ansima un po'.

– Non so che strano scherzo sia ma ti prego, ti prego, non farmi questo, so che quel che ho fatto è stato orribile ma non farmi... –

– No, non è uno scherzo. Ho anche le prove. Aspetta un secondo. –

Mentre singhiozza tiro fuori il fogliettino accartocciato che ho nella tasca.

Ieri ci ho pianto sopra, è un po' rovinato, ma si legge.

– Sei innamorato di qualcuno se pensi costantemente alla persona che ti piace, se provi ansia quando quella persona non c'è o è irraggiungibile, se vorresti passare tutto il tempo che puoi con lei e se i tuoi stati d'animo sono influenzati da quelli della suddetta persona. Sei innamorato se dedichi gran parte del tuo tempo a pensarla, se il mondo ti sembra più bello in sua compagnia e se anche il minimo gesto fatto assieme diventa nella tua memoria un'esperienza che vorresti non dimenticare mai. – recito ad alta voce, scorrendo la mia lista.

La giro verso di lui per fargliela vedere.

– Per me vale tutto. Sono innamorato di te, Satori, è un dato di fatto. –

Rimetto il foglietto a posto.

– Non sono molto pratico con l'essere innamorato, è la prima volta che mi capita, ma ho letto su internet che le persone innamorate vogliono sempre il meglio per la persona che amano e mi ci sono trovato d'accordo, è così, io voglio il meglio per te. Voglio che tu sia felice. –

Incastro la mano contro la pistola sul retro dei pantaloni.

Non la prendo dal calcio ma dalla canna, la tiro fuori porgendogliela, con un gesto delle dita lascio scattare la sicura, allungo il braccio, il proiettile rivolto verso di me, in attesa che la afferri e la usi.

– Se la tua famiglia non ti rivorrà indietro finché non mi avrai ucciso, Satori, uccidimi. Se tornare a casa tua è quello che ti renderà felice, a me va bene. Sul mio testamento c'è scritto che ti lascio tutto, riavrete indietro quel che mio padre vi ha preso trent'anni fa. Fa' quel che vuoi di qualsiasi cosa io abbia. –

Deglutisco la saliva.

– Ho parlato con una persona oggi che dice che in realtà tu non vuoi più uccidermi e che io ti piaccio sul serio, però vorrei che sapessi che a me non cambia niente, se mi hai solo usato. Io mi sono innamorato di te per tutte le cose che mi hai detto e per il modo in cui ti sei comportato, che tu l'abbia fatto onestamente o meno, questo non cambierà. Non ce l'avrò con te se sceglierai di ammazzarmi. Fai solo quello che senti di fare. –

Mi specchio nei suoi occhi, guardarlo mi fa sorridere di un'euforia che non conosco al di fuori di lui.

– Mi hai reso felice, mi rendi felice. Voglio restituirti il favore. Non c'è bisogno che te ne vai perché hai paura di aver fatto casino o che io voglia ammazzarti, forse non te ne sei reso conto, ma te lo posso direi io, se l'obiettivo era infiltrarti da noi per manipolare me, hai fatto un ottimo, ottimo lavoro. Sei stato bravo. Hai vinto. Uccidimi, Satori, hai vinto. –

La pioggia continua a ticchettare, il rumore sommesso dei suoi singhiozzi tinge l'ambiente vuoto, ma oltre la mia voce, non s'intende nulla.

– Ho pensato che magari tu credi di fare un atto di pietà nei miei confronti, andandotene e lasciandomi in vita. Magari non mi odi tanto e non te la senti di uccidermi. No, Satori. Preferisco che mi uccidi. Lo preferisco perché ti renderà felice, ed egoisticamente perché è... meglio di stare da solo. Ti prego uccidimi, se devi lasciarmi da solo. –

Piano, come se il suo corpo fosse rallentato, fra le lacrime alza la mano, e stringe le dita sul calcio della pistola.

– Ti amo, ok? Ti amo. Va tutto bene. –

Lascio che il mio braccio cada e rimango lì fermo, con un'arma puntata addosso, senza che nemmeno la minima traccia di timore si faccia strada dentro di me.

– Ti ringrazio per avermi insegnato cosa si prova. Ti ringrazio per aver speso il tuo tempo con me. Amarti è stato meraviglioso. –

Chino il capo in un gesto di saluto, il mio viso sorride.

– Sii felice. Io lo sono. –

Non guardo la pistola, io guardo lui.

Guardo il suo viso, il modo in cui si piega e si muove, in cui si disegna, in cui mi s'imprime nella memoria.

Sei il primo cambiamento che non mi spaventa.

Sono sicuro che sia perché sei giusto.

Le cose giuste non mi fanno sentire a disagio.

