𝚖𝚒 𝚛𝚒𝚌𝚘𝚛𝚍𝚊 𝚍𝚘𝚟𝚎 𝚜𝚘𝚗𝚘

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Guardo la sveglia satellitare appoggiata sulla mia scrivania senza distogliere gli occhi. I numeri in basso a destra, più piccoli e dimessi rispetto a quelli cubitali che compaiono dall'altra parte, scorrono a dimostrare il trascorrere dei secondi, e con loro conto il passare del tempo che si verifica attorno a me, qui dentro e là fuori, ovunque.

È in ritardo.

Mi è stato insegnato a comprendere che il concetto di ritardo è in realtà discretamente relativo, per determinate persone uno specifico lasso di tempo è da considerarsi ritardo, per altre no. Cinque minuti non sono universalmente riconosciuti come ritardo, mezz'ora sì, dieci secondi non valgono, dieci minuti dipende da cosa si sta facendo, a lavoro sono ritardo, ad una cena con amici no.

Per me, comunque, il ritardo è una dimensione valutata con l'unità di misura dell'impazienza.

Non m'interessa se un documento arriva un paio d'ore dopo rispetto a quanto avessi preventivato, a meno che non mi serva nel breve termine, doverlo leggere e doverci pensare è qualcosa che non sono impaziente di fare.

Il fatto che Satori dovesse essere qui tre minuti e ventotto secondi fa, invece, è ritardo, perché la sensazione d'impazienza che mi serpeggia in corpo e l'ansia di non sapere quando arriverà mi generano l'impressione che ci sia qualcosa che non vada, e quel qualcosa, è proprio la sua assenza.

Ho dormito col fastidio, stanotte.

È stato come quando mangio un alimento la cui consistenza mi disturba ad una cena in pubblico. La convenzione sociale m'impone e mi obbliga a mandar giù, e lo faccio, ma la cosa mi disturba profondamente e mi sento tutta la bocca bloccata nel ricordo di quella sensazione sgradevole e intollerabile.

Mi sono stretto le mani a vicenda, ho impastato fra le dita la pallina antistress che tengo sul comodino accanto al letto, ho fatto scrocchiare tutte le nocche una ad una, in fila.

Non è servito.

Mi sono sentito le mani troppo vuote, troppo ferme, troppo rigide.

Stamattina, con le falangi immerse nella stessa condizione insostenibile, ho rilassato la mia angoscia ripetendomi che sarebbe stata una questione di ore al massimo, e che avrei trovato sollievo entro la fine della giornata, e che il mio problema non era una condizione interminabile ma un fastidio circoscritto ad un lasso limitato di tempo.

Però ora Satori non c'è.

E si arrampica dentro di me una volta ancora quella smania disperata di volermi sentire meglio e di non sapere come raggiungere quest'obiettivo.

Forse potrei chiamare gli uomini di ieri sera. Mi riferirebbero cos'è successo, e magari mi direbbero dov'è, potrei raggiungerlo io. Nell'eventualità in cui il suo stile di vita, da quando ha detto ieri, sia tanto sregolato da impedirgli di seguire orari prestabiliti, non credo al momento mi darebbe più fastidio doverlo svegliare mentre dorme rispetto all'idea di avere le mani così vuote.

Forse ha cambiato idea mentre lo portavano là, e ora è lontano e distante.

No, se fosse successo qualcosa del genere mi sarebbe stato riferito.

Forse l'ascensore è rotto e non vuole fare dodici piani con le scale.

No, l'ho preso io quindici minuti fa, mi sembra improbabile che abbia smesso di funzionare.

Tiro indietro la sedia quando il suo ritardo raggiunge il quarto minuto.

Mi stiro le pieghe della camicia, tiro in avanti i polsini, circumnavigo la scrivania e punto alla porta.

La apro con calma e m'immetto di qualche passo nella stanza che precede il mio ufficio, è un trionfo di scrivanie tutte diverse, le teste che si girano dalla mia parte sono familiari, attendono ordini com'è normale che sia.

Shirabu è il più tollerabile per la mia vista. È rigoroso, è ordinato, la sua scrivania ha l'aspetto che dovrebbe avere e il suo aspetto non è mai fuori posto, mi mette a mio agio, la sua rigidità, mi sa di qualcosa che ha uno scopo e un modo di porsi ben preciso.

Semi è il primo fra loro che ho conosciuto, e per quanto mi turbi profondamente il fatto che tutto quello che ha nella scrivania sia storto perché la sua postura lo è, trovo conforto nell'abitudine.

Goshiki è un disastro.

Ho fatto mettere la sua scrivania all'angolo perché è un disastro.

Perché l'istinto di andare lì, sistemargli il colletto della camicia, togliere le foto polverose e scattate storte dalla superficie di fronte a cui sta, tagliargli quell'unica ciocca della frangia che supera le altre è talmente forte che alle volte temo di non riuscire a resistere.

Passato qualche istante nell'attesa che io dica qualcosa, quando si rendono conto che non sto parlando, tornano dov'erano.

Shirabu a pinzare i fogli, Semi a guardare i conti, Goshiki a ridacchiare come una tredicenne di fronte al PC che crede nessuno sappia è aperto su un K-Drama che segue da settimane.

Pianto lo sguardo sull'ascensore.

Ok, funziona. I piani scorrono, quindi funziona.

Non è questo il motivo per cui è in ritardo.

Allora dev'essersi alzato tardi, o non essersi alzato proprio, per forza.

Mi giro verso Shirabu per chiedergli di riferirmi quale stanza hanno assegnato al nuovo arrivato ieri sera, ma proprio mentre sto per farlo mi rendo conto di quali numeri scorrano sullo schermetto dell'ascensore, e in che ordine.

Prima era sul due.

Ora è sul nove.

La freccia va verso l'alto.

Qualcuno sta salendo.

L'impazienza che mi attanaglia il respiro mi è quasi sconosciuta. So che per metà rappresenta la prospettiva di potermi finalmente concedere il sollievo che bramo, ma l'altra metà mi è distante e non la conosco.

