Superbia
Le terre di Babele furono casa dinanzi ai miei occhi. Ogni estremo di farlocchi, dominava i miei passi perché potessi raggiungere la vetta che toccava quelle nuvole di cartapesta.
Così, spinta e spintonata dalle vernici tinte dalla brama di impossessarsi delle mie sinapsi, dall'alto dipinsi il panorama sotto il rovello della catarsi: e conobbi la morte.
Le ossa di legno storte si fecero avvolgere dalle fiamme contorte del sole e il burattino in me venne impiccato perché potesse fare da riflettore per la tela sporca di scompiglio. Macchie di vomito e veli di inchiostro, questo vidi allora, e ogni gemito in me prese forma in paranoiche bestemmie volte a battezzare il perdono per ogni mio filantropico obiettivo.
Creativo, evasivo e infondo genuino modo di calpestare il mio narcisismo incatenato a soffocanti manette di masochismo, e questo tutto sommato piacque al critico d'arte che illustrava la mia opera come la via per annegare in quei conati che attimo dopo attimo non facevano che moltiplicarsi, triplicarsi fino a trasformarsi in una cascata fiammeggiante di spiriti ribollenti.
E quanto gli piacque, mentre contribuiva ad alimentare le fiamme dell'abortivo capolavoro con la sua benzina di gelido inchiostro.
Così Babele brillò tra le fiamme, sotto la luce del creatore superbo che portava il mio nome, e le sue ceneri non conobbero perdono.
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