Tu, non mi ci hai mai fatto sentire.

Istintivamente trattengo il fiato, nell'attesa dei pochi secondi che precedono la mia fine, ma non mi ritraggo né mi sposto, solo sto lì, sotto la pensilina di una fermata del bus che non conosco, in un angolo di mondo che non mi appartiene, consapevole che ora, qui, lontano da tutto, io so di essere a casa.

Satori mi guarda.

La sua mano trema attorno alla pistola.

E quando io sorrido lui si muove, e chiudo gli occhi sapendo che se prima di lasciare questo mondo dovessi cadere a terra mi ritroverei a guardare qualcosa che non è lui, cosa che non voglio fare.

Il rumore è diverso da quello che mi aspettavo.

Non sembra uno sparo.

Sembra metallo che cade a terra.

Non sento niente, non sento il dolore, ma suppongo che sia l'adrenalina, suppongo che arriverà.

Invece arriva qualcos'altro.

Arriva...

– Posso toccarti? –

Apro gli occhi.

La pistola è a terra.

Il mio corpo era com'era prima, intatto, integro, sano.

Satori trema.

Annuisco.

– Sì, certo che puoi toccarmi. –

Si aggrappa a me con una disperazione che finora avevo visto soltanto su me stesso. Si getta contro di me nel tentativo di non cadere a terra, stringe forte i pugni sul tessuto della mia camicia, mi tira e mi trascina non usando la delicatezza a cui sono abituato, ma un'urgenza che pare costringerlo alla fretta.

Non capisco cosa stia succedendo, non ho il tempo di pensarci, ma mi fido di lui più di me stesso, e allora non mi oppongo.

Sale, le dita lunghe e affusolate, fin sul colletto che mi stringe il collo, si tira su, stirando le caviglie sottili, piange, cerca i miei occhi, schianta me su di sé e avvolge le mie spalle con le braccia.

Sa di sale.

Di sale e delle bevande energetiche che alla fine mi sono dimenticato di dirgli che non dovrebbe bere.

Sa di lui, sa di noi, sa di ogni singola emozione io abbia provato grazie alla sua presenza, sa della calma di non essermi mai sentito fuori posto, della gioia di essergli normale dentro agli occhi, della compagnia di non avere nemmeno idea di cosa significhi essere soli.

Oh, quanto profondamente sono capace di amare.

Quanto profondamente tu mi porti ad amarti.

Quanto mi dici di me stesso tu, che non sei me, ma lo sei anche completamente, avendo vinto di me ogni pensiero, ogni parola, ogni centimetro di corpo che possiedo.

Mi bacia come se non potesse fare altro.

Mi stringe il collo e il viso, si fa stringere da me, mi si avvicina tanto che mi sorge spontaneo il dubbio irrealistico di non potermene mai più separare, mi cura dal male che ho provato, mi fa battere forte il cuore.

Si stacca per prendere fiato, ha le parole spezzate fra le labbra, singhiozzate.

– Wakatoshi io, io, io non... io... –

Lo stringo forte a me.

– Va tutto bene. Va tutto bene, Satori. –

– Non va tutto bene, io dovrei... e tu vorresti... e io... –

– Va tutto bene. Qualsiasi cosa sceglierai di fare, andrà sempre tutto bene. –

Lo separo per guardarlo meglio, spazzo via con le dita le lacrime dal suo volto, sorrido, quando mi ritrovo la mano impegnata nel percorrere la linea dei suoi nei, non è più qualcosa che mi toglie il fastidio, è qualcosa che mi genera armonia.

– Io non voglio ucciderti, Wakatoshi, non voglio, non voglio. Lei voleva, io no, te lo giuro, io no. Prima era diverso, quando non sapevo chi fossi, ma ora... ora... –

Singhiozza forte, la sua gola si stringe e si riapre, inspiro il suo profumo, quasi bruciano i miei polmoni della gioia di sentirlo ancora.

– Credevo che tornare a casa mi avrebbe dato un posto, che se ti avessi ucciso, avrei avuto un posto con loro. Ma poi ti ho conosciuto e non lo voglio più quel posto ma ora non so più che fare e se solo non avessero scoperto chi ero allora avrei trovato un modo di gestire la situazione e avrei cambiato idea ma è successo tutto così in fretta che... –

Singhiozza di nuovo.

– Io volevo solo un posto nel mondo, giuro che non volevo altro, non volevo tradirti, non volevo... –

– Va tutto bene. – ripeto.

– Non ti avrei mai fatto del male, non dopo averti conosciuto, mai, Wakatoshi, mai, mai... –

Si strofina forte gli occhi con le mani, poi torna più vigile, mi riprende il colletto della camicia, mi bacia di nuovo, si stacca per guardarmi in volto.