Non è un'emozione sgradevole, però.

Non la respingo.

Mi viene da sorridere.

Lo faccio.

Non è una cosa che faccio spesso, ma è un'umana conseguenza alle sensazioni positive, e quando e se ne provo una, concedo alla mia testa di fare quello che desidera.

Sullo schermo compare il dodici.

Il suono del campanellino è netto.

Le porte si aprono.

Quando compaiono le gambe lunghe e chiare, la pelle diafana, gli occhi grandi e quei meravigliosi, splendidi, rigorosi quattro nei sul volto e sul torso, tutto quello che dentro di me si sentiva rigido e statico, diventa rilassato e scorrevole.

Satori esce dall'ascensore, si guarda attorno, si tira giù la gonna con le mani e alza le dita per salutare.

Shirabu lo guarda una prima volta ed è come se non lo vedesse, torna su di lui di nuovo con gli occhi spalancati.

Semi aggrotta le sopracciglia e apre la bocca.

Goshiki interrompe il K-Drama e si toglie una cuffietta.

Satori è vestito in un modo che generalmente non assocerei a questo tipo di ambiente.

Nonostante la somiglianza della nostra sede ad un ufficio, somiglianza che mi piace perché ci permette di utilizzare edifici più puliti e meno imboscati di quelli che normalmente si attribuirebbero ad un'attività come la nostra, data la nostra linea di azioni non pretendo da nessuno un abbigliamento di un certo tipo. Tutti si vestono in maniera professionale, io in primis, ma non è una conditio sine qua non, non è un'imposizione, non è richiesto.

Satori non commette certo un'infrazione, a presentarsi così.

Certo però, non passa inosservato.

Ha una gonna corta, corta nel senso che si aggrappa disperatamente al principio delle sue cosce come se stesse per cedere e scoprire tutto, le calze a rete, gli anfibi con la suola alta, una maglietta nera e trasparente che mostra un tatuaggio che gli circonda la vita e i piercing ai capezzoli. Ha i capelli scarlatti bagnati, come se avesse fatto la doccia, e due linee scure sulle palpebre che non so come si chiamino.

Lo trovo bello.

Senza pensarci troppo, perché non è una cosa che sono abituato a fare, semplicemente lo trovo bello.

A rigor di logica possiede poche caratteristiche delle persone che ho trovato attraenti prima di lui e pertanto non lo definirei "il mio tipo", ma logica a parte, che persino io sono consapevole del fatto che poco importi quella nelle questioni così istintive, trovo bello il suo viso, i suoi occhi, trovo belle le sue mani affusolate e le gambe lunghe, trovo bello il colore dei suoi capelli, il modo in cui la sua vita si stringe e come la gonna gli avvolge perfettamente i fianchi.

Mi schiarisco la voce.

– Ragazzi, vi presento Tendō Satori. Lavorerà con noi a partire da oggi. Satori, loro sono Shirabu Kenjirō, Semi Eita, Goshiki Tsutomu. –

Satori sorride, percorre qualche passo dalla mia parte, poi si gira fra i miei sottoposti increduli e agita la mano.

– Piacere mio. Scusate il ritardo, non sono abituato a svegliarmi così presto. –

Nessuno risponde.

Rimangono imbambolati.

Credo sinceramente non si aspettassero da me una persona del genere.

Satori non si cura del loro silenzio.

– Ve lo dico prima che lo chiediate, no, non sono una ragazza, non sono un ragazzo, sono qualcosa ma non so cosa. Usate pure i pronomi che vi pare, non m'interessa, solo non datemi del maschio o della femmina perché non sono nessuno dei due. –

Nessuna risposta.

– Ah, e non chiedetemi che cos'ho sotto la gonna perché non sono affari vostri e potrei arrabbiarmi e non mi va di farvi quello che ho fatto al tizio che me l'ha chiesto ieri sera. –

Aggrotto le sopracciglia.

– Qualcuno ieri sera te l'ha chiesto? –

Satori si rivolge dalla mia parte.

– Sì, il tipo più alto. –

– Non è educato, chiederlo. Dovrei dirglielo, forse. –

– Gli ho rotto il naso, credo abbia capito l'antifona. –

– Oh, ok. Perfetto. –

Mi guardo attorno fra gli sguardi sbigottiti e penso a cos'altro potrei dire loro su Satori, non mi viene in mente nulla di rilevante e pertanto procedo al passo successivo.

Indietreggio e apro la porta.

– Se avete qualcosa da chiedere a me o a Satori, sono in ufficio. Satori, entra, per favore. –

Mi guarda e annuisce.

– Arrivo, ragazzone. –

– Prego. –

Mi supera camminando senza fretta.

Ignoro l'espressione completamente allucinata che Shirabu rivolge a Semi.

Quando mi giro per chiudere la porta alle mie spalle e separare noi due da loro tre, guardo come la gonna abbracci anche il retro del corpo di Satori.

Ha un bel culo.

Ma smetterò di guardarlo prima che il mio cervello trasferisca l'ossessione maturata per i suoi nei su quello specifico punto del suo corpo, perché non sarebbe educato e probabilmente nemmeno troppo intelligente.

Si siede per metà sulla mia scrivania.

Incastra le caviglie fra di loro, le mani al petto, mi guarda e aspetta che lo raggiunga, sta in silenzio.

Mi fermo di fronte a lui.

– Posso toccarti? – gli chiedo, e so che dovrei probabilmente iniziare la conversazione in un modo diverso per essere socialmente adatto, ma il formicolio delle mie mani, ora che ce l'ho davanti, è così intenso da non permettermi di pensare a nient'altro.

– Sì. –

– Puoi scoprire un po' la clavicola sinistra? –

Non risponde.

Tira la maglietta verso il basso perché il quarto neo spunti.

Alzo la mano, traccio la linea con calma.

Destra, sinistra, destra, sinistra.

La sua pelle è liscia, morbida e chiara. I nei sono solo nei, non hanno consistenza ma solo colore, i miei nervi si sciolgono poco a poco, le mani smettono di sembrarmi rigide, la testa fa meno rumore.

– Posso rifarlo? –

– Sì. –

Lo rifaccio.

Rimetto giù la mano quando ho finito.

Mi siedo alla mia scrivania senza dire niente, lui non commenta, la questione non si apre, non si chiude, non c'è, lui la prende comportandosi come se fosse qualcosa di normale, qualcosa che non lo incuriosisce.

Non lo so se sia normale.

Non credo di aver mai visto una persona aver bisogno di fare una cosa del genere.

Però trovo confortevole l'idea che per lui lo sia, e trovo confortevole che non chieda di spiegare un bisogno che io sento e non saprei come spiegare.

Quando torno seduto com'ero prima che arrivasse, anche lui si alza. Mi si avvicina, pinza una pila di fogli a destra della mia sedia e li mette ordinatamente sulla sinistra, si tira su con le mani sul legno, si appoggia lì, con l'esterno del ginocchio destro che quasi sfiora il mio sinistro.

– Com'è andata ieri sera? La stanza che ti hanno dato ti piace? –

– A parte la domanda inopportuna tutto bene. Sì, è molto meglio del posto in cui stavo prima. –

– Ti hanno dato un cellulare? –

– Sì, c'è anche il tuo numero salvato dentro. Però ti avevano salvato con un nome noioso e io l'ho cambiato, "Ushijima Wakatoshi" è uno scioglilingua, per la miseria. –

Alzo le sopracciglia.

– Come mi hai salvato? –

– 'Toshi. È più facile da dire. Ci metto meno. È più efficiente. –

– Sono d'accordo. –

Non trovo alcuna contraddizione a quel che ha appena detto, è vero che il mio nome completo è lungo ed è vero che non è facile da articolare, per quanto una punta d'istinto mi dica che questa più che efficienza è confidenza, non riesco ad elaborare un motivo per il quale non dovrebbe farlo.

Non chiedo mica ai miei sottoposti di chiamarmi in un modo specifico.

Al contrario, m'innervosisce che usino per me un soprannome che viene dall'esterno, perché mi sembra fuori posto, dentro le mura di un luogo dove condividiamo gran parte della nostra vita.

Dondola le gambe nell'aria, per quanto siano lunghe e flessuose è seduto e tirato piuttosto in su sulla mia scrivania, le suole alte dei suoi anfibi sfiorano appena terra.

– C'è qualcosa in particolare di cui avresti bisogno? Qualche richiesta? –

Mi guarda in silenzio.

– Dei vestiti, magari? – suppongo, gli occhi che vagano sul suo corpo distrattamente.

Non so perché li abbia messi addosso.

È vero che non ho diritto né interesse nel prevenire che si esprima come meglio crede, ma se dovessi pensare a me stesso con quella gonna cortissima o con le calze a rete o persino con quella maglia trasparente, immagino che mi sentirei scomodo.

So qual è il lavoro che ha fatto prima, se dovessi dire qualcosa direi che è proprio in vista di quello che li ha comprati, ma qui non m'interessa che sia bello, m'interessa che sia nelle condizioni più confortevoli per poter lavorare al meglio.

– Che c'è, non ti piacciono quelli che ho addosso? – risponde poi, un sorriso che si disegna armoniosamente sul suo viso.

– No, no, mi piacciono. Mi chiedevo solo se ci stessi bene dentro. –

– Dimmelo tu, se ci sto bene dentro. –

– Non posso saperlo se ti ci senti comodo o no. –

Storce il naso, arriccia le labbra.

– Non intendevo nel senso della comodità, 'Toshi, ma in senso estetico. Ci sto bene dentro? –

– In senso estetico sì. Ci stai molto bene. –

Le sue guance si scaldano appena, e anche il modo in cui il rossore gli si spande addosso ha un non so che di simmetrico ed elegante.

Ringrazia a mezza voce.

Non commento, non saprei in ogni caso che cosa dire.

Torno al mio ordine mentale.

– Riguardo alla questione "paga", non so se posso garantire un ingresso simile a quello che ricevevi prima. Ma posso offrirti la stessa cifra che do agli altri. –

Aggrotta le sopracciglia, mi guarda negli occhi.

– In che senso "simile a quello che ricevevi prima"? Mica ero una di quelle puttane stra-pagate che la gente porta in pubblico, 'Toshi. –

– No? –

– No, certo che no. Te l'ho detto, io stavo fisso sul marciapiede. –

Annuisco, se lo dice significa che è vero.

Allora certo non sarà un problema dargli una retribuzione.

Accetterà la cifra più che onesta che gli offro.

Invece di tornare al discorso, lui, però, sembra colto da curiosità.

– Perché, ti sembro una escort di lusso? Ho quell'aspetto? –

– Non so quale sia "quell'aspetto", Satori, non ne ho mai frequentate. –

Ridacchia, poi si indica con lo sguardo.

– Le escort sono molto più belle di me. –

– Tu credi? –

– Tu no? –

Ci penso su.

No, non ho mai frequentato escort, né prostitute per quel che vale. Non ho necessità di pagare per il sesso e non è nei miei gusti farlo.

Però persone che conosco lo fanno.

E li ho visti accompagnati più volte.

Da persone...

– Quelle che ho visto io non erano più belle di te. Non le conosco tutte, però. –

– Magari se le conoscessi tutte cambieresti idea. –

– Non lo so, dovrei farlo per dirtelo. –

Per un attimo, provo a ragionarci su.

Non posso di certo fare una considerazione sperimentale e generica, non ho visto tutte le persone che popolano questo pianeta, non posso sapere per certo una cosa del genere.

Però statisticamente posso trarre una conclusione.

Mi rendo conto che la bellezza è un dato di tipo soggettivo, l'oggettività e i gusti non vanno d'accordo, e per quanto possa affermare che qualcuno è canonicamente bello, so che nella mia percezione il canone e lo standard sono del tutto inefficaci.