– Tu dovresti lasciarmi andare via, Wakatoshi. Dovresti volermi lontano da te. Dovresti volermi morto. –

– No, non dovrei. Io dovrei stare qui. Con la persona che amo. –

– Dovresti abbandonarmi e dimenticarti che io sia mai esistito. –

– Mi terrorizza più quello dell'idea di morire qui ed ora. –

– Ti meriti molto di meglio di... me. –

– Mi merito chi amo, e io amo te. –

Si stringe forte una guancia fra i denti, piange meno copiosamente ma le lacrime continuano a scintillargli fra le ciglia come brina che cristallizza sui petali dei fiori.

– Se ti dicessi che non ti amo, mi lasceresti perdere, Wakatoshi? –

– No. –

– Se ti dicessi che ti odio? –

– Neppure in quel caso. –

– Se ti dicessi che forse un giorno potrei... che ne so, cambiare idea e decidere che voglio di nuovo ammazzarti, che potrei ucciderti nel sonno, o torturarti o... –

– No, Satori, no. No. Non lo farei. –

Il pianto gli riga il volto, ma luccica, brilla, di lui trovo incantevole anche questo.

– Perché parli come se non credessi al fatto che io ti amo? –

– Perché non ha senso, Wakatoshi. –

– E invece ce l'ha. –

Mi ritrovo ad accarezzargli i capelli, sono umidi della pioggia ma sono morbidi come lo erano una settimana fa, sparsi sul materasso del mio letto, sotto di lui che mi guardava.

– Tu mi chiedi se puoi fare le cose. Aspetti i miei tempi. Mi fai toccare i tuoi nei. Tu ridi quando provo a fare le battute e sorridi quando lo faccio io, ti piacciono i miei regali, arrossisci quando ti faccio un complimento, strizzi il naso ogni tanto ed è una cosa carina, mi fai sentire a mio agio, mi fai sentire normale. Mi fai sentire bene, e io ti amo, perché ad amarti mi sento bene. –

– Lo sai che se sono così con te è perché ti ho studiato per mesi, Wakatoshi, lo sai che è tutto fatto apposta perché... –

– Perché tu mi piaccia, sì, lo so. Funziona. Mi piaci. –

Alzo i bordi delle labbra.

– Come tu abbia imparato non m'interessa, che tu lo faccia, è il punto. E tu l'hai fatto. E io mi sono innamorato. Quindi ora ti amo e non possiamo farci niente. –

Gli bacio la fronte, che è vicina a me, che non so perché del suo viso ancora non avessi baciato.

– Dunque ora la scelta è tua. Se ti rendi conto di volere quel posto del mondo con la tua famiglia, sei libero di uccidermi. Se quel posto del mondo, per un qualche motivo, tu lo volessi con me, allora... –

– Tu davvero mi stai dicendo che nonostante tutto, nonostante le bugie, nonostante il tradimento, nonostante... –

Annuisco.

– Certo, certo che sì. Ci sarà sempre posto per te, con me. Anche se non mi ami. Anche se mi odi. Anche se un giorno dovessi cambiare idea e decidere di uccidermi. –

Spalanca gli occhi.

Per giusto qualche istante il torrente di lacrime si arresta.

– Allora, Satori, che cos'è, che vuoi fare, ora, di me? –

Mi guarda per un attimo che sembra durare ore.

Le sue pupille si allacciano alle mie, il labbro inferiore trema, le mani si stringono fra di loro. Ha la mia giacca ma ha ancora freddo, non vorrei che avesse freddo, fa freddo e non gli fa bene e...

Mi salta addosso.

Letteralmente.

Braccia dietro le spalle, gambe attorno alla vita, per la primissima volta si dimentica di chiedere e mi salta addosso.

Nasconde la faccia contro l'incavo del mio collo, piange più forte di prima, ancora più forte, mentre si fa stringere e tenere su come un bambino.

– Perdonami, perdonami se me ne sono andato, se ti ho seguito due mesi fa, se sono stato uno stronzo, Wakatoshi perdonami, ti prego, perdonami. –

Gli accarezzo la schiena con calma.