Oggettivamente parlando, so che la persona statisticamente più bella è Oikawa Tooru. Ha tutto ciò che la società ritiene convenzionalmente bello. Anche dal punto di vista soggettivo lo trovo bello, ma diversi punti della sua personalità m'impediscono di provare effettiva attrazione nei suoi confronti, oltre al fatto che c'è qualcosa di così classico, così perfetto nella sua bellezza da farmela sembrare in un qualche modo meno apprezzabile.

Soggettivamente parlando, invece, m'interrogo ora su cosa mi dicano i miei gusti personali.

Sakusa dell'Itachiyama mi piace. Ha un bel viso, la conformazione del suo corpo mi piace, è bello ma in un modo particolare, un po' tenebroso, che trovo interessante.

Però i suoi nei non sono disposti come sono disposti quelli di Satori.

Saltare con lo sguardo tra uno e l'altro, non è così piacevole.

Anche Shimizu del Karasuno, mi piace. Ha i capelli scuri, lucidi, sembrano seta, e ha sempre un buon profumo.

Però devo piegare la testa verso il basso per parlarle, e mi fa male il collo, ed è tanto taciturna che non saprei cosa dire se mi ritrovassi da solo con lei.

Satori invece...

È diverso da entrambi. Loro due condividono nonostante differiscano in tanti dettagli lo stesso esatto tipo di bellezza, ed è quello che ritengo essere "il mio tipo", capelli scuri, pelle chiara, silenziosi, calmi e pacati. Satori non ci somiglia, e mi chiedo ora se l'avessi incontrato prima se "il mio tipo" sarebbe stato diverso.

Statisticamente, in questo momento, e soggettivamente io credo sia la persona più bella che io abbia mai visto.

Non dubito che questa cosa potrebbe cambiare, ma ora è vera, e l'accetto così com'è.

Lo trovo bello.

Forse persino più, di bello.

È così bello, e così fuori dal comune nel suo modo di esserlo, che è per me anche tremendamente interessante.

Voglio saperne di più, di lui.

Vorrei poter capire se tutto quello che c'è fuori è eguagliato da quello che c'è dentro.

Se dovessi ritrovarmi a ritenere bello anche il lato interiore, allora in quel momento saprò che nei suoi confronti provo attrazione.

Provo una strana forma d'impazienza alla prospettiva di scoprirlo.

Sto iniziando a vagare col pensiero all'interno del database di domande da fare a qualcuno per conoscerlo, quando lo vedo girarsi di spalle sulla mia scrivania.

Prende la mia tazza di caffè dietro la sua schiena e la sposta verso il centro, toglie la custodia degli occhiali che metto quando mi viene mal di testa di fronte al PC, il pacchetto di sigarette. Quest'ultimo, prima di appoggiarlo, lo apre, pescandone fuori una dal filtro che avvolge con le labbra.

Gli porgo l'accendino prima che lo chieda.

Mi sorride, l'accende, poi si stende sul legno dietro di lui e dondola le gambe nell'aria.

– E io che mi aspettavo un covo con le pareti piene di sangue. Questo posto fa invidia all'ufficio di un'azienda. – commenta poi, le volute di fumo che s'inerpicano su dalla sua bocca e fluttuano attorno al suo corpo steso.

Faccio più fatica del previsto a strappare lo sguardo dalla porzione delle sue cosce scoperta dalla gonna che si è tirata su mentre si abbassava.

– Non è di tuo gusto che sia così? –

– No, macché, mi piace. Anche se è comunque un lavoro un po' strano è carino poter pensare di essere una persona normale in un ufficio normale. E poi il sangue puzza, qui invece profuma tutto di Arbre Magique. –

– È il profumatore per ambienti che ha comprato Shirabu. Dice che anche se siamo mafiosi possiamo comunque essere persone civili. Mi trovo piuttosto d'accordo. –

Satori piega la testa di lato per guardarmi, rimane steso, ma intreccia gli occhi coi miei.

– Shirabu è quello con la frangia storta. –

– Lui, sì. –

– State insieme? –

Aggrotto le sopracciglia.

– No. Qualcosa te l'ha fatto pensare? –

– Quando ti ho chiamato "ragazzone", prima, non hai visto come mi ha guardato? –

Scuoto la testa.

– No. Come ti ha guardato? –

Increspa le labbra in un sorriso, mi indica con la sigaretta che tiene chiusa fra le dita.

– La gelosia la riconosco quando la vedo. E quella, 'Toshi, quella era gelosia. Mi sa che se non state assieme allora il ragazzo potrebbe avere una cotta. –

– Per me? No, non credo. Ci conosciamo da tanto, me l'avrebbe sicuramente detto. –

– Magari ha paura del rifiuto. Oppure è intimidito. –

– Non ha senso, se ti piace qualcuno continuare ad avere una cotta per anni è una tortura, è chiaramente più funzionale dichiararsi e togliersi il pensiero. Un rifiuto non è piacevole, ma non è la fine del mondo. –

– Ah, non dirlo a me, io sono d'accordo, però sai, non tutte le persone sono uguali. –

– Suppongo che anche questo sia vero. –

Batte la cenere via dalla sigaretta scaricandola nel posacenere che tengo al centro della scrivania, facendolo allunga un braccio e la sua maglietta si tira un po' su sulla pancia piatta.

Il mio sguardo viene naturalmente catturato dal disegno che si avvolge attorno alla sua vita.

Credo sia un serpente.

Non vedo però chiaramente quale sia.

– Posso vedere il tatuaggio? Non riesco a capire che cosa rappresenti. –

Infila il filtro fra le labbra, annuisce, con le dita affusolate e sottili tira su l'orlo trasparente fin sotto le costole, apprezzo oltre all'inchiostro anche la conformazione del suo corpo, che è così sottile e affusolata e dannatamente simmetrica.

– È un serpente corallo. Forse il mio animale preferito. –

– Ti piacciono i serpenti? –

Annuisce.

– Mh-mh, un mio cliente abituale ne aveva un sacco a casa e nonostante lui mi stesse davvero antipatico loro mi piacevano, mi sono appassionato. Ho visto una montagna di documentari. E questo qui, – si indica la pancia – è il mio preferito di tutti. È un bastardo, proprio come me. –

Guardo la trama tatuata sul suo corpo, gli anelli rossi, gialli e neri, il modo in cui la coda scende verso l'ombelico e quello in cui la testa sale verso lo sterno.

– È un predatore attivo anche se è relativamente piccolino, e il suo veleno uccide in pochi minuti. Mangia anche gli altri serpenti. È una specie solitaria e anche quando si accoppiano, i maschi scappano subito dalle femmine perché rischiano di essere mangiati visto che sono più piccoli e più deboli. –

La sua voce suona divertita, interessata, e lo ascolto in silenzio.

– Fa talmente tanta paura agli altri animali che ci sono serpenti che imitano la colorazione del serpente corallo per difendersi dai predatori. Si chiama mimetismo batesiano, quando un animale innocuo imita l'aspetto di un animale pericoloso per farsi lasciar stare. Ho visto un documentario anche su questo. –

– Io non sono sicuro di aver mai visto un documentario per scelta personale. Tu ne sembri così appassionato che mi chiedo se forse non avrei dovuto. –

– Certo che dovresti, sono bellissimi! Un giorno te ne faccio vedere uno io. Ce n'è uno austriaco sulla vita segreta dei serpenti che mi piace da morire. L'ho visto mille volte e lo riguarderei altre mille. –

– Va bene. Per me va bene. Quando sei libero, poi ci organizziamo. –

– Perfetto, andata. –

Mi sorride, tira giù la maglietta e la rimette a posto dentro la gonna, dopo aver scaricato la cenere mi indica di nuovo con la sigaretta.

– Tu? Hai tatuaggi? –

– Uno. –

– Dove? –

– Qui. – rispondo, toccandomi il petto con una mano.

Mi segue con lo sguardo, gli occhi assumo un aspetto incuriosito.

– Posso vederlo? –

– Sì, certo. –

Slaccio la cravatta con calma, l'arrotolo, l'appoggio di fronte a me. Non porto la giacca perché in ufficio fa già abbastanza caldo, quindi mi limito a sbottonare la camicia dal colletto fino a al fondo dello sterno.

Satori si alza, quando vede il disegno spuntare dal tessuto.

Tira su la schiena e si avvicina.

– È un'aquila? –

– Il simbolo della famiglia, sì. Tutti dobbiamo averne una. –

– Miseria, è bello. –

Conosco il disegno a memoria, lo vedo qui da quando avevo sedici anni, preferisco osservare la reazione sulla faccia della persona di fronte a me piuttosto che il solito ammasso di linee familiari.

Pare interessato.

Credo gli piaccia per davvero.

Segue con lo sguardo le ali aperte sul petto che arrivano fino alle spalle, il corpo dell'animale al centro, le piume scure, che sfumano dal nero ad un colore più caldo e più chiaro.

– Che aquila è? –

– L'aquila reale giapponese. Hai visto un documentario anche su questa? –

– Ancora no. Ma ora che me lo fai notare potremmo anche guardarne uno. –

L'espressione sul suo viso è chiaramente scherzosa, non rido, però gli angoli della mia bocca si alzano da soli.

Satori allunga una mano, fa per sfiorare il disegno sulla mia pelle, ma si blocca prima.

– Posso toccarti? – chiede, in un'espressione che finora avevo usato solo io.

– Sì. – rispondo.

E senza procedere oltre nella conversazione passa delicatamente le dita sull'inchiostro che mi tinge.

Pochi secondi, solo pochi secondi.

Pochi secondi piacevoli.

Che non mi piace il contatto fisico, normalmente, perché mi prende alla sprovvista e non so cosa aspettarmi, ma lui me l'ha chiesto, a me andava bene, e non ho l'ansia dell'imprevisto ma solo la tranquillità dei fatti dichiarati.

Quando si stacca, tiro su le mani per richiudere la camicia.

Mi chiede se può farlo lui per me, tanto che è lì.

Acconsento.

Chiude i bottoni con calma.

Li infila nelle asole uno ad uno, dal più basso al più alto, quando arriva al colletto, mi tira leggermente verso di sé per stirare il tessuto e data la distanza così ravvicinata, studio il suo viso in ogni dettaglio.

Ha anche le ciglia rosse. Quindi non è una tinta, è il suo colore naturale. È particolare, appariscente, ma in qualche modo anche delicato.

Le lentiggini sono tante e sono chiare, così chiare che la maggior parte non si notano, e gli si spandono solo sul ponte del naso.

Ha gli occhi scuri, ma il tono è caldo, quasi sembrano dello stesso colore dei suoi capelli.

Ha le labbra secche, piuttosto sottili, ma mi danno l'idea di essere morbide e mi chiedo se lo sarebbero davvero, se tirassi su la mia mano fra noi e ci passassi sopra un polpastrello.

Apro la bocca per chiederglielo.

Il genere di fastidio che mi dà non poterlo fare, è davvero ineguagliabile.

Prima che possa fare qualsiasi cosa, un rumore improvviso c'interrompe, sento i miei nervi tendersi, il mio cervello andare momentaneamente in tilt e Satori, seduto sulla scrivania ora non più di lato ma più spostato di fronte a me, si blocca congelandosi così, con le mani sul colletto della mia camicia e le dita intente a chiudere l'ultimo bottone.

Attendo qualche istante, prima di reagire.

Il tempo necessario alla mia testa di riprendere il corretto funzionamento.

Satori abbassa le mani, indietreggia di colpo, si gira, e io allo stesso modo rivolgo la mia attenzione alla porta.

Shirabu è sullo stipite con due faldoni in mano.

Mi guarda, ci guarda in un modo che non riconosco.

Ha il tipico cipiglio che da piccolo mi hanno insegnato essere astio, le labbra separate della sorpresa, ma non associo a nessuna delle emozioni che ho imparato l'inflessione del suo sguardo.