– Ti perdono, ti ho già perdonato. –

– Perdonami se ti ho mentito, però giuro che non ho mentito sempre, non mentivo quando ho detto che mi piaci, non mi sono comportato così solo per manipolarti, io ero onesto, ogni tanto, ero onesto e quando ti ho baciato ero onesto e anche quando ti ho detto che non mi era mai piaciuto nessuno così tanto e perdonami se qualche volta ho mentito ma solo quelle volte che l'ho fatto, perdonami, per... –

– Ti perdono, ti perdono tutto, va tutto bene. –

– Promettimi che c'è, quel posto per me assieme a te, Wakatoshi. –

– Te lo prometto, c'è. –

– Promettimi che mi ami, ti prego, ti prego, promettimi che... –

– Te lo prometto. –

– E che non mi abbandoni. Che non mi odi, che è vero che a te non importa, che mi vuoi lo stesso, che... che anche se ho sbagliato, anche se... –

– Te lo prometto, Satori, io te lo prometto. –

Respira forte contro di me perché credo gli manchi l'aria, trema e io continuo a passare la mano contro i muscoli che si contraggono per permettergli di piangere, ho il colletto della camicia fradicio, ma non m'importa.

– Volevo soltanto che tutto rimanesse com'era, dimmi che tutto può tornare com'era, ero felice, ero tanto felice con te, quello non era una bugia, io voglio solo tornare com'era prima, voglio... –

– Possiamo tornare a com'era prima, Satori, sì. –

– Voglio lavorare, e voglio che andiamo fuori a prendere il caffè e mi dici che non devo bere la Monster e voglio che mi dici che sono vestito bene e che mi tocchi i nei e che mi... mi... e che mi ami perché di me non importa a nessuno, neanche alla mamma, lei mi mente e mi dice che devo ucciderti ma io non posso perché tu sei l'unico, l'unico a cui importi e l'unico che mi fa sentire bene e l'unico che mi tratta come una persona e l'unico che... –

Interrompe le sue parole in un singhiozzo, incastro le dita sulla sua nuca e percorro coi polpastrelli il principio della sua spina dorsale.

Respiro con calma, contro al suo corpo, nel tentativo di far sentire lui più tranquillo, più a suo agio.

Piange e non riesce più a parlare, per qualche istante.

Tento di rassicurarlo.

Lo bacio fra i capelli.

Gli dico...

– Ti amo, Satori. –

E lui per un attimo prova a parlare e si capisce poco ma ci riprova, e articola le parole troppo vicine, troppo appiccicate, ma lo ascolto comunque.

– Anche io ti amo, perché sei bravo con me e sei buono e sei bello, perché mi vuoi bene, perché ci tieni, perché non mi dai per scontato, perché non t'importa se ho fatto la puttana o se uccido la gente e non t'importa di avere niente in cambio da me e mi ami e basta e io non lo so com'è essere amati e basta ma so che è bello, se lo fai tu è bello, e allora ti prego, ti imploro continua a farlo, continua a farlo. –

– Continuerò a farlo. –

Piega la testa in alto, l'angolazione è un po' strana, baciarlo non è comodo com'è di solito, ma è piacevole lo stesso.

Sa di nuovo di sale.

Di nuovo della bevanda energetica che non dovrebbe bere.

Nell'impeto delle cose ci penso, a cosa mi è stato detto in merito alla questione, però me lo dimentico e mi sento... felice, suppongo tanto felice che forse non dovrei ma... non lo so, sono confuso, non ci sto capendo molto, credo di aver bisogno di un attimo, ma...

– Ci vieni a vivere con me, Satori? Ci vieni? –

– Sì che ci vengo. Sì, sì, ci vengo, sì, sì, cazzo sì. –

– Ci vieni ora? –

– Ci vengo ora, Wakatoshi, ora adesso, subito. –

– Possiamo... possiamo rimanere assieme, a casa? Stai con me un po', solo oggi. Ieri... ieri ho pianto e mi sei mancato e mi ha anche fatto male stare da solo quindi puoi rimanere un po' con... –

– Sì, sì, sì. Ora e dopo, e domani e dopodomani e tutti i giorni, tutti i cazzo di giorni. –

– Ok, tutti i cazzo di giorni va bene. –

Singhiozza, nel singhiozzo ride, non so perché rida, ma rido un po' anch'io.

Lo stringo forte.

Sono onesto, nel dire che morire per te non mi sarebbe pesato.

Sono onesto nel dire che sarei morto contento se l'avessi fatto sapendo di poterti rendere felice.

Però un po', questo, mi piace di più.

Non tanto perché sono vivo, ovviamente di quello sono grato, ma non è ciò che mi colpisce.

È perché mi ami anche tu.

E me l'hai detto.

E anche se non dovrei fidarmi, io mi fido, e amare è bello ma anche essere amati, lo è.

E se poi un giorno dovesse smettere?

Se poi un giorno dovesse uccidermi per davvero?

Se...

Me ne preoccuperò allora.

Al momento sono felice.

E che sia un minuto, un'ora, una vita o un secondo, sono felice lo stesso, e controllare le cose, quando si tratta di te, non m'interessa.

Sarò felice comunque.

Ti amerò comunque.