A prescindere da tutto, però, il rimprovero che esprimo mi sorge spontaneo.

– Perché non hai bussato? Sai che devi bussare, prima di aprire la porta. –

Colto in flagrante dalla sua mancanza, cerca di ricomporsi.

Quando parla, ha la voce stretta.

– Avevo le mani... le mani occupate. Scusami. –

Lascio perdere con un gesto del capo, gli faccio cenno di avvicinarsi.

Lo fa con le gambe che tremano.

Appoggia i faldoni sulla mia scrivania, nella porzione di essa che non è occupata dal corpo di Satori, e se mi aspetto che esca com'è entrato conclusa la sua mansione, Shirabu invece si ferma e manifestando chiara insicurezza rispetto a quello che vuole dire, chiede.

– Che cosa... che cosa stavate facendo? –

Satori sorride.

Prende fiato per rispondere prima che lo faccia io.

– Volevo vedere il tatuaggio di 'Toshi. –

– "'Toshi"? –

– Abbiamo deciso di comune accordo che è più efficiente che chiamalo "Wakatoshi". Non sei d'accordo, Shirabu? –

Quello annuisce, ancora con quella strana espressione in viso, indietreggia di qualche passo, studia me, Satori, lo spazio fra noi.

Non se ne va.

Non riesco a capire perché non se ne vada.

Lo dico.

– C'è ancora qualcosa di cui hai bisogno? –

Scuote la testa.

– No, no, nulla. –

– Chiudi la porta quando esci. E la prossima volta ricordati di bussare. –

China il capo.

– Sì, Ushijima. –

Ci dà le spalle e se ne va, facendo quello che gli ho chiesto, sempre con la stessa sconosciuta afflizione fra i tratti del volto e le gambe incerte.

Quando il rumore del legno che si chiude conclude questa parentesi improvvisa, Satori si gira verso di me e sorride indicando la porta.

– Che ti avevo detto? Gelosia, 'Toshi, quella è gelosia. Forse non conosci i tuoi ragazzi tanto quanto credi. –

– Dici che è gelosia? Non lo so, non l'ho riconosciuta. Non sono molto bravo a interpretare le persone. –

– Io credo di esserlo e credo anche che quella lo fosse. –

Annuisco.

– Se è davvero così dovrò parlargliene. È necessario che metta le cose in chiaro. –

Satori alza le spalle.

– Io non credo che sia così indispensabile. Forse sarebbe meglio se lasciassi che sbollisse da solo. –

– Dovrei far finta di niente? –

– Immagino che prima o poi capirà l'antifona e passerà ad altro. Farglielo notare sarebbe molto più umiliante, secondo me. –

– Lo prenderò in considerazione. –

Faccio spallucce.

– È strano, però, mi ha visto più volte anche con persone con cui stavo assieme e non ha mai fatto quell'espressione. Tu mi stavi solo sistemando la camicia. Non capisco davvero cosa ci sia da essere gelosi. –

Satori sospira.

– Probabilmente da dove è entrato gli è sembrato che ci stessimo baciando. Per quello ci ha chiesto cosa stessimo facendo. –

– Ah, giusto. Non ci avevo pensato. –

– E poi siamo a lavoro. Forse è più mentalmente preparato fuori da lavoro a vederti con qualcuno, ma qui no. La combinazione delle due cose magari gli ha dato fastidio. –

Faccio "sì" con la testa.

– Ha senso. –

Lo guardo negli occhi.

– Grazie di avermelo spiegato. – dico, pensandolo, e volendolo mettere bene in chiaro.

– E di che, quando vuoi. – risponde, mettendo in mostra un sorriso che trovo sinceramente adorabile.

Mi sposto verso i faldoni col cuore che batte giusto un po' più velocemente.

Spunto la casella mentale "accelerazione del battito cardiaco" nella mia lista di segnali che sto provando attrazione fisica nei confronti di qualcuno.

Guardo le parole scritte e stampate sulla carta e riesaminando le caratteristiche necessarie a definirmi sessualmente interessato mi rendo conto che non ho uno specchio a tiro, e pertanto devo chiedere.

Apro la cartellina, senza farmi problemi pongo il mio quesito.

– Satori, come ho le pupille? Sono dilatate? –

Lui mi guarda.

Si china dalla mia parte, si avvicina.

Mi piace l'espressione che fa.

Stringe lo sguardo e gli si forma una raggiera di rughette sul naso che increspano tutte le sue lentiggini.

– Sì, un po'. –

– Perfetto. –

Torno ai fogli.

Come ho le mani? Sudano? No, non mi pare che lo stiano facendo, questo ancora manca. E la voce, la voce deve avere un tono diverso, ma io da solo non riesco a sentirla mutare, e a lui non posso chiederlo.

Lo chiederò a...

No, non a Shirabu.

Sarebbe insensibile.

Sono grato a Satori per avermelo fatto notare, non l'avesse fatto ora lo starei chiamando all'interfono per avere una risposta alla mia domanda.

Non voglio ferirlo, non si feriscono gratuitamente le persone.

Leggo le righe di resoconti scritti dal mio sottoposto.

Un paio di persone non hanno restituito i soldi alla prima rata, dovrò mandare qualcuno a tagliare qualche dito, ma per oggi niente di più. Una fornitura è arrivata con quattro giorni di ritardo, dovrò far chiedere anche di questo, e pare che ci sia qualcuno che vive nelle stanze sotterranee, come Satori, che non si vede da almeno un paio di settimane.

Cerco la penna alla cieca per scrivere una lista di cose da fare.

Non ritrovandola, alzo lo sguardo, e mi rendo conto che è rotolata proprio addosso alla coscia dell'unica altra persona qui dentro.

– Posso prendere la penna? –

– Dov'è? –

– Lì. –

Indico la sua gamba.

La sfila al posto mio.

Me la porge.