Come dici tu...

"Tutti i cazzo di giorni".

Le due settimane successive, le passo a riassorbire il disordine che mi si era aperto in testa. Poco a poco, rimettendo a posto ogni cosa, ricomincio a sentirmi me stesso e ricomincio ad adagiarmi nella mia felicità, tornando alla mia routine, modificandola dove necessario, aprendo le porte di casa mia e chiudendo quelle della preoccupazione, ottenendo quel che desideravo, concedendo quel che mi è richiesto.

Arrivare a lavoro non è più una sofferenza, riesco a rifare anche quello.

Satori mi stringe la mattina, non se ne va, e quando arrivo a lavoro se è uscito prima, effettivamente m'aspetta seduto sulla mia scrivania, e non scompare.

Mi stringe tre volte la mano prima di addormentarsi, tre volte appena mi sveglio, il petto ha smesso di far male, il cuore di essere spezzato, le lacrime di cadermi dal volto.

Vederlo felice è una benedizione ogni giorno.

Sentirlo parlare di quel che è successo, un rischiararsi delle nuvole ad ogni parola.

Averlo, guardarlo ed amarlo, la sensazione più placida che abbia mai provato.

Ha scelto anche lui.

Ha scelto me.

Ogni giorno rifà quella scelta, e rendermene conto, è l'appagamento di ogni mio desiderio.

Semi e Goshiki hanno tradotto il loro odio in comprensione piuttosto facilmente, sono sempre stati entrambi piuttosto empatici, è qualcosa che mi aspettavo. Shirabu non è come loro, ed è sempre rigido, sempre all'erta, ma se non comprendevo prima comprendo adesso, e rispetto la sua fatica, rispetto la sua necessità di tempo.

Satori gli ha chiesto scusa.

Non credevo l'avrebbe fatto, ma gli ha chiesto scusa.

Sono stato fiero di lui, per aver chiesto scusa, e fiero di Shirabu per non averlo rifiutato, nonostante la diffidenza, nonostante il timore.

Ha portato le sue cose a casa mia.

Giusto un paio di giorni, di vestiti non ne ha poi tanti, le lettere che teneva tutte ammassate in un vecchio scatolone sono finite in un barile pieno di benzina e fiammiferi accesi, i DVD piratati dei documentari ora sono perfettamente impilati in una chiavetta attaccata alla mia televisione.

Mi piace, guardare i documentari con lui.

Mi piace come la luce dello schermo gli si rifletta in viso, come gli brillino gli occhi, mi piace quando ferma il video per scaricarmi addosso tutte le informazioni che in quello specifico lasso di tempo non hanno detto, mi piace come si spenga piano abbracciato dal sonno con la testa sulla mia spalla e le mani incastrate fra le mie.

Mi piace il sesso, quello emotivo e disperato di quando siamo rientrati a casa fradici di pioggia e distanti dal resto del mondo, quello pigro e lascivo della mattina presto, quello concitato di quando ha appena ucciso, quello sfrenato di quando non riesco a trattenere gli istinti e lui non mi chiede di farlo.

Mi piace l'amore, darlo e riceverlo, perché è come una coperta della misura giusta per dormirci sotto, è morbido, mi avvolge e mi fa sentire al caldo.

Mi piace che mi racconti le cose, cose che prima non poteva dirmi, cose che, mi ha sussurrato una notte prima di addormentarci, ora che me le dice gli sembrano meno importanti, meno dolorose.

Mi ha detto che sua madre non l'ha mai amato e che lo vedeva come un'arma, e che nonostante lo sapesse da tempo, prima di capire quanto intenso fosse essere veramente amato da me, non riusciva a imporselo.

Mi ha detto che se l'avesse amato, l'avrebbe lasciato andare amandolo, come ho cercato di fare io, invece d'insistere che mi uccidesse, perché a lei l'aveva detto, che non voleva farmi del male, che gli piaceva stare con me, che forse questa vita doveva condurla come io gli avevo concesso di farlo.

Mi ha detto che più di mentire a me, nei due mesi che siamo stati assieme prima che sapessi chi fosse davvero, lui aveva mentito a se stesso, cercando di dimenticare la sua missione e quello che avrebbe dovuto farmi, cercando di godersi le mie attenzioni senza sensi di colpa.

Qualche giorno fa mi ha detto dei nomi.

Mi ha detto dei luoghi.

Mi ha detto degli eventi.

E ora è qui in piedi, con la schiena appoggiata al muro grezzo del solito magazzino semi-nascosto, una sigaretta fra le labbra, i capelli scarlatti attorno al viso, che guarda quei nomi, quei luoghi, quegli eventi, portati a lui in ginocchio e con i polsi legati, in ginocchio in attesa che lui faccia di loro, come di me, quel che meglio crede.