Mi rendo conto che mi scivola un po' fra le dita, quando la prendo, e che probabilmente la terza delle mie quattro reazioni fisiologiche involontarie si è svegliata nel momento in cui sono stato costretto a fissargli la coscia avvolta nella trama delle calze.

Mi sudano le mani.

Prendo un foglio, ci scrivo sopra.

Satori guarda la mia calligrafia dall'alto.

– Chi sono questi tizi di cui stai scrivendo il nome? –

– Gente che non ha pagato. –

– Ah, quindi c'è del lavoro anche per me! –

– In realtà no, è la prima rata, alla prima rata non c'è bisogno di uccidere nessuno. Temo che per oggi non ci sia bisogno che tu faccia nulla. –

– Ma come no, e io che faccio, rimango qui a rotolarmi sulla scrivania tutto il giorno? –

– Sì. –

Guarda me, guarda la scrivania, ridacchia.

– Beh, non che mi dispiaccia, ragazzone, per carità. Tu sei bello da vedere e questo posto è probabilmente il meglio conciato che abbia mai visto nella mia vita. Però poi mi sento in colpa, tu mi paghi e io non faccio niente. –

– Non ti devi sentire in colpa, non è che sia una responsabilità di nessuno. Certi giorni mi serve quel tipo di cosa, certi altri giorni no. Oggi no. È così e basta. –

Stringe le labbra fra loro, si piega verso di me giusto un po'.

– E senti, non è che magari potremmo... che so, prendere uno di questi delle dita e decidere che invece delle dita lo uccidiamo? –

– No, le regole sono regole. –

– E chi le fa le regole? –

– Io. –

– E allora le regole sono regole anche se le cambi. –

Stringo le sopracciglia, scuoto il capo.

– No, una regola suppone la costanza di un fenomeno, quindi prevede che si ripeta uguale ogni qual volta quel determinato fenomeno si presenti. –

– E non hai mai sentito parlare di eccezione che conferma la regola? –

– In realtà non ho mai capito cosa significhi, quindi sì, ne ho sentito parlare, ma non so cosa sia. –

Si pizzica una guancia fra i denti dall'interno, apre i palmi dietro di sé, stira la schiena e incrocia le caviglie.

– Allora, la tua regola è che al mancato pagamento della prima rata tagli le dita a chi non ti ha pagato. Posta così non va bene. Ma se noi la ponessimo tipo... che si tagliano le dita a chi non paga la prima rata se e solo se quella rata è di valore inferiore a... che ne so, quattro milioni di yen, allora uccidere qualcuno che aveva una rata di quattro milioni e uno conferma la regola delle dita. –

– Ma la regola non prevede alcuna cifra. –

– Beh, perché no, secondo me dovrebbe. –

Seguo il suo discorso con interesse.

– Perché dovrebbe? –

– Perché immagino che il punto di affettare falangi sia dimostrare che all'infrazione della fiducia corrispondono delle conseguenze. Però se la consideri come l'hai pensata tu stai considerando uguali affronti diversi. Ammetterai anche tu che non pagare una rata di cento yen è molto meno grave di non pagarne una da cento mila. Alla persona a cui ne hai prestati cento hai dato una fiducia più piccola, se la tradisce, il tradimento è più piccolo. –

– In effetti non ci avevo mai pensato in questi termini. –

– Dovresti farlo. E dovresti anche modificare il numero della rata col valore economico. Non ha senso uccidere alla seconda rata, ha più senso uccidere dopo un certo valore. –

– Credo di aver afferrato quello che intendi. –

Fisso lo sguardo sul foglio di fronte ai miei occhi.

M'immergo nel suo ragionamento.

Fila e fila perfettamente. È logico, la sua tesi è ragionevole, a fronte del fatto che la mia regola ha sempre funzionato, mi rendo conto che quella che lui ha esposto è effettivamente una falla.

Se uccido qualcuno che alla seconda rata non mi ha ripagato indietro un totale di quattro milioni di yen ma lascio in vita qualcuno che con la prima ne ha saltati quattro milioni e uno, sto usando due pesi e due misure.

Sono d'accordo con lui.

Non ho problemi ad ammetterlo, sono d'accordo con lui.

Ha ragione.

– Sì, quello che dici ha più senso di quello che dico io. Va bene, cambiamo la regola. –

Sorride a trentadue denti.

– Sul serio? –

– Sul serio. –

Torno ai nomi e ai conti di Shirabu.

Il primo mi deve due milioni, il secondo uno e mezzo, il terzo tre, il quarto settecento mila, il quinto ci...

Il quinto cinque milioni.

Cinque milioni e seicento mila yen.

Cerchio il suo nome con la penna.

– Ecco, allora secondo la nuova regola, lui è da ammazzare. –

– E posso ammazzarlo io? –

– Beh, devi. È il tuo lavoro. Così gli altri che non pagano avranno paura e pagheranno. O faranno la sua stessa fine, se sono completamente idioti. –

– Quand'è che andiamo? –

– Io non vengo. E tu puoi andare quando vuoi. –

Al sentire le parole "io non vengo", la sua espressione emozionata improvvisamente si dissolve. L'entusiasmo sfuma, la sua bocca si piega all'ingiù.

– In che senso tu non vieni? –

– Pago te per non farlo io. Perché dovrei venire? –

– Perché è il mio primo giorno di lavoro e ho bisogno che qualcuno mi guidi per imparare come farlo al meglio. –

– Ho visto ieri sera che sai farlo al meglio, non credo di avere nulla da insegnarti. –

La sua voce diventa un po' più lagnosa, un po' più strascicata, e mi guarda in un modo che mescola la mestizia con il divertimento.

– E dai, 'Toshi, accompagnami, solo per questa volta. Che c'è, hai una regola anche per questo? "Non si accompagna Satori in giro"? –

– No, non ho una regola. Però io devo fare il mio, di lavoro. –

– E quanto ci vorrà mai ad uccidere uno stronzo? Dai, vedila come una pausa. –

– Non sono solito prendermi pause. –

Sbatte le ciglia.