Ha un vestito corto, nero e aderente, che evidenzia la sua pancia piatta, la vita stretta. Porta una delle mie camicie aperta sulle braccia, i collant, gli anfibi alti alti della prima volta che ci siamo baciati, gli orecchini di corallo, una collana stretta sempre di corallo che gli ho comprato stamattina, le righe sugli occhi, che ancora non so come si chiamino.

Si gira verso di me e sorride, poi torna alla pletora di esseri prostrati, spegne il mozzicone contro il muro, lascia cadere il filtro per terra, si spinge in alto per raggiungermi.

– Posso baciarti, 'Toshi? –

– Sì, certo. –

Chino un po' la testa io, si alza un po' sulle punte lui, labbra contro labbra in un gesto così frequente da essermi dolcemente familiare.

– Sono troppi. Dodici nomi, queste persone sono tredici. –

– Il tredicesimo l'ho scelto io. –

– Chi è? –

– Guardalo tu, chi è. È quello al fondo con le mutande a righe. –

Indico con lo sguardo un ragazzo piegato in due che tiene il mento chino, provo astio nei suoi confronti, ma non spreco parole ad esprimerlo.

Satori segue la linea dei miei occhi e piega la testa per ragionarci su.

Quando quello alza il capo, lo riconosce.

Tira l'aria dentro le labbra in un gesto, immagino, di stupore.

– 'Toshi, hai fatto rapire il mio ex? Sul serio? –

– Te l'ho detto che mi metteva a disagio l'idea che ci fosse qualcuno al mondo che ti spaventasse. Tanto che c'ero, ho pensato di includere anche lui. –

– Dio, questo è il giorno più divertente della mia vita. –

Ridacchia, poi chiama un nome che non conosco, suppongo il suo.

– Guarda tu che culo che hai avuto oggi, il karma arriva per tutti, stronzo, mi sa che è arrivato anche per te. – gli dice, la voce piegata in un'intonazione di scherno.

Quello non risponde.

Satori procede a prescindere.

– Te l'avevo detto io che l'avrei trovato, il fidanzato. E tu che mi dicevi "no, Satori, ma figurati, nessuno vuole una puttana come te" e invece qualcuno vuole una puttana come me e sorpresa sorpresa, mi vuole proprio la persona giusta. Com'è, sapere che creperai e lo farai pure avendo torto? –

Nessuna risposta.

– Brutto eh? Sì, non dev'essere carino. Però dai, sei in buona compagnia, qui è pieno di gente che creperà avendo avuto torto su di me. Ora ti presento i tuoi amici. Allora, quella lì è... – indica una signora coi capelli scuri che piange – la mia mamma, quello vicino a lei... – indica l'uomo anziano che le sta accanto – il mio dolce nonnino. E poi ci sono dei cugini vari, e qualche zio, e forse mio padre? Non lo so, non mi ricordo com'è fatto. Papà, se ci sei batti un colpo. –

Nessuno batte un colpo.

Immagino che non ci sia.

– Satori, se vuoi che vada a cercare anche lui mando subito qualcuno. – mi sento d'intervenire, dunque, nel caso per lui fosse un problema.

– Naah, decidiamo dopo, noi che ce l'abbiamo, un "dopo". – mi risponde, sorridendo.

Sorrido anch'io, annuisco.

Satori si stacca da me e procede verso le persone legate, ha le fondine sulle cosce, ora, al posto dei foderi, gliele ho comprate, gli sono piaciute.

Camminando quasi inciampa su una persona che si era un po' spostata, letale e veloce come una serpe Satori solo tira fuori la pistola, gli spara un colpo in mezzo alla fronte, lo calcia indietro quando cade in avanti morto.

Lo supera e si avvicina prima verso il suo ex, poi forse cambia idea, va verso sua madre.

– Ciao, mamma, come stai? Stai passando una buona giornata, oggi? –

– Satori, io lo so che in fondo sei un bravo ragazzo, non so perché tu stia... –

– Oh, vecchia, io non sono un ragazzo, e di sicuro non sono bravo. Pessimo tentativo di convincermi, pessimo. –

La signora ammutolisce.

Da qui non la vedo bene.

Non so che espressione faccia.

– Comunque sono venuto qui oggi per dirti che ecco... mi sa che no, alla fine non credo di volerci rientrare nella famiglia. Lo so che la prenderai male ma non dispiacerti, alla fine è andata bene così, mi sono sistemato. Ti prego, non farmene una colpa. –

Le strofina la pistola contro il viso, sembra voglia accarezzarla, forse.

– Te lo ricordi Ushijima? Dai che te lo ricordi. Mi scrivevi sempre che "non puoi capire quanto sono cattivi, gli Ushijima, tu davvero non puoi capire, oh Satori uccidili tutti per me e poi potrai tornare a casa". Beh, è vero, sono un po' cattivi. Però sono belli. E sono anche bravi. –

Bello e bravo mi fa piacere.

Cattivo non lo so.

Dovrò chiedergli delucidazioni.

– Eh, come dire, mamma, mi sa che ho fatto un po' un pasticcio. Dovevo ammazzarlo, ora ci sto assieme, non so nemmeno io tanto bene com'è successo ma è andata così e non ci posso fare niente. Quindi purtroppo ora ho dovuto convocare questa riunione di famiglia che finirà in tragedia perché mi sono confuso coi tuoi ordini e vado a letto con la persona che dovevo ammazzare. Che dire? Sono cose che capitano. –

Si gira verso di me.

– Sono cose che capitano, 'Toshi? –

– A me non è mai capitato. –

– Ok, sono cose che capitano ma non a 'Toshi. A qualcuno sarà pur capitato. –

Torna dov'era.

Si tira su per bene e li guarda tutti, uno ad uno.

– Ora faremo un bel giochino, sì, tutti insieme, proprio come una bella famiglia felice. –

Indietreggia, fissa la scena come se fosse un quadretto.

– Uno ad uno implorate pietà chiedendo scusa a me e soprattutto a Wakatoshi che è dovuto venire a recuperare il mio culo idiota sotto la pioggia per colpa vostra, oppure metto via la pistola, tiro fuori il coltello e vediamo quante delle vostre falangi riesco a farvi ingoiare prima di tagliarvi la testa. Che dite, volete fare questo bel giochino con me? –

– Satori, non ho bisogno di scuse, lo sai che l'ho fatto con piacere. – commento.

Lui scuote la testa.

– No, no, non scherzare. Colpa mia che sono cretino che tu sia dovuto venire, ma anche colpa loro, serve loro anche la tua pietà. –

– Sarei venuto anche se oggi non dovessero darmela. –

– Lo so, questo è il motivo per cui ti amo, ma a prescindere, a Cesare quel che è di Cesare. –

Si sposta, Satori, verso il suo ex e non cambia direzione, questa volta, va dritto da lui.

– Tu, che magari tanto che ci siamo impari anche qualcosa prima di andare all'inferno, lo senti, Wakatoshi? Così si trattano le persone con cui stai, non insultandole sempre e mettendogli le mani addosso. Se fossi stato un gentiluomo come lui, e non un pezzente lurido verme di merda, ora non saresti qui. Pensaci, mentre vai dall'altra parte. –

– Grazie, Satori, sono contento che pensi che io sia un gentiluomo. –

Lo vedo sorridere contro alla persona che ha di fronte, tira via un versetto sottile dalla gola.

– Lo vedi com'è carino? È adorabile. Così adorabile che ora è in piedi laggiù e tu sei qui in ginocchio e in mutande. Ed eppure sarebbe stato così facile, evitarlo. –

Fa "sì" con la testa, si batte le ginocchia, poi sospira e si mette in piedi, gli spara in testa mentre si gira verso di me.

Io inarco le sopracciglia.

– E la pietà? Non doveva implorare pietà? –

– No, lui no, non ci faccio niente con la sua pietà. –

– Oh, ho capito. –

Rimane là, col cadavere per terra e la pistola in mano, un pensiero gli passa per la testa e qui è talmente tutto sotto il suo controllo, il suo, non il mio, che a quanto pare esprimerlo adesso non gli sembra fuori contesto.

– 'Toshi senti, stavo pensando una cosa, ieri sera. Se prendessimo un cane? Mi ha detto Goshiki che aiutano molto le persone autistiche a gestire le deviazioni dalla routine, tipo un'ancora emotiva, non so se mi spiego. Magari ti aiutano con l'ansia dei piani che cambiano all'ultimo. Lo so che sei abituato ma perché non provarci? –

Aggrotto le sopracciglia.

– Tu credi che io... sia autistico? –

– Oddio, amore, non sono proprio un neuropsichiatra, però mi sembra abbastanza plausibile, no? –

Annuisco.

– Non ci avevo mai pensato. – gli rispondo.

Mi sorride.

Gli sorrido anch'io.

– Comunque potremmo farlo, se ti va. Però non un cane piccolo. Non mi piacciono i cani piccoli. –

– Tipo un cane da pastore andrebbe bene? Che dici? –

– Un Labrador, vorrei un Labrador. Quando ero piccolo i vicini ne avevano uno e mi era molto simpatico. –

Satori lascia un attimo perdere qualsiasi cosa abbia attorno, rimette la pistola nella fondina e torna verso di me.