– E io non sono solito farmi toccare la faccia e il collo da persone che non conosco. Ma a te l'ho fatto fare, perché sapevo che ti avrebbe fatto piacere e volevo farti un favore. –

Rimango zitto.

Non ha tutti i torti.

In effetti, far piacere a qualcuno e fare un favore a qualcuno sono comunque motivi validi per compiere un gesto.

Di certo poi oggi non mi aspetta una giornata particolarmente lunga, né particolarmente pesante.

E poi ora che me l'ha detto ho voglia di toccarlo di nuovo e se poi mi venisse voglia di toccarlo e lui non ci fosse oppure lui dicesse di no perché non ho fatto quello che chiedeva? Se lui non volesse farmi un favore perché io non l'ho fatto a lui? Questo scambio non sarebbe più com'è e io mi sentirei le mani rigide e le falangi bloccate e i palmi vuoti, mi sentirei a disagio, e di certo non voglio sentirmi a disagio.

– Posso toccarti? –

– Facciamo che smetti di chiedermelo e ti dico io se non puoi. –

– Sicuro? –

– Sì. –

Alzo la mano, aspetto che tiri giù la maglia, ripercorro il sentiero dei suoi nei con le dita.

– Va bene, vengo con te. –

Ricomincio dallo zigomo, la mia ansia si dipana poco a poco.

– Bravo, 'Toshi, così si fa. Ora, veniamo alle cose importanti. Com'è che devo farlo secco, il tizio? –

È come un formicolio che si spegne e si riaccende, prima è fastidioso, m'interrompe il flusso del sangue e mi fa sentire intorpidito e stanco, poi diventa piacevole, ed è come se accarezzasse la mia pelle da fuori.

Destra, sinistra, destra, sinistra.

– Come preferisci tu. Basta che sia qualcosa di cruento e che mandi un messaggio. –

– Mmh, capito. –

Attraverso le sue labbra per congiungere quello superiore al lato del suo collo, lui rimane con la bocca chiusa, ci pensa un po' su.

Io non riesco a smettere.

Non riesco davvero a smettere.

– Hai mai bruciato viva una persona, 'Toshi? –

– Di persona no. Ho dato l'ordine, però. –

– Che dici, ti va di vedere com'è davvero? –

Mi guarda negli occhi.

Vedo fino in fondo alla sua espressione che anche se sto facendo questa cosa così strana per chiunque io conosca di fissarmi e ingabbiarmi nella regolarità di un gesto semplice, per lui questo non è incomprensibile, non è folle, non è imbarazzante.

Lo tratta con normalità.

Tratta me, con normalità.

Chiunque mi circondi ha sempre fatto finta di niente e so che per chi non mi somiglia è il modo più civile di entrarci in contatto, però ignorare è diverso dal prendere atto che ci sia e comportarsi come se fosse normale.

Lui non lascia perdere.

A lui semplicemente sembra... normale.

Me ne rendo conto da solo, che il mio tono di voce cambia, e me ne rendo conto anche se non credevo di poterlo fare.

È decisamente più dolce.

Decisamente più basso.

Decisamente il quarto e ultimo segnale della mia lista.

– Va bene. –

Mi sorride.

– Allora quando ti senti a tuo agio a smettere andiamo. –

– Non lo so quando mi sentirò a mio agio. –

Alza le spalle.

– Non importa. Non c'è fretta. Fai con comodo. –

Poi chiude le labbra, rimane zitto, mi segue con le pupille.

Nei suoi occhi, nonostante sia qualcosa che non mi serve, che non cerco e che non voglio, mi trovo sereno nel sentirmi normale.

Mi sento normale anche qualche ora dopo, nel cortile interno di un edificio abbandonato che abbiamo sempre usato per questo scopo, mentre saltella attorno ad un poverino imbavagliato che prega con parole che non distinguo, una tanica in mano e un sorriso stampato e aperto sulle labbra.

Mi sento normale, mentre versa il liquido incolore sui suoi vestiti, addosso a lui, per terra.

Mi sento normale quando gli toglie il tessuto dalla bocca e soffoca le sue grida costringendolo a mandar giù un bel sorso di cherosene.

Mi sento normale, anche se somiglia sempre di più a quella bestia di cui parlava prima, il serpente corallo che divora i maschi dopo l'accoppiamento, che avvelena e uccide in pochi minuti, perché in un certo qual modo ricopre un po' di quella voragine che ha scavato Iwaizumi andandosene tre settimane fa.

La ricopre in un modo diverso.

Però lo fa.

E lo fa quando tira fuori un accendino con la miccia che rimane accesa, mi si avvicina a un paio di metri di distanza dall'uomo imbevuto nell'accelerante, lancia la fiamma dalla sua parte, ascolta le urla disperate di dolore.

Non ho paura di lui.

Non capisco perché ne avessero i tipi di ieri.

Dopotutto io per essere qui ho fatto quello che ha fatto lui, forse con meno entusiasmo, con meno fretta, ma la stessa identica cosa, e dare la morte nel mondo in cui viviamo non è così raro da trovarlo inquietante.

Se a lui piace che gli piaccia.

È bravo a farlo.

Non vedo perché non dovrebbe divertirsi.

Sfila il pacchetto di sigarette dalla mia tasca, ne infila una fra le labbra, si avvicina alla pira che brucia, le urla ormai sono un ricordo, il corpo non è più abitato da alcuna persona.

Si accende la sigaretta sulle fiamme che carbonizzano quello che era un essere umano.

Torna da me dicendo di aver finito.

Mi guarda e mi sento normale.

Lo guardo e spero di farlo sentire normale anch'io.

Nessuno dei due lo sarebbe per chiunque altro.

Ma a me andrebbe bene, anche se lo fossimo esclusivamente per noi stessi.

─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.──

oggi un pochetto in anticipo che devo uscire quindi ecco se no arrivo in ritardo (tanto arriverò comunque in ritardo) (i miei amici sono da fare santi poveri)

niente vi chiedo as always se vi è piaciuto sisi :D

vi auguro una buona giornata

ci vediamo domani cuory <3

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