– E come lo chiamiamo? –

– Non lo so. Tu hai idee? –

– Boh, come qualcosa che ti piaccia, credo. Tipo un personaggio di un libro che hai letto e che ti è piaciuto. –

Ci penso su un attimo.

– Tokugawa Ieyasu, come il primo shogun del periodo Edo e il vincitore delle guerre civili di Sengoku. Come il fondatore di Tokyo. –

– Così, con nome e cognome? Non ti sembra un po' lungo? –

– No, a me sembra che vada bene. –

– Oh, ok, va bene, vada per il cane shogun del periodo Edo che vince le guerre civili e fonda città, allora. –

Si sporge dalla mia parte e mi stampa un bacetto sulle labbra.

– Allora prima finisco di trucidare la mia famiglia e poi andiamo su internet e cerchiamo il cane shogun, ok? –

– Ok. –

– Ti amo, 'Toshi. –

– Ti amo anch'io, Satori. –

Sorride.

Sorrido anch'io.

Torna dov'era e io lo guardo di spalle.

Ho chiesto a Oikawa dopo quanto tempo si può chiedere al tuo partner di sposarti. Mi ha detto che ci vuole almeno un anno, e allora io ci ho pensato e ho detto che se i tre mesi della convivenza sono stati cinque giorni, allora quell'anno magari avrei potuto convertirlo in metà.

Lui mi ha risposto che allora che cazzo glielo chiedevo a fare, se tanto avrei fatto di testa mia?

Gli ho dato ragione.

In effetti, non è che avesse torto.

Allora poi sono andato a comprare un anello di corallo, che avesse un diamante, perché il diamante serve, ma anche il corallo, perché il corallo mi piace, e l'ho fatto mettere in una scatolina e quella scatolina è nella tasca della mia giacca e ho deciso che lo farò stasera a cena, ma conoscendomi potrei anche farlo qui, o prima di andare a dormire, o in macchina, perché qualche volta non so cosa dire e allora dico la prima cosa che mi viene in mente.

Non ho nemmeno l'ansia che tu mi dica di no.

Magari mi dirai di no.

Non ti amerò di meno perché mi dirai di no.

Sarò felice di quanto mi ami se mi dirai di sì, ma sarò felice di amarti anche se mi dirai di no.

Forse ha ragione, Iwaizumi, quando mi dice che amo in un modo un po' strano, perché di tutto quello che do non m'interessa quanto ricevo indietro, però è il mio, è come me, è un po' fuori dal comune.

Non vorrei che fosse diverso.

Non vorrei che cambiasse.

Non vorrei amarti diversamente.

Se ti amassi diversamente saremmo diversi io e te, e diverso non vorrei essere e non vorrei che lo fossi tu, perché alla fine ci siamo normali a vicenda, e credo che funzioni bene così.

Magari sto sbagliando tutto.

Magari ho di nuovo completamente sbagliato a interpretare la situazione.

Magari vaneggio.

Che m'importa, lo so che sto prendendo questo rischio, ne sono consapevole, ragionarci oltre è inutile.

Finché non mi sveglierò col coltello piantato nel cuore, il problema non sarà di mio interesse.

E comunque anche allora, dovesse succedere, l'unica vera questione che mi pongo è se riuscirò ad avere le forze di aprire gli occhi, di guardarti, di dirti che va tutto bene, di vederti là con me, di respirare il tuo profumo, di dirti che ti amo.

Che morire non m'interessa.

M'interessa solo che, quando succederà, tu sappia quanto ti amo, quanto ti ho amato, quanto ti amerò, sia tu là per pugnalarmi o per starmi vicino.

Il mio vecchio amico mi ha definito un "folle che non ha a cuore la vita".

Non lo so se sono folle.

Non credo di non avere a cuore la vita.

So soltanto che ho più a cuore te.

Di tutto, io ho più a cuore te.

─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.──

STRANO MA VERO I MADE IT ce l'ho fatta un capitolo al giorno mi sento un dragone okokokok

la storia principale è finita sisi spero vi sia piaciuta !!

domani dovrebbe uscire un capitolino specialino tipo side story perché mi chiedete una shirasemi da un anno? due anni? e allora ho detto TANTO CHE CI SONO PROVO A SCRIVERE UNA SIDE STORY QUI però non l'ho ancora finita quindi vi avverto che l'uscita potrebbe slittare o al 25 o al 26 (ma sono fiduciosa per domani) quindi ecco i ringraziamenti ve li sparo quando concludo il tutto però niente the main story ends here n i really hope u liked it

devo uscire quindi scappo

un bacione

ditemi qualcosa

mel :D

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